Dopo aver a lungo parlato dell’intelligenza dei fiori, mi sembra naturale spendere qualche parola anche sulla loro anima, cioè il loro profumo. Sfortunatamente, come per l’anima dell’uomo – profumo di un’altra sfera in cui si bagna la ragione – qui varchiamo immediatamente la soglia dell’inconoscibile. Ignoriamo quasi del tutto l’intenzione di questa ventata d’aria di festa e di magnifica invisibilità che lo corolle spargono attorno a se. Vi sono forti dubbi che serve sopratutto ad attirare gli insetti. Infatti, in primo luogo, molti fiori, fra i più profumati, non ammettono la fecondazione incrociata, e dunque la visita dell’ape o della farfalla è loro indifferente quando non inopportuna. In secondo luogo, ciò che richiama gli insetti sono il polline e il nettare che, generalmente, non hanno odore percepibile. Inoltre, vediamo gli insetti trascurare del tutto i fiori dal profumo più delizioso, come la rosa e il garofano, per assieparsi attorno a quelli il cui aroma è pressoché nullo, come l’acero e il nocciolo. Confessiamo dunque che ancora non sappiamo a cosa i profumi sono utili al fiore, così come ignoriamo perché noi stessi li percepiamo. L’olfatto in effetti il più inesplicabile dei nostri sensi. E’ evidente che la vista, l’udito, il tatto e il gusto sono indispensabili alla nostra vita animale. Soltanto una lunga educazione ci insegna a godere in modo disinteressato le forme, i colori e i suoni. Del resto, il nostro olfatto esercita anche importanti funzioni utili. E’ il guardiano dell’aria che respiriamo, è l’igienista e il chimico che veglia con cura sulla qualità dei cibi che ci vengono offerti, dato che ogni esalazione gradevole nasconde la presenza di germi sospetti o pericolosi. Ma, accanto a questa missione pratica, ce n’è un’altra che apparentemente non risponde a niente. I profumi sono del tutto inutili per la nostra vita fisica. Se troppo violenti o insistenti, possono perfino diventare nocivi. Ciò nonostante, possediamo una facoltà pere cui ce ne rallegriamo e ne apprendiamo la presenza come una buona novella, con altrettanto entusiasmo e altrettanta convinzione che se si trattasse della scoperta di un frutto o di una bevanda deliziosa. Questa inutilità merita la nostra attenzione. Nasconde sicuramente un bel segreto. Si tratta in effetti dell’unico caso in cui la natura ci procura un piacere gratuito, una soddisfazione che non è il semplice abbellimento di qualche trappola della necessità. L’olfatto è l’unico senso di lusso che la natura ci abbia concesso, tanto sembra pressoché estraneo al nostro corpo, non strettamente attinente al nostro organismo e un apparato che si sviluppa o che si atrofizza, una facoltà che si addormenta o si sveglia? Tutto ci porta a credere che si sia evoluto di pari passo con la nostra civilizzazione. Gli antichi non si occupavano dei buoni odori se non di quelli più brutali, pesanti, solidi, per così dire come il muschio, il benzoino, la mirra, l’incenso ecc. ; l’aroma dei fiori è menzionato nei poemi greci e latini e nei testi ebraici in casi rarissimi viene forse in mente, oggi, ai nostri contadini, anche nei loro momenti di svago di mettersi ad annusare una viola o una rosa? E non è invece questo il primo gesto dell’abitante di un grande città quando scopre un fiore? Vi è dunque qualche motivo per credere che l’olfatto sia l’ultimo dei nostri sensi, l’unico forse che non sia “in via di regressione”, come affermano lapidariamente i biologi. Vi è un ragione che ci spinge ad affezionarci all’olfatto, a studiarlo e a coltivare le sue possibilità: chi può dire quali sorprese ci riserverebbe se eguagliasse, per esempio la perfezione dell’occhio, come nel cane, che vede tanto con il naso quanto con gli occhi? E questo dunque un mondo inesplorato. Il misterioso senso che, di primo acchito, sembrava quasi estraneo al nostro organismo, a ben vedere è forse quello che lo penetra più nel profondo. Non siamo noi innanzi tutto esseri aerei? L’aria non è forse l’elemento che ci è assolutamente e urgentemente indispensabile, e l’olfatto non è appunto l’unico senso che ne percepisce qualche porzione? I profumi, gioielli di quest’aria che ci tiene in vita, non la ornano senza motivo. Non ci sarebbe da sorprendersi se questo lusso incompreso rispondesse a qualcosa di molto profondo ed essenziale, qualcosa, che abbiamo visto, che non c’è ancora, piuttosto che qualcosa che non c’è più. E possibilissimo che questo senso, l’unico rivolto verso l’avvenire, sia in grado di afferrare le manifestazioni più sorprendenti di una forma o di uno stato felice e salutare della materia che ci riserva parecchie sorprese. Nel frattempo, l’olfatto è ancora fermo alle percezioni più violente, le meno rarefatte; sospetta appena, aiutandosi con l’immaginazione, i profondi e gli armoniosi effluvi che avvolgono con ogni probabilità i grandi spettacoli dell’atmosfera e della luce. Come siamo sul punto di cogliere quelli della pioggia e del crepuscolo, perché non dovremmo giungere a distinguere e fissare i profumi della neve, del ghiaccio, della rugiada, dell’alba, dello scintillio delle stelle? Tutto deve sicuramente avere un profumo, ancora inconcepibile nello spazio, anche un raggio di luna, una nuvola fluttuante, un sorriso dell’azzurro…
Il caso o, meglio, la scelta del destino mi hanno riportato in questo periodo nei luoghi nei quali nascono si elaborano quasi tutti i profumi d’Europa. In effetti come tutti sanno, in quella luminosa striscia di terra che va da Cannes a Nizza, le ultime colline e vallate di fiori vivaci e autentici sostengono una lotta eroica contro i rozzi odori chimici provenienti dalla Germania, che stanno agli odori naturali come gli alberi e le praterie della vera campagna stanno agli alberi e alle praterie dipinti sugli scenari di cartone di un palcoscenico. Il lavoro del contadino è regolato sulla base di calendario esclusivamente floreale, nel quale dominano, in maggio e giugno, due adorabili regine, la Rosa e il Gelsomino. Accanto a queste regine, una dal colore dell’aurora, l’altra vestita di stelle bianche, sfilano, da gennaio a dicembre, le innumerevoli e vivaci Viole, le tumultuose Giunchiglie, gli ingenui Narcisi con l’occhio stupito, i Papaveri, carichi di preziose spezie, l’imperioso Geraneo, il Fiore d’arancio, tirannicamente virginale, la Lavanda, la Ginestra di Spagna, la troppo potente Tuberosa e la Cassia, una specie di Acacia che porta un fiore simile a un bruco arancione. Di primo acchito, è abbastanza sconcertante vedere dei zoticoni grossi e goffi, che in qualsiasi altro posto la dura necessità distoglie dai sorrisi della vita, prendere i fiori così seriamente, maneggiare con tanta attenzione questi fragili ornamenti della terra, sbrigare lavori da ape o da principessa o piegarsi sotto il peso delle Viole o delle Giunchiglie. Ma l’impressione più straordinaria e quella di certe sere o certe mattine nella stagione delle Rose e del Gelsomino, quando si è portati a credere che l’atmosfera della terra stia cambiando all’improvviso, per far posto a quella di un pianeta infinitamente felice, nel quale il profumo non è più, come quaggiù, sfuggente, impreciso e precario, ma stabile, vasto, pieno, permanente, generoso, consueto, inalienabile.
Più di una volta – o almeno così immagino – si sarà tracciato, parlando di Grasse e dei suoi dintorni, il quadro di questa industria fiabesca che occupa tutta una città laboriosa, adagiata sul fianco di una montagna, come un alveare al sole. Si sarà sicuramente detto delle magnifiche carrettate di Rose rosa riversate sulla soglia delle fabbriche fumanti, delle vaste sale in cui le operaie addette alla selezione nuotano letteralmente tra le onde di petali, dell’arrivo meno ingombrante e più prezioso delle Viole, delle Tuberose, delle Cassia, del Gelsomino nei larghi canestri che i contadini portano nobilmente sulla testa. Saranno stati descritti i vari procedimenti mediante i quali si strappano ai fiori, a seconda del loro carattere, i meravigliosi segreti del loro cuore per conservarli nel cristallo. Si Sto arrivando! di alcuni di loro, le Rose per esempio, essendo condiscendenti e pieni di buona volontà, concedono il loro profumo di buon grado. Li si accatasta in enormi caldaie, alte quanto quelle delle locomotive, in cui passa il valore acqueo. Poco a poco il loro olio essenziale, più costoso delle perle, stilla goccia dopo goccia in un tubo di vetro stretto come una piuma d’oca, in fondo a un alambicco simile a un mostro che stia dolorosamente partorendo una lacrima d’ambra. Ma a differenze della Rosa, la maggior parte dei fiori non si lascia imprigionare l’anima così facilmente. Non citerò le infinitamente varie torture che si infliggono loro per costringerli alla fine ad abbandonare il tesoro che nascondono disperatamente nel fondo della corolla. Sarà sufficiente, per dare un’idea dell’astuzia del carnefice e dell’ostinazione di alcune delle sue vittime, ricordare il supplizio dell’estrazione dell’olio essenziale a freddo che subiscono, prima di cedere, rompendo il silenzio, la Giunchiglia, la Reseda, la Tuberosa, e il Gelsomino. Si noti, per inciso, che il profumo di Gelsomino è l’unico che non si possa imitare, l’unico che non si possa ottenere con una sapiente miscela di altri odori. Dunque, uno strato di grasso spesso due dita viene steso su grandi lastre di vetro e poi ricoperto abbondantemente di fiori. In seguito a quali ipocrite manovre, a quali untuose promesse il grasso riesce a ottenere irrevocabili confidenze? Fatto sta che ben presto i fiori troppo fiduciosi non hanno più niente da perdere. Ogni mattina li si porta via, li si getta tra i rifiuti e un nuovo tappeto di ingenui li rimpiazza nell’insidioso letto. Questi ultimi cedono a loro volta, patiscono la stessa sorte e molti, molti altri li seguiranno. Solo dopo tre mesi, cioè dopo aver divorato novanta generazione di fiori, lavico e capzioso grasso, stufo di abbandoni e confessioni profumate, rifiuta di spogliare nuove vittime. La Viola, invece, resiste alle insidie del grasso freddo: bisogna allora aggiungervi il supplizio del fuoco. Lo strutto dunque viene riscaldato a bagnomaria. In seguito a tale trattamento, il modesto, soave, fiore dei sentieri primaverili perde poco a poco la forza che ne custodiva il segreto. Ed ecco che cede, si offre: il suo carnefice liquefatto, prima di essere sazio, assorbe una quantità di petali pari quattro volte il suo peso, cosa che permette il prolungarsi dell’ignobile tortura durante tutta la stagione in cui le Viole fioriscono sotto gli ulivi. Ma il dramma non finisce qui. Adesso si tratta di far restituire il maltolto all’avaro grasso che, freddo o caldo che sia, cerca di trattenere, con tutta la sua informe, evasiva energia, il tesoro che ha assorbito. E non è senza sforzo che si riesce in questa impresa. Il grasso viene tradito dalle sue basse passioni, che lo portano alla rovina. Gli si da da bere dell’alcol, lo si inebria, e così finisce per mollare la presa. A questo punto, è l’alcol che detiene il mistero. E, appena ne prende possesso, anche lui pretende di non dividerlo con nessuno di tenerlo solo per sé. E’ quindi il suo turno di essere attaccato: lo si riduce, lo si fa evaporare e condensare, ed ecco che, dopo tante avventure, la perla liquida, pura essenziale, inesauribile, pressoché eterna viene finalmente raccolta in un’ampolla di cristallo. Non starò a elencare i procedimenti chimici d’estrazione: con l’etere di petrolio, il solfuro di carbonio ecc. I grandi profumieri di Grasse, fedeli alle tradizioni, ripugnano questi metodi artificiali e sostanzialmente sleali, che producono aromi acri e offendono l’anima del fiore.
tratto da Maurice Maeterlinck, L’intelligenza dei fiori, trad.it. Annalisa Marchianò, Bologna 2011
Titolo originale L’Intelligence des Fleurs, prima edizione Parigi 1907
Isabella dice
Grazie