«5 agosto. È arrivato agosto che ha rivestito le colline di lupini dorati e affollato gli argini erbosi di campanule. I campi gialli di lupini sono così splendidi nei giorni senza nuvole che di recente ho trascurato le foreste e scarrozzato per i campi aperti, per poterne godere del profumo mentre gli occhi ne assorbono la bellezza. Osservare il pendio di una collina ricoperta di tale biondo splendore proiettata nell’azzurro del cielo mi comunica una felicità tanto intensa da sfociare nel dolore. I fiori raccolti in spighe dritte, vigorose, assomigliano ai giacinti, ma il colore intenso possiede una divina luminosità che un giacinto giallo non potrà mai uguagliare; inoltre i petali non sono “cerati” ma vellutati, e le foglie non sono cascanti, ma fronde forti e insieme delicate di uno squisito grigio-verde la cui fioritura vela l’intero campo di una nebbia leggera; per non dire del profumo, sicuramente quello del Paradiso. La pianta è tutta piacevolissima – forma, crescita, fiore e foglia – e ai cavalli tocca aspettare con molta pazienza una volta che mi depositano tra i lupini, perché non ne ho mai abbastanza del rimanere seduta immobile in quei bellissimi campi radiosi. Non lontano da qui, una bassa catena di colline, assolutamente prive di alberi, corre da nord a sud: ai loro piedi, sul lato est, si apre una specie di strada, principalmente di pietra, ma prestando attenzione si riesce a percorrerla in calesse, e di là dalla strada la pianura si allunga verso est e verso sud; colline e pianura sono ora un manto d’oro. Mi ci sono recata a tutte le ore del giorno – non so tenermene distante – e le ho viste di mattina presto e a mezzogiorno e di pomeriggio, e di sera al chiaro di luna, quando tutta l’intensità era sfumata nel colore e concentrata nel profumo; ma il momento supremo è l’istante in cui il sole cala dietro le basse colline: lo splendore è tale che ti sembra di aver raggiunto le porte del paradiso. L’altro giorno, essendo impulsiva, sono davvero scesa dalla carrozza e ho incominciato a inerpicarmi su per la collina, quasi aspettandomi di vedere le glorie della Nuova Gerusalemme. Sciorinatemi davanti agli occhi quando avessi raggiunto la cima; naturalmente ci rimasi male nel trovarmi di fronte a prosaici campi di patate, ad alcuni vitelli che se ne tornavano a casa sollevando ovunque la polvere della strada, e, più in là, lo Schloss del nostro vicino, mentre la Nuova Gerusalemme era lontana come sempre.
È per me un sollievo scrivere dei temi che tanto mi appassionano: evito infatti di parlarne, per non essere considerata un’insopportabile fanatica, e so bene non esistere seccatura peggiore del ritrovarsi gettati addosso gli entusiasmi altrui quanto tu non ricambi affatto. Ne sono del tutto consapevole e in genere riesco a trattenermi; ma a volte ancora adesso, dopo anni di esercizio nell’arte di tenere la bocca chiusa, qualche frammento sparso delle mie emozioni tende a spuntare fuori, ma poi il freddo sguardo di totale chiusura o di indulgente superiorità che attende ogni esibizione di sentimenti assolutamente incompresi, cui sono ormai avvezza, subito mi riporta coi piedi per terra. Chissà perché ci sentiamo tanto superiori se ci capita di non capire o non condividere certi pensieri quando, in effetti, quell’incapacità è più il segno di una nostra mancanza che dell’idiozia altrui? Sono sicura che se invitassi uno qualunque dei miei amici a vedere quei bellissimi campi gialli noterebbe soltanto i troppi sobbalzi della strada; e se fossi così ingenua da sollevare un lembo del mio cuore per partecipargli la mia gioia e meraviglia, dapprima si mostrerebbe stupito per poi decidere di trovarsi in quella spiacevolissima situazione che ti vede costretto su una carrozza lungo una pietraia insieme a un’idiota, e finirebbe per cadere in quell’umore di autocommiserazione tanto di conforto quando ci troviamo nei guai. Eppure doversi continuamente soffocare non è piacevole, e credo che, se prolungata, una situazione del genere rechi maggior sofferenza a una donna che a un uomo, possedendo lei, nonostante le sue proteste, una natura molto vicina all’edera e una ben poco salutare frenesia di comprensione e sostegno. Quando vado dai lupini e ne vedo la distesa di perfetta bellezza e colore e profumo immersa nel sole di un mite agosto, vorrei invitare qualcuno a condividere il piacere di guardarli e di parlarne; ma quando scorro la lista dei miei amici per trovare la persona adatta, ancora una volta mi spavento davanti alla solitudine in cui ognuono di noi vive.»
tratto da: Elizabeth von Arnim, Un’estate da sola, trad. it. Daniela Guglielmino, Torino 2002.
Titolo originale The Solitary Summer; prima edizione New York London 1899.
© 1899 Elizabeth von Arnim.
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