Se la storia di Roma, assai più delle altre registrate da memoria umana, ha fatto meditare i filosofi, sognare i poeti e inveire i moralisti, ciò è dovuto in parte al genio di un gruppetto di storici romani (e di un paio di storici greci) che hanno validamente contribuito a prolungare fino a noi il ricordo e il prestigio di Roma. Lo si deve a Plutarco, che ci mostra i congiurati mentre si avventano contro il divino Giulio in Senato, se Cesare resta per noi, e a dispetto di tutti gli assassini politici perpetrati nel frattempo, l’immagine per eccellenza del dittatore messo a morte. E merito di Tacito se Tiberio sarà per sempre la personificazione del tiranno misantropo e Nerone quella dell’artista fallito. Lo si deve all’opera di Svetonio, che racchiude le vite di dodici imperatori, se i ripiani delle nostre biblioteche e le facciate dei palazzi rinascimentali sono quasi immancabilmente sormontati da dodici busti dei Cesari.
Ma questi grandi storici, parecchi dei quali furono in primo luogo e specialmente grandi stilisti, fiorirono tutti, per adoperare il termine consueto, nell’arco di quei duecent’anni circa che vanno dalla giovinezza di Cesare alla maturità di Adriano. Lo scialbo Domiziano, con cui Svetonio chiude la sua rassegna dei Dodici Cesari, è l’ultimo imperatore romano a beneficiare di un grande ritrattista. Dopo di lui, e durante i trecentocinquant’anni abbondanti che dovranno ancora trascorrere per giungere alla caduta di Roma, non possediamo altro che testimoni mediocri, non soltanto parziali (lo sono sempre), ma creduloni, convenzionali, confusi, spesso superficiali all’eccesso o superstiziosi ad oltranza, protesi abbastanza scopertamente a fini propagandistici, specchi mentali e linguistici della fine di una cultura, eppure appassionanti perché la loro stessa mediocrità li rende depositari di una sorta di veridicità, fa di loro gli interpreti qualificati di un mondo che se ne va.
L’Historia Augusta, la raccolta in cui sei storiografi hanno accostato ventotto ritratti di imperatori, senza contare quelli di alcuni pretendenti al trono e di alcuni Cesari (titolo che significa, in questo caso, erede presunto) morti giovani, offre di quei trecentocinquant’anni uno squarcio di vita che abbraccia poco meno di due secoli. L’opera si apre con Adriano ed i suoi immediati successori, Antonino Pio, Marco Aurelio, cioè ai tempi d’oro della pace romana, all’apogeo di un mondo che non sapeva di essere così prossimo alla fine. Essa si conclude con l’oscuro Carino, in un momento di estrema incertezza sul finire del III secolo. Il nome stesso e l’esistenza dei cinque principali autori (Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco) costituiscono oggi oggetto di controversia, e le date che vengono loro assegnate spaziano, a seconda degli eruditi e degli specialisti, dalla metà del II secolo alla fine del IV. Una buona parte della raccolta saccheggia o plagia biografie anteriori che sono andate perdute; anch’essa è stata, a sua volta, abbondantemente interpolata. Come tante opere antiche, ci è pervenuta soltanto attraverso alcune rare copie incomplete e scorrette, che sono state le sole a salvarla dall’oblio. E tuttavia, gli storici moderni dell’Antichità non possono certo ignorare l’Historia Augusta; quegli stessi che le negano ogni valore, sono costretti, volenti o nolenti, a servirsene. Poiché i documenti che ci restano del II e del III secolo sono, tutto sommato, sparsi e scadenti, è in questo testo incerto, e che eminenti eruditi hanno potuto ragionevolmente sospettare di essere una quasi totale impostura, che noi cerchiamo, in mancanza di meglio, una rimasticatura di verità.
L’autenticità è una cosa, la veridicità un’altra. Qualunque sia la data, compresa entro i limiti estremi del 284 e del 395 d.C, in cui possa collocarsi la redazione complessiva della Historia Augusta, la domanda che sorge spontanea è quanto credito si possa accordarle, credito che varia, beninteso, da redattore a redattore e da pagina a pagina. La verosimiglianza stessa non costituisce sempre per il lettore un criterio decisivo, dato che la nozione di plausibile dipende, in materia di storia, dai costumi, dai pregiudizi e dall’ingenuità di ogni tempo. E così, per esempio, che gli eruditi del XVII secolo, tutti permeati dalla tradizione cristiana, accettavano volentieri ogni ritratto virato al nero degli imperatori pagani, considerati da loro in blocco come gli infami persecutori della Chiesa nascente; in seguito, per reazione, l’implicita fiducia nella natura umana dei letterati del XVIII secolo, e, più tardi, la “pruderie” contegnosa di una certa categoria di storici del XIX secolo, il loro curioso rispetto per le persone al potere, anche se morte da milleottocento anni, o semplicemente la mancanza di esperienza della vita in questi uomini di studio, li indussero spesso a dichiarare impossibili e improbabili fatti che un lettore più avvezzo a guardare in faccia la realtà non esita affatto a giudicare plausibili o a credere veri. Le atrocità, cui abbiamo assistito in pieno XX secolo, ci hanno insegnato a leggere con minore scetticismo il racconto dei crimini di imperatori della Decadenza; e, per quanto riguarda la storia dei costumi, La Rochefoucauld osservava già che le dissolutezze di Eliogabalo ci sorprenderebbero meno, se si conoscesse meglio la storia segreta dei nostri contemporanei. In alcuni casi, la veridicità dell’Historia Augusta è suffragata da altre testimonianze dell’epoca. In altri, e con singolare frequenza, gli studi degli storici moderni sono venuti a confermarla in seguito. Le riforme economiche e amministrative di Adriano sono state comprovate da troppi testi epigrafici perché si possa credere che Elio Sparziano, o il biografo che assume tale nome, si sia accontentato, come è stato detto, di tracciare del regno di questo imperatore un quadro di fantasia, a imitazione dell’immagine edificante del governo di Augusto. Le innumerevoli statue e medaglie di Antinoo, ritrovate dal Rinascimento ai giorni nostri, hanno ampiamente confermato la breve menzione fatta dallo stesso Sparziano del folle dolore di Adriano alla morte del suo favorito e degli onori divini tributati alla sua memoria, che, altrimenti, sarebbe passata per la tipica invenzione scandalosa inserita nella biografia di un principe saggio. Quel racconto da Mille e una notte, che è la storia di Eliogabalo narrata da Elio Lampridio, sembra oggi meno assurdo di un tempo, grazie alla nostra conoscenza più precisa dei culti e dei costumi orientali; noi scorgiamo il significato di ciò contro cui si scagliava l’incomprensione dello storiografo. Tutto considerato, e a dispetto della lunga lista di documenti inventati, di asserzioni banali e di confusioni di nomi, di date e di avvenimenti che vi si può rilevare, è più nell’interpretazione data ai fatti che nella loro enunciazione che fioriscono sovente nell’Historia Augusta l’errore e la menzogna.
Nove volte su dieci, beninteso, la menzogna è dettata dall’odio di parte o dall’adulazione nei confronti del principe al potere. Il ritratto di Gallieno non è che un libello, ispirato dal rancore della classe senatoriale; quello di Claudio il Gotico contiene pressappoco la stessa verità di un discorso elettorale dei nostri giorni o di un’orazione funebre del XVII secolo. E certamente, quest’odio e quest’adulazione si scatenano soprattutto nelle biografie dei principi che sono vicini nel tempo ai loro ritrattisti, ma anche gli imperatori appartenenti a un più lontano passato vengono dipinti a fosche tinte o scagionati da ogni colpa conformemente alle direttive politiche del cronista e a quelle dell’Augusto del momento. Commodo fu sicuramente un principe detestabile, ma la sua vita, scritta da Elio Lampridio, non è che una furiosa requisitoria “post mortem”, che finisce per invogliare il lettore a parteggiare per questo bruto messo alla berlina. Gli storici sostengono in generale il Senato, che si era trasformato in un gruppo plutocratico e conservatore; gli imperatori migliori, che hanno agito senza riguardi nei confronti delle sinecure senatoriali, vengono vilipesi; i peggiori vengono esaltati se escono dai ranghi senatori o se il Senato ha puntato su di loro. Ma non si deve richiedere troppa consistenza ai biografi della Historia Augusta. Più ancora che ai pregiudizi, i loro errori sembrano imputabili spesso a un’ottusa superficialità che li porta ad accogliere acriticamente le prime ciance sentite, al conformismo che fa loro accettare senza batter ciglio ogni versione ufficiale, e, per quanto riguarda almeno la prima parte della raccolta, alla distanza temporale.
Infatti, persino nell’ipotesi più favorevole, i biografi dell’Historia Augusta sono separati dagli Antonini, i loro grandi modelli, da una distanza variabile tra i cento e i centoventicinque anni. Non si trattava certo della prima volta che uno storico antico si trovava così lontano, o addirittura molto più lontano, dal personaggio che aveva la presunzione di voler ritrarre. Ma il mondo antico, all’epoca di Plutarco, era ancora abbastanza omogeneo perché il biografo greco potesse tracciare a circa centocinquant’anni di distanza un ritratto di Cesare plasmato pressappoco nella stessa materia dell’originale. Quando fu compilata la raccolta dell’Historia Augusta, invece, il mondo era cambiato al punto da rendere il modo di vivere e di pensare dei grandi Antonini quasi impenetrabile a biografi già sulla strada del Basso Impero. Un po’ più ravvicinati nel tempo, ma più esotici, deformati più in fretta dalla fantasia popolare, i monarchi della dinastia siriana scompaiono ancor di più sotto una selva di leggende. Le probabilità di errore dovute all’allontanamento nel tempo diminuiscono poi progressivamente con gli Augusti che si sbranarono tra loro nel corso del resto del III secolo, ma modelli e ritrattisti sprofondano allora ugualmente nel magma di confusione, di violenza e di menzogna che è tipico dei periodi di crisi. Da un capo all’altro dell’Historia Augusta, tutto si svolge come se pochi letterati d’oggi, più o meno ben informati, ma mediocri, e spesso mediocremente coscienziosi, ci raccontassero dapprima la storia di Napoleone o quella di Luigi XVIII servendosi di una congerie di documenti autentici e di aneddoti prefabbricati, anacronisticamente colorati dalle passioni del nostro tempo; poi, passando a personaggi ed eventi più recenti, ci offrissero su Jaurès, Pétain, Hitler o De Gaulle una massa di chiacchiere senza valore frammiste ad alcune informazioni utili, una valanga di letteratura da ufficio di propaganda e di rivelazioni sensazionali da giornale della sera.
L’inconveniente peggiore della costante piattezza dei biografi dell’Historia Augusta è dato dalla loro incapacità di svelarci l’uomo nella sua complessità, cosa grave se l’uomo in questione brillava per poliedricità; il fatto ancor più grave è che ci accorgiamo di tale carenza solo quando altri documenti dell’epoca ci informano che l’uomo così semplificato, rimpicciolito o ingigantito, era grande davvero. Elio Sparziano ha saputo presentarci Adriano nei panni dell’abile amministratore, del sovrano straordinariamente pragmatico, troppo spesso ignorato da coloro che si compiacciono di farne una sorta di vago esteta; egli è riuscito anche a cogliere appieno certi aspetti bizzarri ed irritanti di questo essere complicato. Invece, l’Adriano letterato, amatore d’arte, viaggiatore, uomo dotato di curiosità universale, ci arriva deformato da superstizioni di un’altra epoca, o da una mediocrità di spirito che appartiene ad ogni tempo. Adriano, come tanti suoi contemporanei, si interessava sicuramente all’influsso degli astri sulle vicende umane, ma quando Sparziano ci mostra l’imperatore in veste di astrologo mentre annota in anticipo, il primo gennaio, quanto sarebbe accaduto giornalmente nel corso dell’anno, ci fa sprofondare “ante litteram” in quel mondo di balorda credulità dei peggiori cronisti medievali. I gusti letterari di Adriano vengono commentati con un letteralismo da giornalista ignorante, e anche lo statista, ispirato nelle sue innovazioni e nelle sue riforme da un ideale umanistico che il biografo non condivide più, non trova maggior comprensione. Il pio Antonino, nelle mani di Giulio Capitolino, diventa un personaggio da agiografia popolare, l’eroe senza macchia di una sorta di romanzetto imperiale. Se non possedessimo i Ricordi, non coglieremmo mai l’eccezionalità spirituale del malinconico Marco Aurelio nel convenzionale ritratto che lo stesso Capitolino traccia del buon imperatore e debole marito di Faustina. La mediocrità che impedisce ai biografi di mettersi allo stesso livello degli ultimi rappresentanti della grande cultura greco-romana rende loro un cattivo servizio anche quando si tratta di valutare i personaggi singolari della dinastia siriana, o persino di soppesare l’importanza dei pochi grandi capi militari della fine del III secolo. L’incesto di Giulia Domna con il figlio Caracalla (che lo storico, del resto, crede per errore suo figliastro) somiglia troppo all’avventura di Nerone e di Agrippina perché non si possa sospettare che Sparziano abbia voluto imitare i buoni modelli. Quasi nulla traspare, dai vaghi insulti di Lampridio a Giulia Soemia e dalle vaghe lodi a Giulia Mamea, del carattere così particolare di queste siriane frivole, intriganti, ambiziose, ma anche devote, letterate, protettrici delle arti, accese ammiratrici di Apollonio di Tiana e munifiche ospiti di Origene; e venendo a mancare ogni motivazione rituale alle dissolutezze di Eliogabalo, il voluttuoso sacerdote del culto solare di Emesa nell’Historia Augusta non è altro che il protagonista demente di una serie di aneddoti osceni. Non è soltanto l’odio politico che fa del ritratto di Gallieno una caricatura grossolana: quest’uomo colto, sostenitore della tolleranza religiosa, amico e protettore del grande Plotino, raffinato d’altri tempi in un’epoca di anarchia, sembra essere stato ancor più misconosciuto, se possibile, che calunniato dal suo mediocre ritrattista. Lo stesso duro Aureliano, il rude promotore del culto del Sole Invitto, aveva probabilmente una natura meno semplice di quanto ci potrebbe far supporre la trattazione sintetica di Flavio Vopisco.
Un altro tratto, ancora più tipico, di questi biografi, così incuranti della fisionomia vera dei loro personaggi, così pronti ad adattare i loro eroi allo stereotipo del buono o del cattivo principe, è l’accentuarsi della loro miopia in presenza dei grandi eventi semiclandestini che finirono per avere sulla storia un peso maggiore di tutte le rivolte di palazzo sul Palatino. Leggendoli, sarebbe impossibile immaginare che durante quei duecent’anni circa la marea cristiana stesse invadendo furtivamente gli animi, e che nel momento in cui si arresta ufficialmente la redazione di questa raccolta, sia vicinissimo l’istante in cui Costantino assicurerà il trionfo temporale del cristianesimo arginato in religione di Stato. Se, come ipotizzano alcuni eruditi, la compilazione dell’Historia Augusta fu ancora più tarda di quanto si supponga, l’incapacità di tenere conto della rivoluzione cristiana è ancora più sorprendente e più tipica di un certo comportamento umano. Questi biografi conservatori e pagani ignorano quasi tutto dell’ordine antico che venerano e vogliono ignorare tutto dell’ordine nuovo che si impone loro, loro malgrado, e che essi combattono con la politica del silenzio, senza pronunciarne quasi mai il nome. Inoltre, nonostante una lunga serie di disastri giudicati sempre fortuiti, o prudentemente addebitati alle follie o ai crimini di un Augusto o di un pretendente già morto, e mai ai vizi redibitori dello stato stesso, malgrado la crisi economica dell’Impero, l’inflazione crescente, l’anarchia militare all’interno e la pressione dei barbari in continuo aumento alle frontiere, non sembra che questi storici abbiano visto avvicinarsi il grande evento la cui ombra fosca pur si allarga su tutta l’Historia Augusta: la morte di Roma.
Eppure, a dispetto della sua mediocrità di fondo, o forse proprio a causa di essa, l’Historia Augusta è di una lettura sconvolgente; ci appassiona quanto l’opera di storici più degni di fede e di ammirazione, e talvolta di più. Uno spaventoso afrore di umanità sale da questo libro: il fatto stesso che non si trovi l’impronta di nessuna prepotente personalità di scrittore ci lascia faccia a faccia con la vita stessa, con quel caos di episodi informi e violenti da cui scaturiscono, è vero, alcune leggi generali, ma leggi che finiscono per restare quasi sempre invisibili agli attori e ai testimoni. Lo storiografo si adegua alle oscillazioni delle masse, ne condivide talvolta la curiosità morbosa e disincantata e tal’altra l’isteria. Vi troviamo quanto si bisbigliava a proposito degli adulteri di Faustina o delle orge di Vero alla tavola di Marco Aurelio, o quanto sussurrava nell’intervallo tra due sedute un patrizio del III secolo in favore dell’uomo d’ordine che si era appena comperato a peso d’oro i voti del Senato. Nessun libro ha mai rispecchiato più fedelmente di quest’opera modesta ma appassionante i giudizi dell’uomo della strada e dell’anticamera sulla storia che passa. Vi troviamo l’opinione pubblica allo stato puro, cioè, impuro. Ogni tanto, il dettaglio è di una esattezza tale che basta senz’altro ad autenticarlo: vediamo l’incedere danzante ed effeminato di Eliogabalo; udiamo il suo riso sguaiato di ragazzino maleducato che a teatro copriva la voce degli attori. Assistiamo all’assassinio di Caracalla, trucidato dalle sue guardie mentre scendeva da cavallo per urinare sul ciglio della strada. Le due brevi biografie consacrate alla dinastia di elegantoni, quella di Elio Cesare e di suo figlio Vero, tramandano con ineffabile futilità due aspetti leggermente diversi dell’uomo alla moda, come lo si concepiva a Roma tra il 130 e il 180 dell’era volgare; vi si aggiungano le poche righe della biografia di Adriano riguardanti Elio Cesare e ci si accorgerà che Sparziano, o l’anonimo cui Sparziano servì da prestanome, vi ha dipinto per due volte l’equivalente di un grande ritratto balzachiano, lo straordinario abbozzo di un Rastignac o di un Rubempré del II secolo. A volte, addirittura, la poesia si innalza da questo coacervo di piatti particolari come un vapore dalla nuda terra: le lugubri imprecazioni dei senatori sul cadavere di Commodo hanno la tragica grandezza di una scena shakespeariana di folla; un’arcana bellezza si sprigiona dalle poche frasi senz’arte con cui Sparziano ci descrive, alla vigilia della morte di Settimio Severo, l’imperatore intento a compiere un sacrificio nel tempio di Bellona nell’odierna cittadina britannica di Carlisle, all’estremità occidentale del Vallo di Adriano. Il rozzo vittimarlo, poco al corrente degli usi romani, aveva procurato per l’immolazione una coppia di buoi neri, bestie di malaugurio che il sovrano rifiutò di sacrificare, e che, rimesse in libertà dai servi del tempio, lo seguirono poi fino alla soglia della sua porta, raddoppiando in tal modo il presagio di morte. Uno squarcio della vita quotidiana dell’Impero, della campagna immutabile, ci è stato rivelato soltanto grazie alla superstizione di Sparziano: sono bastate poche parole per farci balenare davanti un freddo o piovoso giorno di febbraio alla frontiera scozzese, l’imperatore in tenuta militare, il suo colorito africano reso pallido dalla malattia e dal clima nordico; i due pacifici animali, figli e simbolo della terra stessa, sfuggiti senza saperlo all’insensatezza cruenta del sacrificio, completamente ignari di quel mondo umano e di quello straniero per cui sono premonitori di morte, vaganti lungo le stradine fangose di quella cittadina di guarnigione prima di ritornare alle loro selvagge colline.
Ma questa poesia siamo noi a ricavarla, come siamo noi a trovare nell’accenno a Massimino, il barbaro giovane e biondo che si stacca con insolenza dal grosso delle truppe durante una parata e caracolla sotto gli occhi dell’imperatore, una scena alla Tolstoj, un odore di sudore e di cuoio, un rumore di zoccoli che calpestano la terra un mattino di sedici secoli fa. Siamo sempre noi a fare della descrizione più o meno favolosa della Torre del Suicidio innalzata da Eliogabalo, con i suoi pugnali d’oro, i suoi veleni racchiusi in fiale ricavate da pietre preziose, le sue corde di seta per le impiccagioni e il suo pavimento di marmo per fracassarvisi il cranio, una fantasia nello stile del Vathek di William Beckford, una bizzarra raffinatezza da romanzo nero. In ogni caso, è l’immaginazione del lettore moderno che isola e libera da questa enorme congerie di fatti diversi, più o meno inventati, l’attimo di poesia, o, fa lo stesso, il frammento di intensa ed immediata realtà.
Le opere d’arte e i monumenti dell’epoca costituiscono forse il miglior commento alla Historìa Augusta. I busti, innanzitutto, che confermano o talora contraddicono queste biografie imperiali: il volto, al tempo stesso giudizioso e sognatore, di Adriano, la sua bocca nervosa, i suoi lineamenti deformati in fretta dal progredire dell’idropisia; le teste elegantemente acconciate di Elio e di suo figlio; la mascella stretta, il profilo asciutto e nitido di Antonino Pio; il benevolo Marco Aurelio della piazza del Campidoglio, che assomiglia abbastanza a quello dell’Historia Augusta e la testa stanca e tormentata di un Marco Aurelio invecchiato al British Museum, che, invece, somiglia a quello dei Ricordi; i riccioli grotteschi di Commodo, la faccia da soldataccio di Caracalla, il musetto sornione di Eliogabalo, che, bisogna riconoscerlo, corrisponde di più al giovane scapestrato di Lampridio che al mistico depravato degli amanti della storia romanzata; i visi morbidi e pensosi delle imperatrici siriane, o il grugno rugoso degli imperatori illirici, le “sciabole” (manu ad ferrum) che ristabilirono per un certo periodo l’ordine nell’Impero come un caporale in una sera di sommossa lo ristabilisce sulle piazze. Poi le monete: dall’inizio alla fine dei ventotto regni descritti dalla Historia Augusta, i profili imperiali vanno perdendo i loro altorilievi, i loro piani accuratamente graduati che appartenevano ancora alla statuaria antica, trasformandosi così nelle immagini piatte e sempre più tremolanti incise su dischetti d’oro senza spessore; più eloquentemente delle allusioni dell’Historia Augusta agli editti che vietavano il rialzo dei prezzi, alle leggi suntuarie, alle aste pubbliche dei beni dello Stato, esse esprimono i tormenti di un’economia morente. L’arte ellenizzante e neoclassica del tempo di Adriano, l’arte ufficiale e un poco greve del tempo di Marco Aurelio concordano pienamente con le biografie di questi due saggi imperatori; i geroglifici sull’obelisco del Pincio confermano la morte di Antinoo in Egitto, narrata da Sparziano; gli stucchi della basilica pitagorica di Porta Maggiore documentano la poetica “pietas” pagana che non ha smesso di permeare le anime degli idealisti nel periodo che intercorre tra Adriano e Alessandro Severo, evocata, per esempio, dalla descrizione fatta da Lampridio dell’oratorio privato di quest’ultimo sovrano. La leggiadria cosmopolita della Villa di Adriano, dove Aureliano relegò più tardi la sua prigioniera Zenobia, le rovine enormi del Settizonio dove si raccolse la corte già orientaleggiante dei Severi, il padiglione di Gallieno presso la via Labicana, magro resto di quelle imperiali dimore di campagna immerse in parchi ricchi di rare piante odorifere e popolati di animali domestici, che occupavano un quinto della superficie di Roma, servono a dimostrare l’esistenza del dramma con la malinconica sopravvivenza dello scenario. La politica del prestigio ad ogni prezzo e del piacere ad ogni costo, il lusso insensato dei giochi e delle parate megalomani sono comprovati dalle gigantesche carcasse dei monumenti consacrati ai divertimenti e al pubblico benessere, come le terme di Caracalla o di Diocleziano, le cui dimensioni, congiunte ad una sovrabbondanza dell’ornato, sembrano crescere proporzionalmente alla crisi economica dell’Impero, e servirono senza dubbio a farla dimenticare. Gli atleti ipertrofici e microcefali dei mosaici delle terme di Caracalla sono davvero i fratelli dei ginnasti prezzolati incaricati di strangolare Commodo e ricercati cupidamente da Eliogabalo. La presenza del Colosseo e delle arene provinciali dell’Italia e della Spagna, dell’Africa e della Gallia sta a dimostrare la veridicità degli orribili elenchi di migliaia di animali africani e asiatici catturati, sottomessi ai terrori e alle miserie di un lungo viaggio, massacrati infine per procurare agli spettatori, comodamente seduti, un pomeriggio di forti emozioni, nel quadro di una folle profusione di beni terreni; la frenesia per il professionismo sportivo è documentata dalle vestigia del Circo Massimo. Ma, fra tutte le costruzioni dell’epoca, le Mura Aureliane denunciano nella maniera più tragica la malattia mortale di Roma, i cui miglioramenti temporanei e le fatali ricadute riempiono l’Historia Augusta. Queste mura così maestose, che per noi sono ancora il simbolo stesso della grandezza di Roma, furono il prodotto frettoloso degli anni di insicurezza. Ogni loro casamatta e ogni loro torre di guardia proclama che la Roma aperta, sicura di sé, ben difesa alle frontiere, ha cessato di esistere; giovevoli al momento e alla fin fine inutili, come tutte le misure difensive, esse preannunciano il sacco di Alarico a distanza di poco più di un secolo. Come gli abusi e le debolezze della Roma del III secolo si ravvisavano già nella Roma dei bei tempi dell’Impero, o addirittura in quella repubblicana, allo stesso modo molti difetti dell’Historia Augusta sono imputabili agli storici antichi dei tempi felici; soltanto da un esame ravvicinato si nota una differenza dovuta più ad un abbassamento della cultura che ad un cambiamento di metodo. La stessa assenza di sistema, la stessa incapacità di datare un episodio o un gesto, e di conseguenza la stessa tendenza a presentare come caratteristico del personaggio quel che spesso è soltanto un atto isolato nel corso della sua vita, lo stesso guazzabuglio di informazioni politiche serie e di aneddoti troppo intimi per non essere spesso costruiti, si ritrovano anche in Svetonio, ma la fredda perspicacia di quest’ultimo, il suo realismo alla Holbein, finiscono per fare di queste piccole pennellate giustapposte a caso un ritratto convincente, per dare a torto o a ragione il senso di una rassomiglianza straordinaria con il modello: c’è verità psicologica anche se c’è carenza dal punto di vista della storia. E più raro che i cronisti dell’Historia Augusta riescano ad ottenere risultati di tal fatta. Da sempre, i grandi biografi antichi non si sono peritati di accogliere senza una debita analisi critica un discorso o una frase celebre destinati a riassumere una situazione o un personaggio o di confezionarli di sana pianta: il fatto è che la storia per un Tito Livio o un Plutarco era un’arte quanto una scienza e, più che una maniera di registrare degli avvenimenti, un mezzo per avanzare nella conoscenza dell’uomo. Le lettere e i decreti forgiati o alterati da Vopisco o da Pollione, invece, sono semplicemente dei falsi e non dei ritratti psicologici. Lo stesso dicasi del moralismo esasperante che ingombra l’Historia Augusta; esso si mescola anche al racconto dei fatti nei maggiori storici dell’antichità, sciupandone più di un autentico capolavoro. Ma se Tacito, fra l’altro, non si fa scrupolo di abusare di toni foschi per i colpevoli e di idealizzare gli eroi virtuosi, a rischio di una schematizzazione eccessiva delle intricate vicende umane, ciò nondimeno ci appare spesso giusto. Il suo genio di grande ritrattista gli impedisce di cadere nell’imagerie di Epinal o nella caricatura; anche se eccessiva, la sua indignazione resta quella di un onest’uomo ispirato ancora dal solido ideale civico dell’antichità. Sparziano, e più ancora i suoi cinque colleghi, appartengono invece ad un’epoca in cui si eclissa questa tradizione delle virtù civiche e si dissolve persino il ricordo di una morale da uomo libero. Le loro declamazioni furenti contro il lusso o la corruzione dei costumi (che si accompagnano spesso al gusto per il particolare osceno) sono prese a prestito dal repertorio comune dei retori e dei sofisti del tempo. A questa morale intemperante che pone il delitto di mangiare delle primizie o di fare i propri bisogni in un vaso d’argento sullo stesso piano dell’assassinio politico o del fratricidio, si sovrappone, beninteso, la più completa indifferenza alle vere tare dell’epoca: l’apatia della folla, il generale servilismo nei confronti dei padroni del momento, la persecuzione intermittente, ma feroce, delle minoranze cristiane, lo spreco barbaro dei giochi, la stupida e confusa superstizione, la miseria pomposa di una cultura fatta ormai solo di rimasticature scolastiche; tare già denunciate da alcuni spiriti liberi e che avrebbero fornito in futuro un valido pretesto agli storici cristiani, parimenti ciechi, è vero, davanti alle colpe del proprio tempo, per abbandonarsi alle invettive. Poco a poco l’occhio impara a discernere in questo caos di fatti che si ripetono con una certa insistenza, di eventi ricorrenti, non proprio un piano ma degli schemi. Nel II secolo, due imperatori nati in Andalusia, uno dei quali almeno apparteneva spiritualmente sia alla Grecia che a Roma, avevano dato quasi un secolo di respiro all’umanità. Questo allargamento per cerchi successivi dell’area di origine degli imperatori prosegue nel III secolo; un punico, Settimio Severo, succede agli Antonini; dei siriani succedono al punico; un arabo, Filippo, presiede nel 248 alle cerimonie per il millenario della fondazione di Roma; degli illirici che vengono dalla gavetta e di Roma conoscono solamente la disciplina militare, ristabiliscono temporaneamente il principio di autorità in un mondo preda dell’anarchia, ma senza restaurare una civiltà cui essi stessi sono estranei. I provvedimenti “generosi” giungono troppo tardi: la cittadinanza viene conferita a tutti gli abitanti dell’Impero in un momento in cui essa cessava di essere un privilegio e diventava un gravame fiscale, e in cui Roma non era più in grado di assimilare quelle masse umane che non governava neppure più. Se l’area d’origine degli imperatori si è estesa, quella della loro morte non sembra essere da meno: Marco Aurelio muore stremato sulle rive del Danubio, ai piedi delle palizzate della città che un giorno sarà Vienna; la malattia si porta via Settimio Severo a Eburaco, la futura York; Cara-calla viene assassinato nei pressi di Antiochia; Alessandro Severo è trucidato da soldati in rivolta nei dintorni di Magonza; la testa di Massimino Trace finisce piantata su un palo sotto le mura di Aquileia; due dei Gordiani cadono in Africa, e il terzo alle frontiere persiane; Valeriano spira in Asia nelle prigioni di Sapore I; Aureliano viene ammazzato sulla strada di Bisanzio, Tacito in Cappadocia, Probo in Illiria; i cadaveri dei Trenta Tiranni ingombrano le vie della Germania e della Gallia; si perde e si vince Roma ovunque, tranne che a Roma.
Gli autori dell’Historia Augusta si limitano invece a constatare appena la morte delle istituzioni, data la sua lentezza. La sopravvivenza della forma cela la scomparsa della sostanza; il linguaggio delle formule repubblicane, già quasi svuotato del suo contenuto sotto i primi Cesari, resta in uso accanto al protocollo pomposo e all’adulazione più servile sotto la monarchia orientaleggiante del III secolo, accontentando così quanti tengono l’apparenza in maggior conto della realtà, cioè quasi tutti. L’adozione e l’elezione non sono più che forme mascherate di aste pubbliche e di colpi di stato. Il principio della successione dinastica affonda nell’incapacità e nel sangue, negli Antonini con Commodo, nei Severi con Caracalla; la dinastia siriana non offre al mondo che un giovane folle e un giovane saggio, prontamente soppressi entrambi dalla truppa che non ricava nulla dai vizi di Eliogabalo e non sa che farsene delle deboli virtù di Alessandro Severo. La dinastia dei tre Gordiani dura sei anni. Gallieno regna otto anni dopo la cattura del padre Valeriano da parte dei persiani, ma muore assassinato a sua volta con il figlio Salonino. L’esercito, unico sostegno dei regimi forti, diventa proprio per questa sua funzione anche un fattore di anarchia; composto sempre più di elementi stranieri, esso abitua Roma alla barbarie almeno nella stessa misura in cui si adopera per difenderla da essa. Le selvagge e piccole lotte intestine che assorbono totalmente l’attenzione degli storici si svolgono sullo sfondo di eventi di troppo vasta portata per essere intesi con chiarezza dai contemporanei: la reazione dei popoli intimoriti o conquistati in passato, le migrazioni che avrebbero presto sconvolto l’equilibrio del mondo, la spinta delle forme nuove sotto il deterioramento o l’inaridimento delle culture, la morte degli antichi miti e la nascita dei nuovi dogmi. Esaminati sotto questo punto di vista, i vizi di un Eliogabalo e le virtù brutali di un Aureliano non hanno che un’importanza relativa. Ma non lasciamoci indurre ad accettare troppo facilmente il luogo comune di coloro che vedono nella storia null’altro che una serie di circostanze in cui l’uomo non può interferire affatto, come se non dipendesse invece da ciascuno di noi dare una mano ai fatti, lasciar fare, o lottare: in fondo, Eliogabalo ha affrettato un po’ la caduta di Roma, e Aureliano, per quanto poco, è riuscito a differirla.
Considerata la nostra miopia quando si tratta di valutare la nostra civiltà, i suoi errori, le sue probabilità di sopravvivenza, e l’opinione che di essa avrà la posterità, non abbiamo certo il diritto di stupirci che dei romani del III o IV secolo si siano accontentati fino alla fine di vaghe meditazioni sugli alti e bassi della Fortuna, invece di interpretare con maggior chiarezza i segnali della morte del loro mondo. Non vi è nulla di più complesso della curva di una decadenza. Il grafico incompleto che ce ne offre l’Historia Augusta è, per forza di cose, inconclusivo: il regno di Adriano è ancora un vertice, quello del disgraziato Carino non è una fine. Ogni periodo di vertiginoso declino è stato seguito da una stasi, o addirittura da una ripresa temporanea che ogni volta si credette duratura; ogni salvatore è sembrato onnipotente. Quando l’Historia Augusta si chiude su Carino, Diocleziano è già presente; al salvatore Diocleziano faranno seguito il salvatore Costantino, il salvatore Teodosio; dovranno passare ancora centocinquant’anni precari prima che il lungo elenco degli imperatori romani si chiuda pietosamente con il figlio di un aiutante di Attila, cui era stato affibbiato caratteristicamente il pomposo nome di Romolo Augustolo. Nel frattempo, l’assuefazione alle catastrofi avrà preso il posto del rifiuto di prevederle o di prenderne atto con coraggio; forme più rozze di vita politica si saranno sostituite alla farraginosa macchina imperiale fuori uso, pressappoco come nelle ville degli ultimi patrizi di Ostia alcune cisterne, frettolosamente scavate qua e là, rimpiazzano, bene o male, le ingegnose tubature che non vengono più alimentate come un tempo dall’acqua degli acquedotti e delle fontane pubbliche. La conclusione del grande spettacolo che durava da secoli passerà presto quasi inosservata.
Meglio ancora: è nel momento in cui le realtà svaniscono che si esercita appieno il talento dell’uomo di accontentarsi di belle parole. Scomparsa Roma, il suo fantasma ha avuto vita dura. Poiché l’impero greco di Bisanzio aveva paradossalmente ereditato il nome di Impero romano, uno strascico, più o meno fittizio, di mille anni si è venuto ad aggiungere ad oriente a questa interminabile storia: nei due poderosi volumi consacrati dal Gibbon al declino e alla caduta dell’Impero romano, l’Historia Augusta non fornisce che la materia dei primi capitoli; l’opera si conclude con l’entrata a Costantinopoli di Maometto II nel 1453. D’altra parte, dato che nell’Europa occidentale il Sacro Romano Impero della nazione germanica aveva assunto il retaggio dei Cesari, l’antica partita è continuata attraverso i secoli con poste quasi simili a quelle di un tempo ed una singolare analogia nel temperamento dei giocatori. Non è poi così esagerato affermare che, al di là dei fatti e delle gesta dei papi e degli imperatori guelfi e ghibellini del Medio Evo, le turbinose avventure dell’Historia Augusta si prolungano fino ai nostri giorni, fino a Hitler che combatte le sue ultime battaglie in Sicilia o a Benevento come un Cesare del Sacro Romano Impero del Medio Evo, o fino a Mussolini che viene ucciso in piena fuga e poi appeso per i piedi in un garage di Milano, facendo nel XX secolo una morte da imperatore del III secolo. Una decadenza che abbraccia così più di milleottocento anni è qualcosa di ben diverso da un processo patologico: è la condizione stessa dell’uomo, la nozione stessa della politica e dello stato che l’Historia Augusta chiama in causa, la massa deplorevole di lezioni mal imparate, di esperienze mal fatte, di errori spesso evitabili e mai evitati, di cui essa offre, è vero, un saggio particolarmente riuscito, ma che, sotto una forma o sotto un’altra, riempiono tragicamente tutta la storia.
Agli uomini della fine del XIX secolo, la Decadenza romana appariva sotto forma di patrizi coronati di rose mollemente adagiati su cuscini o avvinti a belle fanciulle, o ancora, come li ha sognati Verlaine, intenti a comporre con aria indolente degli acrostici e a guardar passare i grandi barbari bianchi. Noi siamo meglio informati su come una civiltà finisce per spegnersi. Non è certo per abusi, vizi o crimini, che sono di tutti i tempi, e nulla prova che la crudeltà di Aureliano sia stata peggiore di quella di Ottavio, o che la venalità nella Roma di Didio Giuliano sia stata maggiore che in quella di Siila. I mali di cui si muore sono più specifici, più complessi, più lenti, talvolta più difficili da scoprire o da diagnosticare. Ma noi abbiamo imparato a riconoscere questo gigantismo che è solo la contraffazione malsana di una crescita, questo sperpero che vuol far credere all’esistenza di ricchezze che non si posseggono già più, questa opulenza che viene sostituita così in fretta dalla carestia alla minima crisi, questi divertimenti organizzati dall’alto, questa atmosfera di inerzia e di panico, di autoritarismo e di anarchia, queste riaffermazioni pompose di un grande passato in mezzo all’attuale mediocrità e al presente disordine, queste riforme che non sono che palliativi e questi accessi di virtù che si manifestano solo con epurazioni, questo gusto del sensazionale che finisce per far trionfare la politica del peggio, questi pochi uomini di genio mal assecondati e sperduti tra la folla degli zotici abili, dei pazzi violenti, degli onesti maldestri e dei deboli saggi. Il lettore moderno nell’Historia Augusta è a casa propria.
Mount Desert Island, 1958
Tratto da: Marguerite Yourcenar, Con beneficio d’inventario, Bompiani