Elsa Morante

3.

Resta dunque da raccontare per ultima quella primavera-estate del ’47, coi vagabondaggi di Useppe e della sua compagna Bella, in libera uscita nel quartiere Testaccio e dintorni. Senza la guardia di Bella, certo, una simile libertà sarebbe stata negata a Useppe. Lui non di rado era ripreso da voglie avventate di fuga, ossia di camminare avanti avanti senza saper dove; e non c’è dubbio che si sarebbe sperduto, se non ci fosse stata Bella a frenarlo, e a riportarlo a casa all’ora solita. Inoltre, ogni tanto, inopinatamente, lo scuotevano delle paure: bastava il movimento d’un’ombra, o d’una foglia, per metterlo all’erta o dargli dei sussulti. Ma per fortuna, non appena girava le pupille inquiete, la prima cosa che vedeva era la faccia di Bella, coi suoi occhi marrone contenti della bella giornata e i suoi respiri a bocca aperta, che applaudivano l’aria.

Nel corso della stagione, ai due, per quanto solitari, non mancarono incontri e avventure. La prima avventura fu la scoperta di un luogo meraviglioso. Era questo, appunto, il luogo di «sua conoscenza» dove Useppe aveva progettato di portare l’animaluccio senza coda. E la scoperta, difatti, era stata di poco antecedente alla visita del Professor Marchionni. Fu di domenica mattina; dopo il breve intervallo della loro clausura, Useppe e Bella avevano di nuovo via libera per uscire. E tanto smaniosi che alle nove, salutata Ida, erano già fuori casa.

La tramontana, nel suo passaggio veloce dopo le piogge, aveva lasciato l’infinito così limpido che perfino i muri vecchi ringiovanivano a respirarlo. Il sole era asciutto e ardente, e l’ombra era fresca. Nel piccolo soffio dell’aria, si camminava senza peso, come portati da una barca a vela. E oggi, per la prima volta, Useppe e Bella valicarono i loro confini soliti. Senza nemmeno accorgersene, cammina e cammina, superarono Via Marmorata, seguendo tutta la lunghezza del Viale Ostiense; e raggiunta la Basilica di San Paolo, presero a destra, dove Bella, chiamata da un odore inebriante, incominciò a correre, seguíta da Useppe.

Bella correva al grido: «Uhrrr! uhrrr!» che significa: «Il mare! il mare!», mentre invece, si capisce, quello laggiù non era altro che il fiume Tevere. Ma non più, invero, lo stesso Tevere di Roma: qua esso correva fra i prati, senza muraglie né parapetti, e rifletteva i colori naturali della campagna.

(Bella possedeva una specie di memoria matta, errante e millenaria, che d’un tratto le faceva fiutare in un fiume l’Oceano Indiano, e la maremma in una pozzanghera di pioggia. Era capace di riannusare un carro tartaro in una bicicletta e una nave fenicia in un tranvai. E con ciò si spiega perché si slanciasse fuor di proposito in certi zompi monumentali; o perché a ogni tratto si fermasse a frugare con tale interesse frammezzo ai rifiuti o a salutare con mille cerimonie certo odori di minima importanza).

Qui la città era finita. Di là, sull’altra riva, si scorgevano ancora fra il verde poche baracche e casupole, che via via si diradavano; ma da questa parte, non c’erano che prati e canneti, senza nessuna costruzione umana. E nonostante la domenica, il luogo era deserto. Con la primavera appena agli inizi, specie di mattina, nessuno ancora, difatti, frequentava queste rive. C’erano solo Useppe e Bella: i quali correvano avanti un tratto, poi si buttavano a scapriolare nell’erba, poi zompavano su e correvano avanti un altro tratto.

In fondo ai prati, il terreno si avvallava, e incominciava una piccola zona boscosa. Fu lì che Useppe e Bella a un certo punto rallentarono i passi, e smisero di chiacchierare.

Erano entrati in una radura circolare, chiusa da un giro di alberi che in alto mischiavano i rami, così da trasformarla in una specie di stanza col tetto di foglie. Il pavimento era un cerchio d’erba appena nata con le piogge, forse ancora non calpestata da nessuno, e fiorita solo di un’unica specie di margherite minuscole, le quali avevano l’aria di essersi aperte tutte quante insieme in quel momento. Di là dai tronchi, dalla parte del fiume, una palizzata naturale di canne lasciava intravedere l’acqua; e il passaggio della corrente, insieme all’aria che smuoveva le foglie e i nastri delle canne, variava le ombre colorate dell’interno, in un continuo tremolio. All’entrare, Bella fiutò in alto, forse credendo di ritrovarsi in qualche tenda persiana; poi levò appena gli orecchi, al suono di un belato della campagna, ma súbito li riabbassò. Anche lei, come Useppe, si era fatta attenta al grande silenzio che seguì la voce singola di quel belato. S’accucciò vicino a Useppe, e nei suoi occhi marrone comparve la malinconia. Forse, si ricordava dei suoi cuccioli, e del suo primo Antonio a Poggioreale, e del suo secondo Antonio sottoterra. Pareva proprio di trovarsi in una tenda esotica, lontanissima da Roma e da ogni altra città: chi sa dove, arrivati dopo un grande viaggio; e che fuori all’intorno si stendesse un enorme spazio, senz’altro rumore che il movimento quieto dell’acqua e dell’aria.

Un frullo corse nell’alto del fogliame, e poi, da un ramo mezzo nascosto, si udì cinguettare una canzonetta che Useppe riconobbe senza indugio, avendola imparata a memoria un certo mattino, ai tempi che era piccolo. Rivide anzi la scena dove gli era capitato di ascoltarla: dietro la capanna dei guerriglieri, sul monte dei Castelli, mentre Eppetondo cuoceva le patate e si aspettava Ninnuzzu-Assodicuori… Il ricordo gli si presentò un poco indistinto, in un tremolio luminoso, simile all’ombra di questa tenda d’alberi; e non gli portò tristezza, ma anzi il contrario, come un piccolo saluto ammiccante. Anche Bella parve gustare la canzonetta, perché alzò la testa di sotto in su, tenendosi in ascolto accucciata, invece di slanciarsi in uno zompo come avrebbe fatto in altra occasione. «La sai?» le bisbigliò Useppe pianissimo. E in risposta essa agitò la lingua e alzò mezzo orecchio, per intendere: «Altro che! e come no?!» Stavolta, i cantanti non erano due, ma uno solo; e a quanto se ne distingueva giù da sotto, non era né un canarino né un lucherino, ma forse uno storno, o piuttosto un passero comune. Era un uccellino insignificante, di colore castano-grigio. A scrutare in alto, badando a non fare movimento né rumore, si poteva scorgere meglio la sua testolina vivace e perfino la sua minuscola gola rosea che palpitava nei gorgheggi. A quanto pare, la canzonetta s’era diffusa, nel giro degli uccelli, diventando un’aria di moda, visto che la sapevano anche i passeri. E forse, costui non ne conosceva nessun’altra, visto che seguitava a ripetere questa sola, sempre con le stesse note e le stesse parole, salvo variazioni impercettibili:

«È uno scherzo

uno scherzo

tutto uno scherzo!»,

oppure

«Uno scherzo uno scherzo

è tutto uno scherzo!»,

oppure

«È uno scherzo

è uno scherzo

tutto uno scherzo uno scherzo

uno scherzo ohoooo!»,

Dopo averla replicata una ventina di volte, fece un altro frullo e se ne rivolò via. Allora Bella soddisfatta si allungò meglio sull’erba, con la testa riposata sulle due zampe davanti, e si mise a sonnecchiare. Il silenzio, finito l’intervallo della canzonetta, s’era ingrandito a una misura fantastica, tale che non solo gli orecchi, ma il corpo intero lo ascoltava. E Useppe, nell’ascoltarlo, ebbe una sorpresa che forse avrebbe spaventato un uomo adulto, soggetto a un codice mentale della natura. Ma il suo piccolo organismo, invece, lo ricevette come un fenomeno naturale, anche se mai prima scoperto fino a oggi.

Il silenzio, in realtà, era parlante! anzi, era fatto di voci, le quali da principio arrivarono piuttosto confuse, mescolandosi col tremolio dei colori e delle ombre, fino a che poi la doppia sensazione diventò una sola: e allora s’intese che quelle luci tremanti, pure loro, in realtà, erano tutte voci del silenzio. Era proprio il silenzio, e non altro, che faceva tremare lo spazio, serpeggiando a radice più in fondo del centro infocato della terra, e montando in una tempesta enorme oltre il sereno. Il sereno restava sereno, anzi più abbagliante, e la tempesta era una moltitudine cantante una sola nota (o forse solo un accordo di tre note) uguale a un urlo! Però dentro ci si distinguevano ci sa come, una per una, tutte le voci e le frasi e i discorsi, a migliaia, e a migliaia di migliaia: e le canzonette, e i belati, e il mare, e le sirene d’allarme, e gli spari, e le tossi, e i motori, e i convogli per Auschwitz, e i grilli, e le bombe dirompenti, e il grugnito minimo dell’animaluccio senza coda… e «che me lo dài, un bacetto, a’ Usè?»

Questa multipla sensazione di Useppe, non facile né breve a descriversi, fu in se stessa, invece, semplice, rapida, quanto una figura di tarantella. E l’effetto che ebbe su di lui, fu di farlo ridere. Si trattava, invero, anche oggi, a detta dei medici, di uno dei diversi segni del suo morbo: certe sensazioni allucinatorie sono «sempre possibili in soggetti epilettici». Ma chi si fosse trovato a passare, in quel momento, nella tenda d’alberi, non avrebbe visto altro che uno spensierato morettino dagli occhi azzurri, il quale rideva di niente, con lo sguardo in aria, come se una piuma invisibile gli vellicasse la nuca.

tratto da Elsa Morante, La Storia, Torino 1974.