ph. Alessio Guarino
La distanza fra radice e fronda è proporzionale alla distanza fra realtà e pensiero. Non è una regola botanica, riguarda lo sguardo del visitatore pensante che si aggira negli spazi di ombra e luce della foresta. Il bosco è un fiume ma non procede lungo una direzione lineare, piuttosto fermenta, rigoglisce, dimezza la propria massa in autunno per compensarla in primavera.
Viviamo nel mondo ordinato dal raziocinio del bene comune e divisibile, siamo affogati in un paesaggio regolare e regolato, planimetrato come una carta velina sulla quale sono state incise a matita le misure delle identità, seguendo le direttive della squadra. Abbiamo rinunciato alla sorpresa del bosco naturale per rilassare lo sguardo negli spazi intermittenti di lunghi filari potati a pioppo. Non li sentiamo nemmeno più urlare la notte. Il mondo intorno a noi s’è fatto pensiero, che non equivale a pensato – o pensato bene. Più che di paesaggio potremmo parlare di pensieraggio, o di pensiologo, ma suona male.
Se la generazione dei nostri padri ha rinunciato alla campagna per calare nel Purgatorio delle fabbriche di ferro e cemento e amianto vestendo gli abiti di Vulcano o di un Diodellaguerra fuori stagione, battendo ferri roventi nelle fucine che sputavano scintille e fiamme, ma anche pezzi di polmone, la mia generazione è tornata a camminare lungo sentieri dimenticati, ha abbandonato la periferia con le sue rotonde e i suoi parallelepipedi svuotati, riconquistati da un silenzio preindustriale, per raccogliere semi, foglie secche e coltivare radici materiali quanto immaginarie e simboliche. I boschi si sono fatti cattedrali d’anime e la vita ha ripreso dove era stata bruscamente interrotta. Qualcuno studia da neoeremita pagano, qualcuno da accompagnatore naturalistico e qualche poeta ha ripreso a leggere le venature delle foglie di olmo. Gli uccelli lentamente tornano a cantare e sembrano disposti a ricominciare a dialogare.
Il mio destino era impresso nel nome: Silvano. Colui che vive nel bosco, colui che vive del bosco. Sono un luogo comune che cammina e che ha deciso di fare ritorno, per qualche giro di luna, a disegnare buoi e cavalli sul fondo d’una grotta. O qualcosa di prossimo e di meno teatrale. Con una tenda spinta nello zaino sono tornato nel bosco, sono disceso in una riserva a una decina di chilometri dal villaggio nel quale assolvo alle mie funzioni. Ho oltrepassato ponti e strade, ho abbandonato il traffico e la fretta, mi sono spinto lungo una strada battuta e piena di buche. Ho collezionato polvere e pollini. Mi sono svestito di ruoli e ho ricominciato a essere l’uomo di Cro-Magnon che sono sempre stato.
Scarpe leggere da trekking, un giacchetto e si parte. Mi sono deciso ad abbandonare il telefono in cucina, a farlo diventare per alcuni giorni orfano. Certi oggetti pesano più di quanto racconti la bilancia. Da quando esistono gli orologi ai polsi e la meccanica è entrata preponderantemente nell’organizzazione delle nostre esistenze, ricavarsi parentesi di pace e godimento degli elementi naturali s’è fatto sogno ricorrente, nell’animus dell’uomo moderno. Un giorno abbiamo capito che potevamo produrre energia dai legni e dalle fronde, da ogni roccia vivente, dal movimento degli oceani e dallo spirare dei venti, dalla luce del sole. Abbiamo catturato il pensiero stesso della Terra e siamo diventati i parassiti del pianeta, convinti di fare la cosa giusta. Non ci sfiora il dubbio che possa esistere una civiltà in qualche grado “migliore” di quella tecnologica e veloce in cui viviamo e siamo protagonisti. Il mistero lo lasciamo agli sciamani e ai venditori di fumo, agli oroscopari e ai superstiziosi. Non fanno guadagnare le persone oneste. Nelle nostre fattorie per menti superiori il mistero è stato completamente espulso da professori dediti a coltivare certezze, assolutismi, scientificità ma anzitutto bella nomea di se stessi.
Scavallata la collina la strada si plasma in un trivio: una strada è quella che si percorre arrivando dalla pianura, una strada scende sulla destra e porta ai laghi e alla riserva naturale, la terza punta a sinistra e sale alle montagne. Poco al di sotto dell’imbocco della strada per i laghi c’è una deviazione interna, una lingua di asfalto che porta a un insieme di case private, vecchie fattorie riattate, l’asfalto lascia posto al battuto, si arriva alle porte non disegnate del bosco e al lago piccolo, come viene chiamato. Questi sono i luoghi che la natura sta recuperando dopo secoli di intenso sfruttamento del paesaggio agricolo. La gente che abitava la campagna viveva di campagna, è stato così per secoli e secoli e secoli. I boschi si coltivavano come si coltiva un pezzo d’orto: erano le banche del contadino, producevano sostentamento. Salendo sui rilievi si incontrava il castagneto che, dal Quattrocento in avanti, si è allargato come un’epidemia cambiando il volto della media montagna sull’intero arco alpino e appenninico. Non esisteva robinia o arbusto che potesse crescere per cinque anni in mezzo a un campo, tutto veniva severamente e geometricamente accudito e sfruttato. Sopra il livello della terra o sotto la superficie delle acque l’uomo predava e si faceva terra nella terra. “Il miglior raccolto che può essere prodotto dal terreno / agricolo è un contadino a cui la terra preme” scrive Wendell Berry, contadino-poeta-scrittore del Kentucky, nelle sue Preghiere e detti del contadino impazzito.
A pochi salti dalla riva vedo un salice spento, sbuca immobile, scolpito, dilavato dall’acqua. Sembra che la notte le sirene che popolano il fondale escano e levighino con le mani le superfici, che passino addirittura lo straccio sul lago. Sotto il riflesso che il cielo a pieno giorno proietta sulla superficie macera del Regno dell’Oscurità, continuazione del Regno o del Magistero del Disordine: rami e sassi e uccelli annegati e anche teste mozzate di Gorgone. In certe pozze d’acqua si allevano nugoli di moscerini, mosche e tafani. Al tramonto le zanzare prendono possesso di questi frangenti di natura addossati ai biotopi antropizzati mentre gli umani bipedi tornano di corsa nelle proprie abitazioni. Chiusa la porta si sentono al sicuro.
Tratto da: Tiziano Fratus, Ogni albero è un poeta, Storia si un uomo che cammina nel bosco, Mondadori
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