Oggi prevale una ideologia della bigness che vede nell’ingrandirsi delle città la promessa di un mondo di città globali che donerebbero al resto della società un effetto di «prosperità». Se si leggono i report di Un-Habitat sulle città africane, asiatiche o dell’America Latina, o anche i report generali sulla condizione urbana, la parola prosperity è quella che si rintraccia piú spesso. Ma a leggerli poi in profondità si capisce che è una pia illusione. Nulla dimostra che in effetti all’ingigantimento delle città corrisponda un miglioramento della condizione dei loro abitanti. Quello che invece è chiaro è che la povertà mondiale si sta concentrando nelle città. E non è detto che i poveri di città stiano meglio di quelli della campagna. Dipende dalle politiche del Fondo monetario internazionale o della Banca mondiale o dai pretesi aiuti internazionali oppure dipende dalla rapina di terre, dal landgrabbing delle multinazionali dell’olio di palma, e dalle varie De Rica e Del Monte. Ma poi in città per i poveri e poverissimi le condizioni igieniche e di affollamento non sono certamente di prosperity. Questa parola è azzeccata perché parla di un futuro e non di un presente. È una promessa, non un’evidenza. I report che si basano su proiezioni per il 2050 promettono un futuro di città globali e un inurbamento del pianeta. Oggi siamo al 50 per cento ma è una media mondiale e non è vero che interi continenti siano urbanizzati, non lo sono l’Asia e l’Africa dove la dimensione rurale è ancora importantissima e in molti casi preponderante. Ovviamente è una dimensione minacciata.
Dietro l’idea di urban prosperity sta l’incapacità degli organismi internazionali di mettere in questione la contrazione dell’agricoltura di sussistenza a opera delle multinazionali. Il mondo si urbanizzerà se ai contadini del mondo verrà impedito di vivere sulla propria terra. Non si capisce perché i «trend» osservati da Un-Habitat non debbano portare a politiche di correzione invece che ad auspicare un mondo tutto urbano. Una pericolosa ideologia si annida dietro la parola urban prosperity ed è della stessa natura di chi pensa che il futuro stia in una rete di città mondo, come se l’agricoltura e la produzione di cibo non fossero altrettanto essenziali per la prosperity e come se nelle campagne fosse impossibile un modello di cultura e di vita di tipo differente da quello delle città ma altrettanto radicato nella storia umana e capace di produrre cultura e società.
La stessa idea di città globali cozza contro il fatto che crescono piuttosto le piccole e medie città, ma anche lí non dappertutto. Nei report internazionali sulle città sembra che interi paesi ormai vivano solo di aria o di trickle down urbano dei benefici (?) indiretti dell’espansione urbana, come se nessuno producesse piú niente da mangiare. In realtà se si va un po’ in giro per i continenti, a fronte delle devastazioni provocate dalle multinazionali dell’agricoltura, resiste un vastissimo bacino di piccoli coltivatori, contadini di risaie, gestori di orti, piccoli allevatori, agricoltori piú o meno organizzati in montagna come a valle che vivono in campagna come se fosse la sistemazione migliore, non solo dal punto di vista della sussistenza, ma anche da quella del sistema culturale a cui si appartiene. È impossibile pensare a un indigeno di Toraja3 senza le sue risaie, come è impossibile pensare a un montanaro peruviano senza i suoi campi di patate. Il problema è che abbiamo un’immagine dell’agricoltura di sussistenza tutta legata all’emergenzialità delle Ong e delle organizzazioni internazionali. Moltissimi piccoli e medi insediamenti sono costituiti (ad esempio in Indonesia) da famiglie che hanno una casa adiacente ai campi e allineata con altre case simili. Sono queste le classi medie «rurali» di cui si parla pochissimo.
Il problema è che l’urbanistica delle organizzazioni internazionali è la schiava delle statistiche, anzi di quelle strane cose che sono le proiezioni. Sembra che tutta la sua scienza sia legata a come leggere trend e percentuali e a una fiducia cieca nel calcolo delle probabilità. Unica disciplina rimasta a credere all’aspetto logaritmico dei fenomeni sociali, rimane l’ancella di quelli che «ne sanno di piú», cioè dei profeti della globalizzazione oggi come dei sacerdoti dello sviluppo ieri. Sembra che non sia stata intaccata da dubbi di sorta.
Ammettiamo che il mondo si stia avviando a diventare tutto urbano. Se la realtà non è un valore, ma un dato di fatto, allora di fronte a una simile eventualità l’urbanistica potrebbe inventare politiche e progetti che vadano in una direzione diversa. Non è la prima volta, per altro, e non è un caso che oggi sia proprio la Cina a guardare preoccupata il proprio futuro urbano e a correre ai ripari con politiche molto restrittive rispetto all’inurbamento del mondo rurale. Certo occorrerà che la prosopopea cinese di questi ultimi anni rispetto alla bigness faccia una chiara marcia indietro e soprattutto occorrerà invertire lo stigma che negli ultimi due decenni ha colpito la classe contadina, colpevole di non «arricchirsi» e di non consumare. Per la Cina è una questione essenziale, proprio perché la devastazione dell’ambiente e delle campagne sta arrivando a un punto di non ritorno e la vertigine del possedere finalmente grandi città mondiali come Shanghai, Shenzhen, Pechino e Hong Kong non regge piú i costi che deve pagare.
Quel che stupisce nei documenti di Un-Habitat sull’urbanizzazione è che sono soggetti a una vera e propria schizofrenia. Da un lato c’è la promessa di prosperità legata al crescere delle città, dall’altro c’è lo «spettro» degli slums. Vedremo come la maniera con cui gli slums sono stati trattati negli ultimi cinquant’anni dalle organizzazioni internazionali rivela una incapacità di giudizio rispetto ai pro e i contro dell’urbanizzazione. Ma facciamo un passo indietro. Cosa c’è nascosto nell’auspicio di Habitat, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa di insediamenti umani, che il futuro tutto urbano del mondo arrechi prosperità?
Già la copertina del report Un-Habitat sullo «Stato delle città del mondo 2013-2014» denuncia un partito preso. Una ruota a cinque bracci porta sulla sua circonferenza environmental sustainability, «sostenibilità ambientale», equity and social inclusion, «uguaglianza e integrazione sociale», quality of life, «qualità di vita», infrastructure, «servizi, infrastrutture», e productivity, «produttività». Al centro di queste virtú cardinali c’è l’effetto proposto, prosperity.
Per capire cosa c’è dietro occorre tornare al dibattito sulle città globali lanciato in qualche modo da Saskia Sassen negli anni novanta. La Sassen, analizzando tre grandi città mondiali, Tokyo, New York e Londra, lanciava l’idea di città globale (avrebbe aggiunto Seoul, Shanghai, Pechino e altre), città che sostituiscono come poli economici e politici le nazioni e che costituiscono una rete interconnessa di interessi. La sua idea, che ebbe un immediato successo, è che il futuro del mondo è legato al destino e alla crescita di queste città globali. Data la sua influenza all’interno del dibattito degli organismi internazionali, la globalità urbana diventa uno degli indici di sviluppo di un paese. Se un paese ha almeno una città globale, una world city, è destinato a crescere e a dare prosperità. Perfino la Comunità europea, in un continente dove le città si stanno contraendo e non espandendo, ha deciso di finanziare solo i progetti di aree metropolitane in espansione. Le conseguenze sono comiche. Per avere un finanziamento, Caltanissetta, Enna e Agrigento fanno finta di essere un’unica area metropolitana5. Già dieci anni dopo la Sassen si corregge e ammette che la devolution delle nazioni è ancora lontana e che forse un mondo fatto di città globali è da venire. Non importa. Le fanno coro i fautori della bigness, tra cui il sempre presente Rem Koolhaas che vede nella bigness il senso di uno sviluppo inarrestabile del capitale per cui alla fine è costretto – poverino – a lavorare. Dice che i cinesi sono realisti perché hanno capito che è nello sviluppo abnorme delle loro città che si nasconde il segreto della loro molla inarrestabile. La bigness percorre il mondo e si accompagna a qualcosa di meno eclatante ma forse molto piú sottile. Impero di Negri e Hardt6 dà l’occasione ai cultori della radical politics di allinearsi con il verbo della bigness. Cosa c’è di piú grande di un impero, di un capitale che è diventato mondiale e che si manifesta come un organismo unico? Nel frattempo in California una strana deriva del neodarwinismo crea un pensiero che fa da sostrato ad alcuni balzi in avanti della tecnologia e della rete. La rete, il web diventa nel pensiero di personaggi come Raymond Kurzweil, Stewart Brand, Kevin Kelly7 un organismo vero e proprio, ed essi passano presto da posizioni di militanza ecologista a una riformulazione del pensiero liberale in chiave neodarwinista. Il sistema capitalista, rielaborato e fortificato dall’organismo informatico tecnologico, è un organismo autopoietico, supera le ragioni individuali e qualunque tentativo di imbrigliamento. È una vera seconda natura. La distinzione tra natura naturans e natura naturata che Gregory Bateson8 riprendeva da Bacone (Bateson era parte del mondo californiano degli anni ottanta) in Mente e Natura non ha piú senso. La «Mente», sia essa l’immenso web, o il sistema capitalistico, o la Globalizzazione e con essa le città globali, diventa natura nel senso piú stretto del termine. È qualcosa out of control, come dirà Kevin Kelly. Bisogna accettare i tempi e i modi con cui questa natura si evolve e si autoregola. Inutile contrastarla. Se ci si adegua si può arrivare a tutto, a una tecnologia che aiuti l’umanità ad affrancarsi perfino dalla morte. Kurzweil fonda un’istituzione che lavora all’immortalità, raggiungibile sconfiggendo deperimento e malattie. È la biologia applicata al capitale che dà vita a un neoliberismo che non ha i caratteri del cappello a cilindro del cattivo di Wall Street, ma quello del guru della Silicon Valley che va in bicicletta e fa fondazioni filantropiche.
In questa onda la città non ha piú bisogno di una campagna né di una natura dove vengano prodotte le risorse per la sua sopravvivenza. La città è un organismo che si autoregola, per quanto possano sembrare crudeli le sue movenze e i suoi scarti. Nella sua globalità si spiegano gli slums e la nuova povertà, i derivati e perfino le manifestazioni di strada. Essa entra a far parte del sano realismo di chi guarda a un futuro di prosperità.
Bisogna dire che questo nuovo organicismo in parte è pura ideologia, self-fulfilling prophecy, pubblicità che un sistema che non è per niente globale (e per nulla nuovo, visto che la mondializzazione è un fenomeno che appare continuamente nella storia) fa a se stesso per convincere che non c’è via di scampo. In parte è invece un salto in avanti del pensiero neoliberale, una sua solidificazione in un universalismo che prende in prestito l’olismo dall’ecologia degli anni ottanta.
Google, Facebook, Amazon, Twitter sono i suoi quattro cavalieri dell’Apocalisse, disposti ad accompagnarci fino all’eternità. Le città ne sono l’ovvio corollario universalista, sennò perché chiamarle globali, città che promettono di essere puri hub dell’ubiquità, porte di accesso a una geografia smaterializzata.
La realtà è un bel po’ differente. Invece di essere frutto di una logica inesorabile dell’organismo globale, quello che sta accadendo al rapporto città/campagna proviene da scelte ben precise. Le campagne vengono sottratte a un uso finalizzato a sfamare chi le abita e il paese che le circonda. Gli agricoltori vengono espulsi da politiche che privilegiano le multinazionali dei semi e dei pesticidi. Si inserisce qui l’inutile dibattito sugli Ogm.
Perfino la Banca mondiale se n’è resa conto. Si può leggere al riguardo il rapporto del 2008 dell’International Assessment of Agricultural Science and Technology for Development (Iaastd), elaborato dalla Banca mondiale e dalle Nazioni Unite, che rappresenta la prima valutazione scientifica di carattere globale sull’agricoltura. Redatto da oltre 400 scienziati provenienti da tutto il mondo, il rapporto ritiene che gli Ogm non giochino nessun ruolo utile per raggiungere i Millennium Development Goals o sradicare la fame nel mondo. Ecco alcune ragioni:
– la soia Ogm resistente a un erbicida attualmente commercializzata produce raccolti fino al 10 per cento inferiori rispetto alle varietà tradizionali;
– fluttuazioni estreme delle temperature hanno causato perdite nei raccolti di cotone Ogm in Cina;
– tutte le colture Ogm, anche quelle sviluppate dalle istituzioni di ricerche governative, sono controllate attraverso i brevetti da poche aziende multinazionali. I brevetti aumentano drammaticamente il costo delle sementi. Negli Stati Uniti, il prezzo dei semi del cotone transgenico è quadruplicato nel corso degli ultimi dieci anni.
Le tecniche di riproduzione convenzionali, sia tradizionali sia moderne, hanno un ruolo fondamentale per ottenere soluzioni di lungo termine per la crisi alimentare. Aumentano la capacità delle piante di resistere alle imprevedibili e diverse modifiche del tempo dovute ai cambiamenti climatici.
Scelte ben precise stanno alla base dello svuotamento delle campagne, ad esempio la produzione di idrocarburi che sostituiscano il petrolio in via di sparizione. Nel 2007 gli Stati Uniti hanno trasferito 54 milioni di tonnellate di mais alla produzione di bioetanolo e l’Unione europea ha utilizzato 2,85 milioni di ettari per produrre olio di colza e altre colture per biocarburanti. Se la stessa superficie fosse stata destinata alla coltivazione di mais e grano per fini alimentari, si sarebbe raccolta una cifra stimata di 68 milioni di tonnellate di cereali, quantità sufficiente a nutrire 373 milioni di persone per un intero anno – abbastanza per nutrire le popolazioni dei 28 paesi meno sviluppati dell’Africa messi assieme. La corsa ai biocarburanti nei mercati internazionali sta sottraendo terreno agricolo alla produzione di cibo e contribuisce all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari di prima necessità, rendendo i cereali molto piú costosi. Inoltre, sta contribuendo alla distruzione della foresta pluviale, processo che va ad alimentare i cambiamenti climatici.
La speculazione sulle materie prime è un altro fattore collegato all’aumento del costo del cibo, perché gli speculatori, che si sono allontanati da altri mercati in caduta, si stanno sempre piú arricchendo sui prezzi futuri delle materie prime. La domanda crescente di carne, come conseguenza della diffusione e dell’assimilazione della dieta del mondo occidentale, sta sottraendo cereali alle persone per nutrire bestiame. Si stima che se il 50 per cento della popolazione che vive nei paesi Ue e negli Stati Uniti sostituisse la metà della media annuale di consumo di carne con proteine vegetali, i cereali che non sarebbero piú destinati all’alimentazione del bestiame basterebbero a nutrire la metà delle popolazioni denutrite presenti nel mondo.
I cambiamenti climatici influenzeranno sempre piú l’agricoltura a livello mondiale. La sicurezza alimentare, in particolare nei paesi piú poveri, è minacciata dai cambiamenti imprevedibili delle precipitazioni e dai sempre piú frequenti eventi climatici estremi. Inoltre, l’agricoltura intensiva contribuisce ampiamente alle emissioni di gas serra, sia direttamente – ad esempio a causa dei fertilizzanti – sia indirettamente come risultato della distruzione delle foreste.
La strategia piú efficace per adattarsi ai cambiamenti climatici è un’agricoltura che punti sulla biodiversità. Dati provenienti dalle diverse parti del mondo dimostrano inequivocabilmente che unire differenti colture e varietà rappresenta un metodo affidabile per aumentare la resistenza agli improvvisi fenomeni metereologici legati ai cambiamenti climatici10.
Di tutto questo si dice ben poco nei report di Un-Habitat. L’urbanizzazione è un «trend» mondiale inarrestabile. Chi lo contrasta un reazionario anti-urbano. La miopia dei report è talmente acuta che c’è un gap tra le relazioni di Un-Habitat e i piú recenti studi degli stessi organismi internazionali sugli effetti della urbanizzazione sul cambiamento climatico.
L’altra miopia è nei confronti del peso che ancora in tutto il globo ha l’agricoltura di sussistenza e dei piccoli agricoltori. L’agricoltura è di gran lunga l’attività piú esercitata al mondo. Nonostante la tendenza globale all’urbanizzazione abbia fatto declinare la percentuale di piccoli agricoltori rispetto alla popolazione globale, il loro numero in assoluto è ancora in aumento e si stima che includa approssimativamente 2,6 miliardi di persone e cioè il 40 per cento della popolazione mondiale. Sono i piccoli agricoltori a produrre gran parte del cibo consumato nel mondo. La grande maggioranza di essi coltiva meno di due ettari in aree rurali ma anche intorno o dentro le città stesse. Il loro numero e la loro percentuale rispetto alla popolazione totale varia sostanzialmente paese per paese ed è molto alta nelle regioni asiatiche e africane afflitte dalla fame. I piccoli agricoltori occupano intorno al 60 per cento della superficie arabile nel mondo e contribuiscono in maniera consistente alla produzione globale di cibo. In Africa il 90 per cento della produzione agricola deriva da piccole aziende. Se un’alta percentuale della popolazione rurale è impegnata in agricoltura e ne trae il proprio sostentamento in piccoli appezzamenti di terra, l’intero settore è orientato alla sussistenza, cosa che rende le famiglie implicate molto suscettibili alle variazioni dovute a malattie, invasioni di insetti o roditori o ai cambiamenti climatici, ma anche a fattori indiretti come le fluttuazioni del mercato e la presenza o meno di infrastrutture.
L’agricoltura a piccola scala e di sussistenza è stata percepita tradizionalmente come arretrata e trascurata da coloro che decidono le politiche agricole, le istituzioni e l’accademia. Gli investimenti di sostegno a questo tipo di agricoltura sono progressivamente diminuiti negli ultimi decenni fino a raggiungere quote irrilevanti. Con una bassa accessibilità e un potere minimo di acquisto, i piccoli agricoltori e le comunità di piccoli agricoltori non sono partner attraenti per il moderno agrobusiness e sfuggono perfino alle statistiche dei dipartimenti governativi, rendendo lo scenario generale da questi riportato pieno di assunti e parametri falsi.
KUALA LUMPUR. MALESIA.
Capitalismo sudato. Arrivando qui dalla piú povera Indonesia si capisce la differenza tra alcuni «parametri» orientati ancora verso una visione locale dei problemi e delle opportunità e i parametri che vengono invece istruiti da «altrove». Kuala Lumpur è investita da quella furia che si chiama adeguamento alle world class cities. Come viene espresso in un libretto prodotto a spese della municipalità, per fare diventare Kuala Lumpur una città adeguata agli standard mondiali occorre risolverne alcuni problemi: congestione, igiene, e soprattutto un grande appeal come brand. Per questo la città ha lasciato il campo a un trust di imprese perché costruisse un grande centro direzionale che diventi anche un simbolo. In cambio del diritto a costruire due torri, le piú alte della città, il trust offriva la trasformazione in parco di un pezzo di giungla circostante. Le torri sono state affidate all’architetto César Pelli che ha fatto una specie di Sagrada Familia di cento piani con le due torri collegate da un inutile ponte – per giunta sostenuto da due grucce. Ma la città ha avuto il suo simbolo. Adesso questo è il logo di Kuala Lumpur. Un grattacielo in mezzo ad altri in una città che non ha risolto ma anzi ha complicato i problemi del traffico e soprattutto una soluzione tipicamente «anti-tropicale» in un magnifico posto tropicale. Qui diventare world class city significa offrire a estranei, investitori, turisti, personale internazionale e nuovi ricchi locali merci che non vengono prodotte qui ma che fanno somigliare gli shopping mall dentro le nuove torri a qualunque altro shopping mall del mondo, Mark&Spencer, Dolce&Gabbana, Prada, Kiel’s, Sony, Starbucks. E all’esterno coprire la città di cemento, per nascondere sotto il tappeto il fatto che siamo in una città tropicale. Un tappeto di sopraelevate, ambiziose monorotaie e nuovi enormi monumenti alla nazione islamica, immense moschee, cipolloni colorati e minareti altissimi. Questa città astratta non c’entra con i fiumi che l’attraversano (che vengono incanalati brutalmente) e non c’entra con la giungla, che viene tenuta il piú possibile in disparte e offerta come «distrazione». Il risultato è una distanza dalla realtà che proietta la città tra i requisiti del jet set internazionale ma la allontana dalla risposta alle questioni e alle opportunità locali. Qui la povertà è quella tragica della miseria urbana e dell’anonimato totale di chi dorme sui marciapiedi e delle zone «popolari» come Chinatown o Indian town, dove si ritaglia la vita di strada che è una caratteristica dell’Asia tropicale. Questi fazzoletti diventano però qualcosa di nuovo rispetto al passato. Nelle città asiatiche la vita di strada e l’organizzazione dello spazio prevede una informalità, un’invasività di alberi, polvere, un vivere tra dentro e fuori le case che detta un tono generale a tutta la città. Sono città in cui il costruito ha una provvisorietà che gli consente mille adattamenti climatici e funzionali. Qui il cemento invece spegne ogni possibilità di adeguamento alle logiche del presente e del locale. La gente, che in genere nelle città asiatiche è protagonista qui diventa folla anonima, schiacciata dalle pretese del consumo internazionale e in concorrenza con esso, offrendo merci taroccate, prostituzione e ristorazione «esotica» a prezzi stracciati. Anche il carattere «cosmopolita» della città si rivela qualcosa di astratto. In città come Kuala Lumpur prevale la logica della separazione in spazi contigui, indiani da una parte, cinesi dall’altra, malesi dall’altra ancora. Nel libretto pubblicato dalla municipalità si accenna al grande successo nella rilocazione di uno slum che stava dentro al centro. Sempre nella logica dell’impresa privata, il comune ha affidato un terreno da urbanizzare a un gruppo di imprese a patto che costruissero anche abitazioni dove rilocare gli abitanti dello slum. Nella stessa logica ha affidato a una ditta esperta di governance le procedure per rilasciare licenze edilizie alle imprese. Qui, come nelle città «classe mondo», tutta la speranza delle imprese pubbliche sembra essere riposta nel mattone. Kuala sta diventando un centro finanziario importante e soprattutto un centro della finanza islamica. Attrae un turismo ricco dai paesi arabi che cerca di vivere qui, a prezzi inferiori e con un clima molto piú umido, quello che è per molti ormai irraggiungibile a Dubai.
Tratto da Franco La Cecla, Contro l’urbanistica, La cultura delle città, Giulio Einaudi Editore