Gino Girolomoni nato nel 1946 a Isola del Piano (PU) è stato un autentico riformatore: pioniere dell’agricoltura biologica e fondatore della Cooperativa Alce Nero prima divenuta successivamente Montebello Bio.
È stato Sindaco indipendente di Isola del Piano dal 1970 al 1980 promuovendo in quel periodo una serie di iniziative per la rivalutazione della cultura contadina. Viveva nel Monastero di Montebello che aveva restaurato. Ha scritto diversi libri tra i quali: Ritorna la vita sulle colline (Jaca Book), Un avvenire di terra (Libreria Editrice Fiorentina), Terre, monti e colline (Jaca Book) e collaborato con diversi giornali. È anche autore de Il Duca di Ventura dramma teatrale su Federico da Montefeltro interpretato da Giorgio Albertazzi. È morto improvvisamente il 16 marzo scorso.
Agli inizi della mia giovinezza mi ritrovai a lavorare in Svizzera in una fabbrica, ma non mi piaceva, io volevo stare con la mia gente, con quelli che parlavano il mio dialetto e poi avevo nella mente il volto di una ragazza: Tullia, colei che in seguito è divenuta mia moglie. L’ho scritto nel mio primo libro Ritorna la vita sulle colline: a vent’anni sono rimasto fulminato dalla lettura del Vangelo mentre assistevo mia nonna a letto malata, era d’inverno. Leggevo in profondità accorgendomi di cose molto importanti, che, nonostante fossi cattolico praticante, non avevo mai sentito sottolineare da nessuno. Andavo a messa ogni domenica, ma mi raccontavano altro da quello che stavo intuendo essere molto importante per la mia fede e la mia vita. Era il 1967, avevo 21 anni ed ero rimasto scioccato soprattutto dalla distruzione di Gerusalemme raccontata nel Vangelo di Marco al capitolo 13. A colpirmi era che al centro del Vangelo stava l’annuncio del ritorno di Gesù, quel ritorno che San Paolo e la Chiesa primitiva aspettavano e che anche tutti noi credenti di oggi dovremmo aspettare.
Qui a Montebello agli inizi non c’erano nemmeno più i contadini. Sapevo di voler ricostruire il monastero, viverci e fare il seguace del Messia che deve tornare e che aspetto. Però dovevo anche mangiare. Mi sono chiesto: cosa faccio? E la risposta fu: l’agricoltore. Da bambino tutte le estati andavo a lavorare in campagna con i nonni nel podere qui sotto, che si vede anche da qui. Il mio sogno allora non era quello di fare il contadino, in verità ancora non sapevo cosa volessi fare. Sapevo solo che non volevo sbagliare. Ero terrorizzato dallo sbagliare ma non sapevo cosa dovevo fare. Quando ho visto questo posto ho capito che mi attirava. Dovevo riuscire a fare qualcosa qui, ma non era facile capire cosa. Come quando Dio dice: vi darò la terra promessa. Sì, ma all’interno di quella terra c’erano anche altri, che avevano costruito città e avevano mogli e figli.
Ecco, stando lì sul posto, e leggendo e rileggendo l’Antico Testamento, ho scoperto che Mosè, l’idea di rimanere nel deserto, l’aveva già avuta perché non gli andava di scannare tutti. Ci aveva anche provato… Infatti i beduini che, come sai, ci sono ancora oggi, sono rappresentati da Abele, il nomade, non il sedentario. È quella la battaglia di ottomila anni fa. In Arabia, Giordania, Egitto, Libia c’è ancora gente così: si spostano, hanno degli accampamenti mobili. Quelli sono i veri uomini liberi perché non devono modificare la natura. La natura sta bene così com’è, ti dà da vivere e nel deserto c’è perfino un’erba salata per fare le vivande; lì trovi l’essenziale.
Uno dei grandi problemi oggi è quello della spartizione delle risorse del pianeta. C’è il problema di essere in troppi, è vero, ma ciò che rende tragico il problema è che in questo nostro mondo ci sono i pescecani che mangiano i pesci piccoli. Diversamente le risorse del pianeta potrebbero bastare anche per il doppio della popolazione attuale. Tu sai che solo il 20% consuma e prende la maggior parte delle risorse lasciando all’altro 80% quasi niente.
Appartengo a quella schiera di credenti che considerano la geografia determinante anche per capire la fede. Io non sono venuto qui a Montebello perché c’era un bosco sacro dedicato a Giove. Sono venuto qui perché ci sono vissuti diciassette beati di cui non sa più niente nessuno. E diciassette beati in cento anni non ci sono stati nemmeno ad Assisi. A me infastidisce che di Assisi e di San Francesco si sa tutto (e che Dio lo benedica per carità, perché è vero il sogno di Innocenzo III, che se non c’era lui non c’era nemmeno più la Chiesa), mentre non si sa nulla di questo posto che appartiene, esattamente come Assisi, alla storia sacra.
Questa è la molla principale che mi ha fatto venire qui.
Poi c’è un secondo motivo, quello dell’agricoltura biologica. Naturalmente per me è solo un mestiere per vivere e non la cosa principale, come pensava Quinzio. La fede è la fede e la vita è la vita. Per me non sono separate, assolutamente. Tu dimostri di avere la fede secondo la vita che fai. Sennò sono chiacchiere: non si può separare la fede dalla vita, se le separi vuol dire che non hai capito niente. Come i cattolici che credono di essere tali perché vanno a messa la domenica. Mi fanno arrabbiare quando la domenica delle Palme, invece di fare festa, mi fanno leggere il passio. Io mi arrabbio e adesso ho deciso che la domenica delle Palme prego per conto mio e non vado più in chiesa. I cattolici, se il venerdì santo non hanno il tempo di leggere il passio, si arrangino, tu Chiesa non puoi avallare questo semplicemente perché la gente il venerdì lavora. Qui siamo allo stesso livello di quando Celestino V perde la pazienza e si fa tradurre il decreto che stava firmando -me lo raccontava Quinzio- sulla trattenuta del 20% sui proventi delle prostitute di Napoli per fare una Chiesa. È la stessa gravità, la stessa roba e noi continuiamo a fare gli stessi errori.
Quando abbiamo inaugurato il pastificio è venuta fuori una riflessione molto importante che riguarda anche la fede. Prese la parola l’ingegnere che ci aveva costruito la linea nuova. Lavorava per una delle più importanti fabbriche di pastifici al mondo, dunque uno con una grande esperienza. Lui disse, commuovendosi: “Mia figlia mi ha fatto capire che il vostro simbolo (Montebello Bio) contiene qualcosa di forte, infatti venendo qui mi sono accorto, non solo che tutti i dipendenti della cooperativa avevano la maglietta col simbolo, ma soprattutto che erano fieri di appartenere a questa azienda.
Questa è la più grande soddisfazione per un imprenditore: vedere che quelli che lavorano per lui sono fieri e contenti di appartenere all’azienda”. Ecco, qui in azienda io riesco a fare le cose solo se convinco i miei collaboratori (e per alcuni progetti mi ci sono voluti dieci anni), altrimenti non avrei realizzato niente. Se non convinco i miei dirigenti e attraverso di loro anche tutti i dipendenti non si fa niente.
Con il Papa è uguale: devi scegliere delle priorità e devi convincere i tuoi cardinali e poi i vescovi e poi i preti e poi il popolo, altrimenti da solo non puoi far niente. Il fatto che il Papa suggerisca centoventicinque argomenti importanti reca solo confusione, se ne devono scegliere tre o quattro e puntare su quelli e allora si potranno vedere dei risultati.
Ti faccio un esempio che non mi piace ma che rende l’idea: le crociate le abbiamo fatte perché tutti, a cominciare dal Papa, gridavano e ribadivano ogni giorno, tutto l’anno, di volerle fare.
Anati non è credente, Ceronetti non è credente, ma io parlo con loro e li preferisco ai credenti. Quando pensi a Guido Ceronetti pensi a Leopardi. Siamo a quel livello lì. Solo che bisogna capirlo quando è ora, non cento anni dopo. Nemmeno Quinzio l’aveva capito.
Quando una volta a Trento ad un convegno dedicato a Quinzio mi fecero la domanda: ma cosa c’è in comune tra Quinzio e Ceronetti? Risposi: Girolomoni e Montebello. Quinzio e Ceronetti si conoscevano ma si erano stufati l’uno dell’altro. Li ho mantenuti insieme attraverso di me, altrimenti ci sarebbe stato solo un rapporto tra due scrittori importanti e tutto sarebbe finito lì.
Qui tutto era abbandonato, non c’era la luce né l’acqua. Ma la cosa più grave di tutte è che i miei nemici più acerrimi sono stati lo Stato e le istituzioni. Diciassette anni di sequestri della nostra pasta non sono pochi!
Ho scritto, per l’inaugurazione del pastificio, che se un giorno lo Stato italiano mi proponesse la medaglia di Cavaliere del Lavoro gli direi: tieniti la medaglia e ridammi il milione di euro per i danni che ho subìto quando mi sequestravi tutti i prodotti. Io negli anni della contestazione, se non avessi trovato la risposta nel Vangelo, sarei stato uno di quelli che avrebbe messo le bombe. Solo Dio può risolvere i mali del mondo. Noi siamo sotto il faraone a fare mattoni e abbiamo bisogno di essere liberati. Una cosa bella che mi diceva Sergio Quinzio è che solo Dio salva. O lo chiedi a Dio di essere salvo o sei fregato. Può darsi anche che non ti salvi nemmeno lui, ma se non ti salva lui puoi immaginare se ti salva la democrazia o il comunismo o il socialismo o la rivoluzione!
Io sono un credente perché credo che alla fine lui manterrà la sua promessa. Però i tempi non li conosceva nemmeno Gesù. Capirai se possiamo conoscerli noi. Sì, si è sbagliato anche lui dicendo: “Non passerà questa generazione prima che tutte queste cose accadano”.
Quando penso a Gesù risorto mi viene in mente un’immagine di tristezza enorme. Gesù risorto è triste. Io ci vedo una tristezza lacerante. Dov’è tutta questa gloria e le bandiere alzate? Quinzio diceva: i cristiani passano sopra la crocifissione e il venerdì santo per andare a riscuotere subito la resurrezione. Io vedo una tristezza nella risurrezione. I discepoli non lo riconoscono. Posso capire Maria Maddalena che piangeva e con le lacrime non vedeva bene. Ma gli altri non piangevano. Sul lago a pescare non l’avevano riconosciuto. E i discepoli di Emmaus? Il fatto è che non sappiamo niente. È un po’ come con le stelle: alcune che vediamo ancora, dicono, non ci sono più da mille anni. Ma cosa sappiamo noi?
Noi viviamo in mezzo a menzogne grandi come tutta la terra. Te ne dico una sola. Credere che le molecole di sintesi abbiano la stessa funzione di quelle naturali. Solo degli analfabeti lo possono dire. Ma invece lo insegnano in tutte le università del mondo. Per la fisica quantistica sono delle radio spente le molecole di sintesi. Quale utilità può darti una radio spenta? Tu compreresti una radio che non può darti le notizie? Le molecole di sintesi sono la radio che non trasmette niente. La nostra società è basata su queste menzogne. Capisci allora perché ho avuto bisogno di venire a stare a Montebello?
Oggi dire a un giovane di fare il contadino è come dirgli di andare sulla luna. Infatti ci vogliono degli investimenti enormi con difficoltà di ogni genere, almeno nella fase iniziale. E nessuno ti dà i soldi. Eppure ci sarebbe bisogno di 200.000 nuovi nuclei in campagna perché il clima è cambiato e piove sempre di più con grandi temporali e grandi acquazzoni. Io ricordo mio padre e mio zio: quando arrivava la pioggia si mettevano una balla col cappuccio sulla testa e con la zappa andavano a pulire tutti i fossi e le cunette. E questo lo facevano centinaia e centinaia di contadini. Quindi quando pioveva l’acqua andava dove volevano loro. mentre adesso va dove vuole lei. Ma perché non c’è nessuno che cura il territorio.
Questi giovani cosa fanno oggi? Bisognerebbe capire che il mondo a cui eravamo abituati negli ultimi cinquant’anni è morto. Abbiamo costruito questa società con le cambiali, pagando le cambiali con le cambiali e poi con le cambiali ancora. Questo mondo qui è finito per sempre. Io sono quarant’anni che dico: scegli la tua povertà, quella che pare a te sennò te la imporranno gli altri. Dobbiamo ritornare ad una vita misurata. A me decrescita felice non piace, mi fa pensare alle martellate che dai sul tuo corpo e ci trovi pure gusto. Bisogna trovare i termini giusti, come forse povertà semplice o povertà desiderabile. Non so.
Potevo venire qui da solo, ma il mio desiderio era quello di ripopolare questa zona che era stata abbandonata. All’inizio pensavo addirittura di costruire un villaggio rurale composto da dieci famiglie, e poi il forno per il pane, l’artigianato, l’agriturismo, l’allevamento di animali, insomma quattro o cinque cose da mettere insieme per far vivere dieci famiglie.
Su Maria Maddalena ho impiegato trent’anni a scrivere perché non ho mai avuto tempo di mettermi giù per tre o quattro giorni di seguito per farlo. Pensa, me l’aveva chiesto anche Ermanno Olmi venti anni fa, ma io non ho avuto il tempo per mettermi a fare solo quello; è una delle cose che non riescono a capire i miei interlocutori, di quante cose mi occupo. Lo sanno in pochissimi.
Ebbene, della montagna di Maria Maddalena e della sua storia mi sono occupato parecchio, delle presenze dei Romani in quel luogo, che duemila anni fa era abitatissimo, per l’aria, per la presenza di acqua, dunque un centro molto importante. Ma pensiamo anche a Efeso, che è bellissima, più di Pompei, ci sono le mura e fuori delle mura c’è una grotta antichissima dedicata alla dea Madre, poi ci vanno sette martiri ed è qui che va a vivere Maria Maddalena. A due chilometri ci sono i resti della Cattedrale di San Giovanni, dunque anche Giovanni viveva lì nei paraggi. E poco più in là c’era la casa della Madonna. Erano perciò vicini, ma non vivevano insieme. Perché? Questa è una domanda grande come il Monte Ararat e di non facile risposta, ma io che possiedo molta fantasia mi sono provato a darmene una.
Il primo motivo è logistico: immagina un gruppo di fuggiaschi che viene dalla Palestina e si insedia in un’area sperduta, non ci sono case, ma si costruiscono capanne, solo alla Piena di Grazia costruiscono una casetta in muratura di una sola stanza. Questi Santi Pellegrini avevano un grande peso nel cuore: il loro Maestro Gesù, che i suoi seguaci (come faccio anche io) chiamavano Signore, aveva detto che sarebbe tornato presto per instaurare il suo Regno di Gloria, dove non si sarebbe pianto più, dove avrebbe regnato la giustizia, e dove, finalmente, avrebbero vissuto per sempre con lui. Questo Regno è quello che gli ebrei, i cristiani e i musulmani chiamano Paradiso. Ma erano passati più di vent’anni ed erano arrivate invece le persecuzioni e la distruzione di Gerusalemme. Di cosa parlare insieme ogni giorno, allora? Di una promessa mancata? Della paura che quelle promesse non sarebbero state mantenute? A questo si aggiunga il lacerante desiderio dei tre di rivedere il loro Signore e Maestro, e allora meglio il silenzio, la meditazione, di penitenza non c’era bisogno perché lo era già la vita. Sì, si vedevano quasi tutti i giorni, un saluto, un abbraccio, un pezzo di pane insieme, ma poi ognuno ritornava, solo, nel suo rifugio a medicare le proprie ferite dell’anima.
La gente non ha bisogno di parole: vede, capisce e intuisce perché poi tu capisci una cosa solo se l’hai già pensata. Sennò non c’è nessuno che te la fa capire. Se tu con la tua sensibilità ci sei già arrivato bene, sennò non serve a niente. Sono amico di fisici quantistici e la fisica quantistica dice che esiste una dimensione dove il passato e anche il futuro sono lì, tutti insieme.
Potrai far finta di no, ma quella segna anche te, se tu stai lì respiri quell’aria, non puoi essere indifferente.
La cosa più bella che ho scritto nella mia vita l’ho dedicata a Maria di Magdala. Se io facessi solo lo scrittore potrei fare di meglio, ma tra il monastero e la cooperativa, la mia vita è troppo presa da altre cose. Sai, una delle mie colpe di padre è quella di non aver dedicato molto tempo ai figli: non ce l’avevo. È una caratteristica di molti uomini e donne che devono lavorare per pagare le tasse, vivendo così la tragedia del nostro tempo, infatti anch’io son figlio del mio tempo e questa azienda non è uno scherzo: ci sono 35 persone che lavorano, bisogna pagare tredicesima e quattordicesima. Solo io e mia moglie sappiamo quante ne abbiamo viste.
Nel 1992-93 avevamo quattro miliardi di lire di fatturato.
Distribuivamo in tutti i negozi, avevamo fatto il pastificio che lavorava una settimana al mese e poi c’erano gli insoluti di chi non ti pagava.
Era una fatica enorme. Alla fine ci siamo detti: non possiamo fare tutto noi, è necessario trovare un distributore. Vennero da noi Molini e Pastifici, eravamo un marchio importante insieme a Scaldasole e Giulia Maria Crespi; insomma facevamo parte del panorama del biologico e biodinamico italiano. Alla fine scegliemmo un’alleanza con Corticella di Bologna. Poco dopo Corticella chiuse i battenti e ci ritrovammo a essere soci con una nuova società. Le intese durarono poco, era difficile andare d’accordo e alla fine decidemmo di cedere loro il marchio del cavallino Alce Nero. Eravamo nel 2004.
Da allora studiammo un nuovo marchio per andare nella sola distribuzione specializzata, si tratta del marchio Montebello, che raffigura graficamente il monastero visto dall’alto. È con questo marchio che tutt’ora andiamo sul mercato a proporre i nostri prodotti.
Vorrei trovare un modo per far conoscere a più gente possibile quello che è stato fatto su queste colline in tutto questo tempo, parlare loro di personaggi come Illich, Quinzio, Ceronetti, intellettuali di un carattere particolare che, pur diversissimi tra loro, riuscivano a trovare in questo luogo e in questa esperienza un terreno comune.
Vorrei aumentare gli spazi d’accoglienza, penso a un teatro da 300 posti, o a un ospedale addirittura, per curare lo spirito oltre che il corpo. E penso anche di aprire dei punti vendita qua e là in Italia insieme ad altri produttori del biologico, un centinaio almeno di punti vendita, per contattare direttamente i consumatori.
Penso che le imprese del biologico debbano avere anche una funzione sociale e culturale sul territorio in cui si trovano ad operare.
A cura di Daniele Garota e Adriano Ferroni
bellissima storia italiana che non conoscevo e che fa sperare in questo paese cosi abbandonato a se stesso eppure cosi ricco di personaggi incredibili. grazie