ECONOMIA E DEPRESSIONE

 

Limitata e sporadica, la depressione è esistita sempre, e con più nomi nominata: spleen, cafard, acedia, taedium vitae, ecc.). Oggi è epidemica, pandemica, colpisce dovunque chiunque. Dove ci sono molti libri, là ha un luogo di elezione, si fissa, non la mandi più via. Contro questo pervasivo malessere (mal-di-essere) non tengono benesseri sociali o personali, e i farmaci (psico-farmaci, antidepressivi, sonniferi, Prozac) alimentano una sterminata industria, interessata ad attenuarla senza guarirla: a creare e diffondere il morbo della Dipendenza.

Tutto l’Occidente, e ormai resta poco che non sia caricatura di Occidente, è interiormente depresso e condotto dai farmaci; la condizione esistenziale delle città (e di non-città non esiste quasi più nulla, nemmeno i deserti) è generatrice incessante di ogni forma di depressione.

Ora, con questo vomitare ininterrotto, stampato e mediatico, economia-economia-economia, questo non occuparsi d’altro delle nuvole dirigenti, questo sparare addosso alla gente con fucili d’assalto che c’è una crisi inaudita, mai vista finora, colossale, irrimediabile, ovviamente planetaria, e che perciò bisogna sottomettersi, insieme al farmaco, a qualsiasi sopruso del potere, di anima umana non ne vedrai più pendere che brandelli, e il Panico ti avrà in pugno. Siamo diventati, ascoltando la radio, leggendo i giornali, un bugliolo tremante, un triste cesso dove si deposita il malaugurio – vedi i titoli, assorbi i commenti, crogiòlati negli approfondimenti…

E l’anima umana (se vuoi puoi chiamarla anche psiche, ma non ti permetto di chiamarla il dna) piglia il nutrimento, come un eterno lattante, da quando esiste il linguaggio radicato nel pensare, dalle parole. Stiamoci attenti. Perché l’anima – quella che la Scrittura nomina come néfesh chàim, «anima-che-vive», non ente trascendente ma lo stesso respiro – accolga come vitale nutrimento le parole, carne del Logos trascendente, occorre che nessuna abbia riferimento a questo drago fumante che viene chiamato economia non osando guardarlo in faccia e ucciderlo. L’economia, nel linguaggio corrente, è fecalità invasiva, bisognosa di purga drastica. Fa’ che l’assorbiamo in quantità crescente da tutto quel che è parlante (scritto o audiovisivo, e ritengo che qui il mezzo più potente sia il radiofonico, tutte le sonorità più assassine l’universo umano le riversa nella penetrazione acustica) e vedrai in quale stato avrai ridotto questo tapino di inconscio, individuale e collettivo.

Il nostro rapporto col mondo numerico è fatto dalle piccole cifre. Anche un ministro dell’Economia – che ha in casa la sartoria dei miliardi in dollari e in euro – quando spende da uomo qualunque conta i centesimi nel portamonete, e al massimo può arrivare a spendere cento euro quando gli si presenta un conto di ristorante. Per dei girasoli o una Provenza di Van Gogh, di valore spirituale immenso, senza corrispondenza monetaria, io troverei giusto non si spendessero a un’asta più di otto-novecento sterline. Un’asta onesta dovrebbe partire da tre-quattrocento; bravo Sotheby, questi sono affari puliti! Il vero mercato, per tutta la gente comune, e nel mondo, bene è stato scritto, «non è se non vulgo», il mercato che lascia l’anima vivere, è il mercatino ortofrutticolo, o la fiera mensile dell’antiquariato. Le cifre spasmodiche delle Borse, invece, sono percentuali di morte, necroeconomia, come la definì la «Welt», al tempo ancora del marco in marcia dell’Aida. E dappertutto dove il Leviatano fetentissimo della necroeconomia alza la testa spaventosa, la Depressione miete vittime a milioni. E non c’è difesa.

Tratto da: Guido Ceronetti, Tragico tascabile

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