«Volle essere Micòl a mostrarmi il giardino. Ci teneva. “Mi sembra di averne un certo diritto”, aveva sogghignato, guardandomi.
Il primo giorno, no. Avevo giocato a tennis fino a tardi, ed era stato Alberto, quando aveva smesso di combattere con la sorella, ad accompagnarmi fino a una specie di baita alpina in miniatura, seminascosta in mezzo a una macchia d’abeti e distante dal campo un centinaio di metri (Hütte, la chiamavano lui e Micòl), nella quale baita o Hütte, adibita a spogliatoio, avevo potuto cambiarmi, e più tardi, all’imbrunire, prendere una doccia calda e rivestirmi.
Ma l’indomani le cose erano andate in modo diverso. Un doppio che opponeva l’Adriana Trentini e Bruno Lattes ai due quindicenni (col Malnate seduto in cima alla scranna arbitrale a far la parte del paziente conteggiatore di punti) aveva subito assunto la piega delle partite che non finiscono mai.
“Che cosa facciamo?”, mi aveva detto a un certo momento Micòl, alzandosi in piedi. “Per riuscire a dare il cambio a questi qua, ho l’impressione che io, te, Alberto, e l’amico meneghino, dovremo aspettare un’ora buona. Senti: e se noi due nell’attesa ci pigliassimo su, e andassimo a vedere un po’ di piante?” Non appena il campo si fosse reso libero – aveva aggiunto –, ci avrebbe certamente pensato Alberto a riconvocarci. Si sarebbe ficcato tre dita in bocca, e giù col suo celebre fischio!
Si era girata sorridendo verso Alberto che, sdraiato lungo disteso sopra una terza sedia a sdraio col viso nascosto sotto un cappello di paglia da mietitore, sonnecchiava al sole lì vicino.
“Non è vero signor pascià?”
Di sotto il cappello il signor pascià aveva assentito con un cenno del capo, e noi ci eravamo avviati. Si, suo fratello era formidabile – continuava intanto a spiegarmi Micòl -. All’occorrenza sapeva tirar fuori certi fischiacci talmente potenti che quelli dei pecorai, al confronto, erano roba da ridere. Strano, eh?, in un tipo del genere. A vederlo, uno non gli dava quattro soldi. E invece… Chissà mai dove andava a pescarlo tutto quel fiato!
Fu così che cominciarono, quasi sempre per ingannare le attese fra una partita e l’altra, le nostre lunghe scorribande a due. Le prime volte prendevamo le biciclette. Essendo il giardino grande “un” dieci ettari, e i viali, tra maggiori e minori, sviluppando nel loro insieme una dozzina di chilometri, la bicicletta era a dir poco indispensabile – aveva prontamente decretato la mia accompagnatrice -. Oggi, è vero – aveva ammesso -, noi ci saremmo limitati a “sopraluogare” soltanto là in fondo, dalla parte del tramonto, dove lei e Alberto, da ragazzi, andavano spessissimo a guardare i treni che facevano manovra in stazione. Ma se fossimo stati a piedi, in che modo, anche oggi, ce la saremmo potuta cavare? Rischiavamo di farci cogliere dall’“olifante” di Alberto senza essere in grado di ripresentarci con la necessaria prontezza.
Quel primo giorno eravamo dunque andati a guardare i treni far manovra in stazione. E dopo? Dopo eravamo tornati indietro, avevamo sfiorato il campo di tennis, attraversato il piazzale davanti alla magna domus (deserto, al solito, più che mai triste), ripercorrendo in senso inverso, di là dallo scuro ponte di travi che attraversava il canale Panfilio, il viale d’accesso: e questo fino al tunnel delle canne d’India e al portone di corso Ercole I. Qui giunti, Micòl aveva insistito perché ci infilassimo giù per il sentiero sinuoso che seguiva torno torno il muro di cinta: dapprima a sinistra, dal lato della Mura degli Angeli, tanto che in un quarto d’ora avevamo di nuovo raggiunto la zona del parco da cui si vedeva la stazione, e quindi dal lato opposto, assai più selvoso, piuttosto cupo e malinconico, fiancheggiante la deserta via Arianuova. Ci trovavamo appunto là, a farci strada a fatica in mezzo a cespugli di felci, ortiche e sterpi spinosi, quando, a un tratto, da dietro il fitto sbarramento dei tronchi, il fischio da pecoraio di Alberto era insorto lontanissimo a richiamarci velocemente al “duro lavoro”.
Con poche varianti di percorso, queste esplorazioni a largo raggio le ripetemmo diverse altre volte nei pomeriggi successivi. Quando lo spazio lo consentiva, pedalavamo appaiati. E intanto parlavamo: di alberi, soprattutto, almeno da principio.
In materia non sapevo nulla, o quasi nulla, e la cosa non finiva mai di meravigliare Micòl. Mi squadrava come se fossi un mostro.
“Possibile che tu sia così ignorante?”, esclamava. “L’avrai pure studiata, al liceo, un po’ di botanica!”
“Sentiamo”, chiedeva poi, già preparata a inarcare le sopracciglia dinanzi a qualche nuova enormità. “Potrei sapere, per favore, che specie di albero Lei pensa che sia, quello laggiù?”
Poteva riferirsi sia a onesti olmi e tigli nostrani, sia a rarissime piante africane, asiatiche, americane che soltanto uno specialista sarebbe stato capace di identificare: giacché c’era di tutto, al Barchetto del Duca, proprio di tutto. Quanto a me, io rispondevo sempre a vanvera: un po’ perché non sapevo sul serio distinguere un olmo da un tiglio, e un po’ perché mi ero accorto che niente le faceva piacere come sentirmi sbagliare.
Le sembrava assurdo, a lei, che esistesse al mondo un tipo come me, il quale non nutrisse per gli alberi, “i grandi, i quieti, i forti, i pensierosi”, gli stessi suoi sentimenti di appassionata ammirazione. Come facevo a non capire, mio Dio, a non sentire? C’era in fondo alla radura del tennis, per esempio, ad ovest rispetto al campo, un gruppo di esili, altissime Washingtoniae graciles, o palme del deserto, separate dal resto della vegetazione retrostante (normali alberi di grosso fusto da foresta europea: querce, lecci, platani, ippocastani, eccetera), e con attorno un bel tratto di prato. Ebbene, ogni qualvolta passavamo dalle loro parti, Micòl aveva per il gruppo solitario delle Washingtoniae sempre nuove parole di tenerezza.
“Ecco là i miei sette vecchioni”, poteva dire. “Guarda che barbe venerande hanno!”
Sul serio – insisteva -: non parevano anche a me sette eremiti della Tebaide, asciugati dal sole e dai digiuni? Quanta eleganza, quanta santità in quei loro tronchi bruni, secchi, curvi, scagliosi! Assomigliavano ad altrettanti San Giovanni Battista, veramente, nutriti di sole locuste.
Ma le sue simpatie, già l’ho detto, non erano affatto circoscritte agli alberi esotici.
Per un platano enorme, dal tronco biancastro e bitorzoluto più grosso di quello di qualsiasi altro albero del giardino e, credo, dell’intera provincia, la sua ammirazione sconfinava nella riverenza. Naturalmente non era stata la “nonna Josette” a piantarlo, bensì Ercole I d’Este in persona, magari, o Lucrezia Borgia.
“Ha quasi cinquecento anni, capisci?”, sussurrava, sbarrando gli occhi. “Pensa un po’ quante ne deve aver viste, di cose, da quando è venuta al mondo!”
E sembrava che gli occhi e le orecchie ce li avesse anche lui, il platano gigantesco: occhi per vederci e orecchie per ascoltarci.
Per gli alberi da frutta, ai quali era riservata una larga fascia di terreno al riparo dai venti del nord ed esposta al sole immediatamente a ridosso della Mura degli Angeli, Micòl nutriva un affetto molto simile – avevo notato – a quello che mostrava nei riguardi di Perotti e di tutti i membri della sua famiglia. Me ne parlava, di quelle umili piante domestiche, con la stessa bonarietà, con la stessa pazienza, e tirando molto spesso fuori il dialetto, da lei adoperato soltanto trattando con Perotti, appunto, o con Titta e Bepi, quando ci accadeva di incontrarli e ci fermavamo a scambiare qualche frase. Di rito ogni volta era la sosta davanti a un grande prugno dal tronco poderoso come quello di una quercia: il suo prediletto. “Il brogn sèrbi” che faceva quel prugno là – mi raccontava –, le parevano straordinarie, da bambina. Le preferiva, allora, a qualsiasi cioccolatino Lindt. Poi, verso i sedici anni, avesa smesso di colpo di sentirne voglia, non le erano piaciute più, e oggi alle “brogne” preferiva i cioccolatini Lindt e non Lindt (quelli amari, però, esclusivamente quelli amari!). Così le mele erano “i pum”, i fichi “i figh”, le albicocche “il mugnàgh”, le pesche “il pèrsagh”. Non c’era che il dialetto per parlare di queste cose. Soltanto la parola dialettale le permetteva, nominando alberi e frutta, di piegare le labbra nella smorfia fra intenerita e sprezzante che il cuore suggeriva.
Più tardi, esaurite le ricognizioni, ebbero inizio “i pii pellegrinaggi”. E poiché tutti i pellegrinaggi, secondo Micòl, dovevano essere compiuti a piedi (altrimenti che razza di pellegrinaggi erano?), smettemmo di usare le biciclette. Andavamo a piedi, dunque, quasi sempre accompagnati passo passo da Jor.
Per cominciare fui portato a vedere un piccolo, romito imbarcadero sul canale Panfilio, nascosto in mezzo a una folta vegetazione di salici, pioppi bianchi e calle. Da quel minuscolo porticciuolo, delimitato tutt’intorno da un muschioso sedile di cotto rosso, era probabile che in antico si salpasse per raggiungere sia il Po sia la Fossa del Castello. E ne salpavano anche lei e Alberto quando erano ragazzi – mi raccontò Micòl – per delle lunghe remate su un sandolino a doppia pagaia. Ai piedi delle torri del Castello, in pieno centro urbano, loro in barca non c’erano mai arrivati (come ben sapevo, con la Fossa del castello il Panfilio comunicava oggigiorno soltanto per via sotterranea). Ma fino al Po, proprio di fronte all’Isola Bianca, eccome se ci erano arrivati! Attualmente, “ça va sans dire”, il sandolino non era certo più il caso di pensare d’adoperarlo: mezzo sfondato, coperto di polvere, ridotto a una specie di “spettro di sandolino”, una volta o l’altra avrei potuto vederne la carcassa in rimessa, se lei si fosse ricordata di portarmici. Però il sedile dell’imbarcadero lei aveva sempre continuato a frequentarlo: sempre sempre. Forse perché se ne serviva ancora adesso per venire a prepararci gli esami in santa pace quando cominciava a far caldo, e forse perché… Fatto sta che quel posto lì era rimasto in qualche modo suo, esclusivamente: il suo personale rifugio segreto.
Un’altra volta finimmo dai Perotti, che abitavano in una casa colonica vera e propria, con annesso fienile e stalla, a mezza strada tra la casa padronale e la zona dei frutteti. […]
Un terzo pellegrinaggio fu dedicato ai luoghi sacri al “vert paradis des amours enfantines”.
Da quelle parti nei giorni precedenti c’eravamo passati più volte: ma in bicicletta, e senza mai fermarci. Ecco là il punto esatto del muro di cinta – mi diceva adesso Micòl, indicandomelo col dito – , dove lei era solita appoggiare la scala; ed ecco le “tacche” (“tacche, sissignore!”) delle quali si serviva quando e accadeva, la scala non era disponibile.
“Non credi che sarebbe giusto metterci una targhetta commemorativa, in questo posto?”, mi chiese. […]
Un altro giorno, l’ultimo, si era messo a piovere, e mentre gli altri riparavano nella Hütte a giocare a ramino e a ping pong noi due, incuranti di inzupparci, attraversammo correndo mezzo parco per andare a rifugiarci nella rimessa. La rimessa attualmente funzionava soltanto da rimessa – mi aveva detto Micòl -. Un tempo, tuttavia, una buona metà del vano interno era stata attrezzata a palestra, con pertiche, funi, asse d’equilibrio, anelli, spalliera svedese, eccetera: e questo al solo scopo che lei e Alberto potessero presentarsi ben preparati anche all’annuale esame di educazione fisica. […]
Si trattava di una costruzione di mattoni bruni, bassa e lunga, con due finestre laterali difese da robuste inferriate, col tetto spiovente coperto di tegole, e con le pareti esterne nascoste quasi per intero dall’edera. Non lontana dal fienile dei Perotti e dal vitreo parallelepipedo di una serra, vi si accedeva attraverso un ampioportone verniciato di verde che guardava dalla parte opposta alla Mura degli Angeli, in direzione della casa padronale.
Restammo per un po’ sulla soglia, addossati al portone. Pioveva a dirotto, a strisce d’acqua oblique e lunghissime, sui prati, sulle grandi masse nere degli alberi, su tutto. Faceva freddo. Battendo i denti, guardavamo entrambi dinanzi a noi. L’incantesimo a cui fino allora era stata sospesa la stagione si era rotto irreparabilmente.
“Vogliamo entrare?”, proposi alla fine. “Dentro farà più caldo”.
All’interno del vasto stanzone, in fondo al quale, nella penombra, tralucevano le sommità di due lustre, bionde pertiche da palestra, alte fino al soffitto, aleggiava un odore strano, misto di benzina, olio lubrificante, vecchia polvere, agrumi. L’odore era proprio buono – disse subito Micòl, accorgendosi che tiravo su col naso -. Anche a lei piaceva molto. E mi indicò, accostata a una delle pareti laterali, una specie di alta scaffalatura di legno scuro, gremita di grossi frutti gialli e rotondi, più grossi delle arance e dei limoni, che prima d’allora non avevo mai veduto. Si trattava di pompelmi messi lì a stagionare – mi spiegò -, prodotti in serra. Non ne avevo mai gustato? – domandò poi, prendendone uno e offrendomelo da fiutare -. Peccato che lei non avesse, lì, un coltello per tagliarlo in due “emisferi”. Il sapore del succo era ibrido: assomigliava a quello dell’arancia e a quello del limone, con, in più, una punta d’amaro del tutto particolare.
Il centro della rimessa era occupato da due vetture affiancate: una lunga Dilambda grigia, e una carrozza blu, le cui stanghe, rialzate, risultavano appena più basse delle pertiche retrostanti.
“Della carrozza ormai non ce ne serviamo più”, diceva intanto Micòl. “Le poche volte che il papà deve andare in campagna si fa accompagnare con la macchian. E la stessa cosa facciamo io e Alberto quando ci tocca di partire: lui per Milano, io per Venezia. È l’eterno Perotti a portarci alla stazione. A saper guidare, in casa, non ci sono che lui (guida malissimo), e Alberto. Io no, non ho ancora preso la patente, e bisogna proprio che la primavera prossima mi decida… purché…Il guaio è che beve talmente, questo macchinone!”.
Si avvicinò alla carrozza, dall’aspetto non meno lustro ed efficiente dell’automobile.
“La riconosci?”
Aprì uno sportello, montò, sedette. Infine, battendo con la mano sul panno del sedile accanto
a lei, mi invitò a fare lo stesso.
Salii, e sedetti a mia volta, alla sua sinistra. E mi ero appena accomodato che, ruotando lentamente sui cardini per pura forza d’inerzia, lo sportello si chiuse da solo con uno schiocco secco e preciso da tagliola.
Adesso lo scrosciare della pioggia sopra il tetto della rimessa aveva cessato di essere udibile. Pareva davvero di trovarsi dentro un salottino: un piccolo salotto soffocante.
“Come la tenete bene”, dissi, senza riuscire a padroneggiare un’improvvisa emozione che mi si rifletté in un lieve tremito della voce. “Sembra ancora nuova. Non ci mancano che i fiori nel vaso”.
“Oh, per i fiori Perotti mette anche quelli, quando esce insieme con la nonna”.
“Dunque la adoperate ancora!”
“Non più di due o tre volte all’anno, e soltanto per fare qualche giro in giardino”. “E il cavallo? È sempre lo stesso?”
“Sempre il solito Star. Ha ventidue anni. Non l’hai veduto, l’altro giorno, in fondo alla stalla? È ormai mezzo cieco, ma attaccato qui fa ancora una… pessima figura”.
Scoppiò a ridere, scuotendo la testa.
“Perotti per questa carrozza ha una vera mania”, continuò amaramente, “ed è soprattutto per far piacere a lui (odia e disprezza le automobili: non puoi credere fino a che punto!) se di tanto in tanto gli diamo da portare a spasso la nonna su e giù per i viali. Ogni dieci, quindici giorni viene qua con secchi d’acqua, spugne, pelli di daino, battipanni: ed ecco spiegato il miracolo, ecco perché la carrozza, meglio se vista tra il lusco e il brusco, riesce tuttora a darla abbastanza da bere”.
“Abbastanza?”, protestai. “Se sembra nuova!”
Sbuffò annoiata.
“Non dire stupidaggini, per favore!”
Mossa da un impulso imprevedibile si era scostata bruscamente, rannicchiandosi nel suo
angolo. Le sopracciglia corrugate, i tratti del viso affilati dalla stessa espressione di strano livore di quando certe volte, giocando a tennis, si concentrava tutta per vincere, guardava dacanti a sé. Pareva di colpo invecchiata di dieci anni.
Restammo qualche attimo così, in silenzio. Poi, senza cambiare posizione, le braccia raccolte attorno alle ginocchia abbronzate come se sentisse un gran freddo (era in calzoncini corti e maglietta di filo, con un pullover annodato al collo per le maniche), Micòl riprese a parlare.
“Ha voglia, Perotti”, diceva, “di spendere per questa specie di penoso rottame tanto tempo e tanto sugo di gomiti! No, dà retta a me: qui, in questa semioscurità, uno può anche mettersi a gridare al miracolo, ma fuori, alla luce naturale, non c’è niente da fare, infinite magagnette saltano subito all’occhio, la vernice qua e là è partita, i raggi e i mozzi delle ruote sono tutte un tarlo, il panno di questo sedile (adesso non puoi rendertene conto, ma te lo garantisco io) è ridotto in certi punti a una tela di ragno. Per cui mi domando: a che scopo tutta la struma di Perotti? Ne vale la pena? Lui, poveretto, vorrebbe strappare al papà il permesso di riverniciare tutto quanto, restaurando e impastocchiando a suo piacere. Però il papà nicchia, al solito, e non si decide…”
Tacque. Si mosse appena.
“Guarda invece là il sandolino”, proseguì – e mi indicava nel mentre, attraverso il vetro dello sportello che i nostri fiati cominciavano ad annebbiare, una bigia sagoma oblunga e scheletrica accostata alla parete opposta a quella occupata dallo scaffale dei pompelmi -. “Guarda invece là il sandolino, e ammira, ti prego, con quanta onestà, dignità, e coraggio morale, lui ha saputo trarre dalla propria assoluta perdita di funzione tutte le conseguenze che doveva. Anche le cose muoiono, caro mio. E dunque, se anche loro devono morire, tant’è, meglio lasciarle andare. C’è molto più stile, oltre tutto, ti sembra?” »
tratto da Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini, Milano 1989.
Prima edizione Torino 1962.