Ippolito Pizzetti amava definirsi un dilettante. Raccontava di essere arrivato ai giardini per caso, come Vita Sackville West o l’austriaco Rudolf Borchardt. Aveva dato vita a raffinati giardini, ma rifiutava di definirsi architetto del paesaggio. Del resto la sua formazione era stata letteraria: una laurea su Pavese con Sapegno, traduzioni da Max Frisch, seminari ad Harvard, finché Citati gli chiese, per Garzanti, un parere su un testo di orticoltura. Pizzetti lo giudicò noiosissimo. «Perché non lo scrivi tu, allora?». Ed ecco, nel 1968, Il Libro dei fiori, cui seguì l’invito a tenere su l’«Espresso» la rubrica «Pollice Verde», banco di formazione di generazioni di appassionati.
Paesaggista senza terra, Pizzetti non aveva un giardino. Curava invece, nella romana via Ronciglione, un terrazzo su più livelli come i ponti di una nave, fitto di fiori e cespugli di ogni genere e dimensione. Questo comportava un continuo progredire delle piante da vasi piccoli fino a contenitori massimi per poi mettere radici nei giardini che andava via via progettando. Mai sulla carta, ma sempre rigorosamente sul posto, ficcando per terra pali dove voleva cespugli e alberi, e ispirandosi talvolta, per la disposizione, alle chiazze sulle cortecce delle betulle. Questo traffico di piante e sacchi di terra su e giù per le scale innervosiva certe signore, e lui ricambiò stigmatizzandole tutte con la sigla GMMM: la Grande Madre Massaia Mediterranea che ha in odio qualsiasi cosa palpiti e strisci su questa terra, e anche chi, trasportando sacchetti di humus, sporca scale condominiali lustrate a Spic&Span.
Pizzetti attribuiva l’ossessione per ordine geometrico e pulizia nei giardini a una cultura cristiana intrisa di diffidenza verso la natura. Ebbe a dire scherzando che la GMMM era prefigurata in una tela di Carpaccio conservata in San Giorgio degli Schiavoni, «San Trifone esorcizza la figlia dell’Imperatore Gordiano», dove l’antipatica bambina ripudia a mani giunte il povero basilisco fino a un attimo prima suo allegro compagno di giochi. Cresciuto a Milano – era figlio del musicista Ildebrando – diceva di essersi sentito, fin da piccolo, un deradicato in città, roso da un’ansia segreta che lo spingeva ad accucciarsi ai margini di prati e giardini pubblici. Fu anche grazie a lui, nota Paolo Pejrone introducendo la riedizione di Piante e fiori del terrazzo, se un’Italia ancora in fuga dall’agricoltura ebbe un ripensamento. Merito di un’ironia colta, riuscire a far prendere sul serio quello che all’epoca era considerato un hobby da signore sfaccendate. E di un’intelligenza pratica in grado di capire l’immenso valore divulgativo delle mostre mercato, come Masino o la Landriana, allora agli albori. In tanta militanza, non restava davvero tempo per la vita in campagna.
Scrive in questo libro utilissimo e mai appesantito dall’aridità del manuale, che il terrazzo, non quello con soli gerani, ma dell’appassionato di piante, nasce dall’intenso desiderio di avere un giardino, dal tentativo di superare una frustrazione. È un vicario, un surrogato di qualcosa che non è stato possibile avere, un microcosmo dove concentrare tutto quello che vorremmo: un angolo di frutteto, una pergola, una siepe ombrosa, le aromatiche, i piccoli frutti, certe magiche fragranze notturne. Una cosa sola non si può nel terrazzo ottenere: l’indipendenza delle piante dalle nostre cure. Anche un giardino ha bisogno di qualche anno per rendesi autonomo, e certo se trascurato troppo a lungo finisce con l’inselvatichirsi. Non rischia tuttavia di morire anche in meno di un mese, per mancanza di irrigazione e ferocia del sole estivo. Pizzetti parla delle sue piante – quante sono, e quanta ispirazione per il giardiniere metropolitano! – con empatia, consapevole che anche loro, come lui, patiscono di avere perso il contatto con la terra, con i liberi spazi, di trovarsi a vivere in un certo senso come su un satellite. Impossibile la capillarità, esclusa la concimazione naturale, l’equilibrio del ciclo biologico. Come gli abitanti di un satellite, le piante del terrazzo non potranno completare la crescita, andranno considerate ospiti fuggevoli, cui amorevolmente preparare una vita altrove.
Pia Pera, 23 settembre 2012