Parte I
Un giorno di fine novembre, dissipatosi il nebbione, s’è rivelata una mattina luminosa e forse tiepida. I fiori ligulati degli asteri son già tutti secchi lungo il sentiero e delle nappe di cardi spinosi che furono color cinabro restano adesso solo capolini, strutture grigie o marroni, ancor più belle in quanto essenziali nelle forme aculeate. I pappi si sono spampanati, lasciando liberi gli acheni che mostrano simulacri di una forma archetipica: la punta di uno strale. A tratti dal sottobosco, tra l’erba rorida di rugiada, sulle ripe della strada inghiaiata che porta al piccolo cimitero, spuntano opalescenti, se visti in controluce, gli steli delle spettrali lunarie. I campi incolti gialleggiano di graminacee vizze, i clivi son sereni, i colli glauchi. Alle Cave di Maiano, pochi chilometri da Fiesole, in mezzo a lame di scuri cipressi, il profilo cilestrino del monte Ceceri è sfiorato dal riverbero dei raggi di sole autunnale. Qualche refolo freddo soffia a tratti, piega le cime aguzze facendo cricchiare i rami più alti. Vengo scosso da brividi acerbi mentre attraverso a piedi la cipressina accanto al fienile dove ho parcheggiato lo scooter, vestito con una giacca scozzese di lana pettinata a quadri blu e azzurro. Porto all’occhiello una spilla metallica d’una farfalla primaverile, la gialla Gonopteryx rhamni (Linnaeus, 1758) detta comunemente Cedroncella, pantaloni color beige in velluto a coste sottili, camicia bianca e scarpe di camoscio con para di gomma, già un poco lorda di fango.
Immagino che un topo campagnolo si sia da poco assopito nella tana, rincantucciato nel tronco cavo. La terra si sta per addormentare, svelando la realtà di un orizzonte di colline ispide, cinto da brume leggere. Per ripararmi indosso pure un cappotto di cotone a doppio petto e una sciarpa di pashmina. Sono venuto in questo posto vicino a Fiesole, sulle colline a Nord di Firenze, per ritrovare un Coleottero che so essere piuttosto frequente nella stagione autunnale. Chi è il soggetto di questa narrazione? Si tratta di un carabide del genere Carabus, dal nome Carabus (Archicarabus) rossii Dejean 1826. Mentre sgrano tra le mani gialle pagliette denticolate e ispide, nello scalare dei diversi piani della campagna, dominati a tratti dal rosso mattone delle foglie secche, si stagliano convesse le chiome più alte degli alberi, gli ombrelli sempreverdi dei pini. Osservo qua e là altri esili cipressi, simbolici e giotteschi. Per il resto, dietro la montatura nera e spessa dei miei occhiali, il bosco pare dipinto a pennellate dense, scaglie friabili o squame lanose.
Presentandosi in alcune popolazioni snello ed allungato, talvolta tozzo, l’archicarabo ha un aspetto variabile. Comunque – rassicurano i libri di testo – la taglia è sempre compresa tra i due e i tre centimetri, mentre il colore è bruno-nero, coi margini del pronoto e delle elitre venati di riflessi dorati, rameici, blu o verdi. Ha antenne nere e lunghe che, se tirate indietro, arrivano alle elitre. I lobi posteriori del pronoto sono allungati, coi margini rotondi, le fossette basali profonde. Le elitre, ovali, sono allungate e un po’ristrette in avanti, generalmente più larghe nelle femmine. La scultura del suo dorso convesso non è uniforme, varia molto a seconda della popolazione, ed è interrotta a intervalli regolari, profondamente punteggiate secondo uno schema preciso, detto in termini entomologici “catenulazione”. Ha zampe nere, edeago corto e robusto.
Il rito che sto compiendo non è una caccia, piuttosto è un’accurata, meticolosa ricerca quella che compio mentre incedo ai margini incerti tra campo e bosco, attento a schivare le pozze per non schizzare di fango gli abiti. Il mondo appare diverso, zaino in spalla, considerando la costruzione dell’immagine complessiva del paesaggio, addomesticato da secoli. Tutto appare in una luce chiara, mosso e fatto vibrare con un’orchestrazione ampia nel cielo. I raggi di sole della tarda mattina sembrano solidificare le forme della natura. Percepisco la zavorra che batte sulle spalle, allentati gli spallacci. In una doppia tasca porto un piccolo libro, Una passeggiata d’inverno di Henry D. Thoreau, e l’eterogenea attrezzatura entomologica: due paia di pinze, tre provette (due grandi vuote e una piccola con segatura intrisa d’etere), un sacchetto da freezer e una scatola di metallo. Il set limitato e preciso di oggetti che mi serve per entrare in relazione con l’ambiente. La tessitura cromatica delle colline si mescola in un’armonia di toni. Porterò campioni e frammenti di natura selvaggia nella mia tana cittadina per osservarli durante la notte e disegnarne i contorni, ricalcando il profilo. Per il resto, a differenza del traffico urbano che brulica più in basso nella valle, intorno a me è un silenzio solcato a tratti dai sibili del vento e l’eco di spari oltre il poggio più lontano dove forse un cinghiale braccato sta fuggendo. Ma anche il carabo è fonte di cibo per il cinghiale, mentre l’albero è rifugio per il ghiro e il picchio. Mi muovo in questo folto dedalo di punti di vista, fra loro talvolta in armonia ma anche contraddittori e contrastanti.
Tratto da: Tommaso Lisa, I racconti del carabo – Carabus tales | Illustrazione di: Francesco D’Isa
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