«Firenze è Occidente, bellezza che splende, coppa da bersi in un solo magico sorso; Kyoto è Oriente, bellezza celata, segreta, che devi conquistare a poco a poco. Firenze la puoi centellinare in un mese visitandone chiese, gallerie, ville, palazzi; ma puoi anche dire legittimamente d’averla veduta in un pomeriggio dai piazzali delle sue colline, dall’alto delle sue torri, dalle vie, dalle piazze, dai ponti. Per cominciare a sentire ed apprezzare Kyoto occorrono giorni e giorni. Tipico è anche il fatto che la sua Fiesole, lo Higashi-yama (Monte di Levante) non ha una strada o un punto da cui si possa godere una veduta d’insieme della città; […] Il concetto panorama è del tutto occidentale, niente affatto giapponese; vedere le cose in una sola volta: che cattivo gusto, che barbarie, che soddisfazione fanciullesca! Per questo ciò che vale, a Kyoto, sta nascosto in vallette, in alcove di verde fra le pieghe delle colline. Cammini, arrivi, scopri. Talvolta cammini, arrivi, non scopri nulla; ciò che t’incanta ancor più; ti spinge a nuove esplorazioni. Avviene come per l’innamorato che arde: i dinieghi capricciosi della sua donna non lo deprimono, ma lo portano ad impensati entusiasmi. Nemica mortale, nella scoperta di simile bellezza: la fretta. È dunque una magia che ti prende sottilmente, piano piano, che devi respirare, con cui devi convivere. Quando Kyoto ha capito che sei degno di lei, allora forse ti si concede.» […]
«Schematicamente la città potrebbe semplificarsi in questo modo: al di fuori una zona di colline boscose cosparse di laghi, templi, ville, giardini, romitori, monasteri, è la corona delle delizie ascetiche; al centro un nucleo cittadino con tutte le caratteristiche urbane moderne, con in più i suoi famosi quartieri di geisha, i suoi teatri, ristoranti, cinema, negozi, antiquari, le sue strade affollate, le sue donne eleganti, le sue residenze sontuose, è l’isola delle delizie terrene. Naturalmente questa divisione non è rigorosa; anche nella parte centrale vi sono templi, musei, istituti, nonché 14 università; ed anche alla periferia vi sono luoghi dedicati piuttosto alle soddisfazioni del samsara (vortice del divenire) che alla pace del satori (illuminazione). Ma in linea generale tale divisione resta, almeno schematicamente valida.
Lo spirito di questa città è dato dalla coesistenza armonica d’elementi straordinariamente diversi fra di loro, quali il monasticismo ascetico, il culto della bellezza, gli effimeri piaceri del “mondo che vaga, che galleggia” (uki-yo), la severa disciplina degli studi, un paziente artigianato, un furbo commercio, un’antica nobiltà impoverita. […]
Ma torniamo alla corona di delizie ascetiche. I nomi stessi dei luoghi suonano musica delle sfere. Ai piedi del Monte della Sapienza (Hiei-zan), non lontano dalla villa imperiale della Dottrina Ascetica (Shugaku-in), fra gli aceri che arrossano sottili d’autunno, ecco il tempietto della Calma Luce, cioè del Nirvana (Ōhara no Jakkō-in). Di là da una valle sta invece la pieve dell’Assoluto (Ōhara no Sanzen-in). Più vicino alla città troviamo un tempio dedicato a Manjusri, l’Incantevole Sapere, l’Apollo Buddista (Manshu-in), nonché il Padiglione del Poeta (Shisendō) e il Padiglione d’Argento (Ginkaku-ji). Da questo lato Kyoto si arresta improvvisa alle prime pendici del Monte di Levante (Higashi-yama) ed opere di pietà dei monaci hanno da secoli benedetto ogni valletta, ogni recesso silvano, ogni fratta ombrosa lungo i torrenti. Il tempio dell’Illuminazione (Nanzen-ji) e quello della Riconoscenza (Chion-in) non sono lontani dagli altri delle Fonti Pure (Kiyomizu-dera), del Loto Azzurro (Shōren-in), della Quiete Serena (Seikan-ji), della Legge Meravigliosa (Myōhō-in).
A Sud il Monte di Levante si perde in collinette verso la piana del fiume Uji e le distanze sono un poco maggiori; laggiù, oltre il Monte dei Peschi (Momo-yama) ed Il Palazzo della Nobile Fragranza (Goko no Miya), ecco il Tempio dei Tre Tesori, cioè Buddha, la Legge, la Comunità dei Monaci (il Sambō-in), vicino al vastissimo parco in cui si celano i padiglioni e le pagode del gran tempio dedicato alla Quintessenza dell’Illuminazione (Daigo-ji).
A ponente le montagne sono più ripide e selvagge, le foreste più cupe e solenni; inoltre fra le ultime pendici e la città v’è un largo tratto di risaie. Ma anche qui, soprattutto vicino al Monte Tempestoso (Arashi-yama), dove il fiume Hozu sbocca limpido e gelido dalle sue gole fra dirupi turriti alla valle, quante squisite bellezze! Appena usciti dalla città ecco il Padiglione d’Oro (Kinkaku-ji), sfortunatamente incendiatosi proprio ai giorni nostri, il Tempio del Drago Pacifico (Ryōan-ji) col suo celebre giardino astratto, quello della Benevolente Armonia (Ninna-ji), quello della Grande Scienza (Daikaku-ji). Infine nascosti fra i primi lembi di foresta dei monti, ecco il Tempio del Drago Celeste (Tenryū-ji), vicino ad un laghetto fatato, e quello della Fragranza di Ponente, del Vangelo di Ponente (Saihō-ji), nel cui giardino si estendono umilmente in bellezza ventiquattro specie di muschi diversi.»
«Il giardino in Estremo Oriente è spesso infatti un’opera d’arte d’importanza non inferiore a quella d’una pittura, d’una scultura, d’un poema. L’artista può esprimersi attraverso qualsiasi mezzo; perché ci debbono essere i sentieri ammessi dal regolamento e quelli riprovati dal medesimo? Noi riteniamo un giardino semplice ornamento idro-floreaele della casa, o villa, o palazzo che sia; e la natura offesa per il poco che le chiediamo ben poco ci rende; fa da contorno all’uomo ed alla donna nelle vicende della loro vita mondana, sta tranquilla ed obbediente, come l’insalata intorno alla bistecca. L’artista orientale crea invece il giardino sentendo di cantare in erbe, alberi, sassi, acque e fiori una musica attraverso la quale intende rendere più facile, in qualche modo, il contatto fra l’uomo ed il grande invisibile che ci regola e ci circonda. Mira altissimo, e quando riesce, giunge altissimo. La natura gradisce la fiducia che si pone in essa; chiamata risponde.
Il giardino di Sanzen-in ti accoglie irretendoti in un incanto difficile ad afferrarsi e a descriversi nei suoi elementi, ma sottile e sicuro nel suo potere. Considerando gli stili giapponesi non segue alcuna scuola precisa; forse è stato trasformato varie volte, per quanto parecchi aspetti lo facciano ritenere assai antico; ha respiro quasi di parco, coi suoi forti cipressi ed aceri, i cui piedi sorgono dal soffice tappeto di muschi. Mentre cammini ti si aprono di continuo nuovi scorci; ora sei come perduto in una foresta che sale verso la montagna, ora ti sorprende il ricamo delle azalee che contornano un irregolare laghetto, ora attraverso i rami scorgi i tetti del tempio maggiore o di qualche casa colonica vicina. Che differenza c’è tra questi modi e quelli che s’avvicendano nei movimenti d’una sonata o d’una sinfonia? Non piano e orchestra, ma muschio e bosco; non archi e flauto, ma rami ed acque.
Col pomeriggio la luce penetra attraverso le foglie dei momiji in glorioso e caldo splendore. È l’epoca della fioritura non di petali e di corolle, ma di foglie che s’arrossano. Incendio, esplosione, fuoco silenzioso e vagamente malinconico, poiché nella sua bellezza non si celano i semi della vita, ma s’espande l’ombra della dissoluzione. Forse per questo i momiji sono particolarmente cari ai buddisti, sempre pronti a cogliere il suggerimento di un’impermanenza, di un’immagine del volgere cosmico, di dolore in dolore, sull’orlo del nulla. Nessun albero al mondo ha insieme, come il momiji, la grazia di foglioline così precise – sottile matematica sospesa come un velo per aria – e la potenza, l’urlo, la carica di colori tanto appassionati. Spesso gli alberi non arrossano tutto in una volta; intorno al medesimo tronco scintillano verdi di ramarro, vivi come gocce di prato in un raggio di sole; poi sullo stesso ramo o su quelli vicini preparano le loro feste i gialli, gli arancioni, i viola, i colori delle folli passioni.»
«Lo Zen, in comune con la massima parte delle scuole buddiste e con buona parte della filosofia orientale, sostiene che la chiave alla comprensione del cosmo sta nel superamento di ogni illusorio idealismo; io e non-io, vita e morte, bene e male, materia e spirito. Che importa morte se l’universo vive? Dove lo Zen si distingue da tante altre scuole è nella recisa negazione di qualsiasi fiducia all’intelletto. La salvezza, l’illuminazione nascono improvvisamente, esplodono nell’intuito. Il giardino è dunque uno dei più squisiti punti ove io e non-io possono fondersi e sublimarsi, simili a fiume ed oceano che uniscano le loro acque. Il giardino è più importante di trattati, sillogismi, antiche scritture. È il canto delle cose. Per questo disegnare giardini fu opera a cui s’accinsero con reverente impegno le massime menti dell’Asia estrema. Mentre però i giardini dell’epoca Heian erano concepiti perché degli eventi, dei raduni, delle feste, vi avessero luogo, questi dei secoli di Kamakura e Muromachi si disegnarono in maniera che il divenire acquistasse valore simbolico. Si preferirono più piccoli. Il lago si ridusse ad un minuscolo specchio d’acqua, oppure fu addirittura sostituito da bianca sabbia, immagine astratta, quasi assurda del fluido. Tutto venne disposto per esser visto da pochi punti privilegiati, quelli ove stare, meditare.
Il giardino del Drago Celeste può dirsi stia a metà fra quelli innocenti e solari dei tempi più antichi e quelli, talvolta eccessivamente rigidi e quasi torturati, dei tempi posteriori. Essenzialmente consiste in un laghetto ai piedi d’un colle, dove la selva s’incupisce salendo verso ignorate altezze, oltre di cui passano le nubi navigando nel vento. Fiori pochissimi; il giardino orientale non è uomo che domina natura e l’ammaestra, ma natura che assorbe uomo e lo sublima. Fiori dunque non tanti da richiamare esageratamente l’attenzione; quelli solo che potrebbero nascere nel medesimo luogo se non fosse giardino, ma valle disabitata. Elementi fondamentali: pietre alberi, acque. Fine supremo: che nessuna cosa possa dirsi trita o insipida, che nessun accostamento risulti casuale ma che, d’altra parte, non si senta in alcun modo la mano dell’uomo. Giardini dunque come luogo di privilegio per le cose, ove esse possano espandersi, completarsi di vicinanze e contrasti, luci e riflessi, vivendo il ritmo delle stagioni, il ritmo delle ore. Cose invitate a parlare con l’uomo. Nessun’alterigia più. Non io re del creato e tu povera materia; ma sasso e gioia, acqua e tenerezza, albero e pensiero. Tutti i limiti aboliti. L’ultima saggezza, Buddha, in un granello di sabbia.
Cammino intorno al laghetto, mi fermo, cammino ancora, mi chino, tocco le pietre, respiro sassi, penso sassi, sono sassi. Sasso come frammento del mondo, carne del cielo. Dice uno dei tanti insegnamenti nel più puro stile Zen, parlando del saggio, ch’è naturalmente anche poeta:
Penetrando nella foresta non disturba un filo d’erba
Scendendo nell’acqua non causa la più piccola onda.
Il giardino orientale è questo rispetto supremo per la natura, divenuto rito e sinfonia. Ogni sasso è significativo, in sé stesso ed in relazione al tutto. In sé stesso per forma, grana, venature, superficie; in relazione al resto per com’è disposto, inclinato, accompagnato celato o messo in evidenza. E non si pensi a pietre scelte per valore intrinseco; che sciocchezza sarebbe! Le cose più belle ci stanno accanto sempre, e non lo sappiamo. Basta scendere lungo il primo greto di fiume, percorrere la prima costa di mare, salire la prima valle di monte che si trovi nelle nostre abituali vicinanze; i tesori sono sparpagliati ovunque: rocce, alberi, acque, foglie, rugiade, licheni. Queste umili cose sono poi nel giardino disposte in modo che ti salutino come bagnate d’una nuova luce; in modo che ti si rivelino, per la prima volta da quando sei nato, davvero terra, davvero scorza, davvero erba o felce o petalo.»
«Siamo agli antipodi del giardino geometrico, all’italiana. In quest’ultimo la fondamentale realtà è lo schema, la musica intellettuale di linee, rapporti, superfici, l’omaggio ad Euclide; la materia, per quanto abilmente la si voglia render piacevole sfruttando colori, luci, forme, accostamenti, fa solo da riempitivo. Il fiore può unicamente essere fiore dove è decisa la florealità (aiola), la ghiaia dove è decretata la viabilità (vialino), l’albero dove è prevista l’arborietà (siepe, filare, parco). È l’artificio di primo grado; l’uomo re che impone la sua legge a ciò che infondo disprezza, la materia, per celebrare ciò che soprattutto lo interessa, il proprio pensiero.
Nel giardino orientale, invece, se è vero che l’artificio viene spinto molto più in là, che si tratta di un artificio di secondo grado – la natura infatti può dirsi vinta due volte, una prima perché modellata dall’uomo, una seconda perché non le si permette minimamente di mostrarlo – è anche vero che in questo culmine il ciclo si chiude: l’omaggio non è più ad Euclide, ma alla vita. Non esiste uno schema esterno ed astratto che si posi da fuori sul terreno e che le cose debbano riempire; le cose sono invece nuclei dinamici che determinano e modificano intorno a loro stesse – come fanno i corpi celesti secondo la fisica moderna – lo spazio. Il giardino occidentale è figlio dell’intelletto, quello orientale dell’amore. Il giardino occidentale è gerarchico; uomo, animale, statue, piante, terra ed acqua: ciascuno al suo posto. Il giardino orientale è fusione; uomofoglia, solegioia, acquapensiero.»
«La villa Katsura ed il suo giardino vennero fondati e completati fra gli ultimi anni del ‘500 ed i primi del ‘600; l’insieme rappresenta non solo “il supremo esempio dell’architettura civile giapponese” (T. Yoshida, The Japanese House and Garden, London, 1955), ma, date le profonde influenze dello spirito nipponico sull’arte moderna del costruire, un punto importantissimo d’incontri e di partenze nella storia artistica mondiale. Qui convergono e si sublimano sia le antiche tradizioni costruttive Yamato, conservate come sappiamo nello stile dei templi d’Ise e d’alcuni altri sacri luoghi, sia gli influssi della filosofia e dell’estetica cinese Sung, maturati e trasformati nell’episodio più propriamente nipponico dello Zen, sia infine lo spirito della tesofia nel momento del suo più squisito splendore. Ne dipartono invece influenze che hanno agito profondamente su tutta l’architettura civile giapponese, preparando quel gusto che tanto entusiasma i costruttori ed arredatori d’oggi in ogni nazione. Il risultato è opera di bellezza allusiva, sottile, purissima; nessuna debolezza per le tentazioni dello sfarzo, del grandioso, del superficiale; una disciplina eroica; un affinamento supremo dello spirito che trionfa di tutte le sue scorie; uomo purificato dinanzi a natura purificata; uomo essenziale dinanzi a natura essenziale. Perché di fondano, ambedue, e partecipino dell’essere ultimo: del grande mistero.
È interessante ricordare che la villa Katsura è opera del periodo Momoyama o per lo meno degli anni immediatamente seguenti; ecco dunque un esempio di come può essere ricco, variato, divergente il panorama artistico giapponese in un dato momento. […]
La villa originariamente venne progettata, su ordini di Hideyoshi, per il principe Toshihito. Questi era nipote dell’imperatore Ogimachi, e Hideyoshi lo aveva adottato per dare, col sangue sacro dei discendenti del Sole, la più alta sanzione spirituale alla propria casata: ma poi Hideyoshi ebbe un figlio suo ed il principe Toshihito venne relegato “ad una pacifica oscurità lontana dalla politica”. Fortuna volle che il principe fosse uno degli uomini più colti e più raffinati del suo tempo: fra l’altro – come discepolo del critico e poeta Yusai – gli erano stati affidati dei manoscritti poetici d’importanza nazionale (quelli del Kokinshū, per esempio) e una copia (ritenuta quella originale) del Romanzo di Genji. Quando cominciò dunque ad occuparsi di questa villa sulle rive del fiume Katsura, non lontano da Arashi-yama, alle porte di Kyoto, volle rappresentare il succo, il frutto supremo d’una civiltà millenaria. “Nel Romanzo di Genji abbondano in maniera straordinaria i passi in cui si parla di ville, palazzi, giardini, e sembra accertato che il principe seguisse il lavoro dei giardinieri e degli architetti tenendo in mente queste descrizioni.” (A. Drexler, The Architecture of Japan, New York, 1955) […] Più una cosa è semplice, più è raffinata; non è la semplicità primaria, di colui che vuol tornare all’inizio indietreggiando, ma la semplicità secondaria, di chi ha percorso tutta la circonferenza del complicato, del ricco, dello sfarzoso, dello splendido, e vuol riavvicinarsi al punto di partenza sfrondando, purificando, enucleando l’ultimo segreto delle cose.
Si tratta di una costruzione ad un piano, di legno, sollevata d’un buon metro da terra su delle palafitte, coperta da un tetto in scindole piccolissime disposte con gran cura a formare una superficie legnosa, ruvida, leggermente ricurva. Gli impiantiti sono coperti da tatami, le porte sono di legno sottile e di carta. […] E questo è uno dei posti in cui c’è forse poco da vedere, ma dove c’è moltissimo da respirare. Hai l’impressione che solo standoci, forse a lungo, forse dormendoci, cominceresti a capirne il vero messaggio. […]
Ma adesso, non essendo sospinti dalla fretta, possiamo accucciarci sui tatami nei luoghi che più ci garbano. Questo è un fatto importantissimo; l’architettura civile giapponese è infatti tutta concepita per essere vista e gustata dal livello dell’uomo seduto con le gambe ripiegate, in posizione di chi medita. Allora quanto si scorge fuori prende il suo giusto posto nella prospettiva e le stanze che altrimenti sembrano piccole, fredde, sbilanciate, diventano invece dolcemente accoglienti, fatte a misura d’uomo. Appena ci abbassiamo ecco il giardino che “entra in casa”. La fusione tra fuori e dentro è perfetta; ogni albero, ogni pietra, ogni riflesso del laghetto sono pensati in funzione di come parranno visti dall’interno; e viceversa la casa è disegnata in modo che da qualsiasi lato la si guardi, da fuori, completi uno scorcio. Colpisce subito la pianta del tutto irregolare della costruzione; come fosse avvenuta, così per caso; ma poi ci si accorge ch’è un modo elegante di evitare la simmetria, di rispettare le ondulazioni leggere del terreno, di modellarsi, piuttosto che d’imporsi, sulla natura. Trecento anni più tardi questi fatti dovevano sembrare straordinariamente significativi a due grandi architetti occidentali, per i quali l’esperienza di una residenza in Giappone fu decisiva, voglio dire Bruno Taut e F.L. Wright.»
Tratto da: Fosco Maraini, Ore giapponesi, Milano, 2000, Prima edizione Bari 1957.
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