Scivolai nei miei geta e corsi fuori. Era una meravigliosa notte di luna; qua e là mucchi di riso appena raccolto proiettavano sulla terra morbide ombre.
Dietro un ciuffo d’alberi scorsi un gruppo d’ombre che si muovevano. Uiko, vestita di nero, sedeva in terra. Aveva il viso d’un pallore indicibile. La circondavano alcuni poliziotti ed i suoi genitori. Uno dei poliziotti gridava qualcosa, agitando un oggetto che pareva un comune portavivande. Il padre della ragazza non sapeva piú a che votarsi, ora implorando i poliziotti, ora rimproverando la figlia. La madre, rannicchiata in terra, piangeva.
Osservavamo la scena dal ciglio d’una risaia. Gli spettatori a poco a poco aumentarono di numero, e s’urtavano in silenzio con le spalle. Sopra di noi ristava la luna, piccola, come fosse stata compressa.
Il mio compagno mi bisbigliò qualche parola di spiegazione. Pareva che Uiko, uscita di nascosto da casa con il portavivande, fosse stata arrestata dai poliziotti in agguato mentre s’avviava al vicino villaggio. Era chiaro che stava portando da mangiare al disertore. Aveva stretto relazione con lui mentre lavorava all’ospedale della marina, ne era rimasta poi incinta e questo era il motivo per cui aveva abbandonato l’impiego. I poliziotti ora la incalzavano di domande per conoscere il nascondiglio del disertore; ma lei se ne stava immobile, ostinata nel suo silenzio.
Da dove ero, riuscivo a scorgere appena il viso di Uiko: sembrava uscita di senno, impassibile, lí sotto la luna.
Non avevo mai visto un viso cosí pieno di disprezzo. Io, pensavo, ero disprezzato dal mondo, ma Uiko, era lei a disprezzare il mondo. Il chiarore della luna le investiva spietatamente la fronte, gli occhi, la curva del naso, le guance, senza minimamente attenuarne l’impassibilità. Se avesse ceduto appena, se anche di poco avesse dischiuso la bocca, quel mondo che ella profondamente disprezzava le si sarebbe immediatamente scaraventato contro. Col fiato sospeso guardai quel volto che aveva una storia interrotta, e che nulla avrebbe mai potuto raccontare di quanto apparteneva al passato e di quanto avrebbe potuto appartenere al futuro. Era come il ceppo d’un albero appena decapitato: benché giovane e di colore vivo, ormai è affatto privo di vigore, preda del vento e del sole cui non è avvezzo, esposto ad un mondo fino allora sconosciuto: ed è appunto su un simile rudere dalla grana ben disegnata, che si potrebbero scorgere lineamenti altrettanto sconcertanti. Un volto che si svela al mondo, soltanto per poterlo disprezzare. Mai piú nella vita di Uiko o nella mia si sarebbe ripetuta la bellezza del suo volto in quell’istante. Ma non durò neppure quanto m’aspettavo, ché sopraggiunse un’improvvisa trasformazione. Uiko s’alzò. Mi parve di vederla sorridere, di vedere i suoi bianchi denti brillare ai raggi della luna. Non so dire altro di quel mutamento, giacché appena Uiko s’alzò, il suo viso uscí dalla luce lunare per perdersi nell’ombra degli alberi.
Peccato che non sia riuscito a cogliere quel cambiamento nell’attimo stesso in cui Uiko si decise a tradire. Se infatti l’avessi potuto attentamente osservare, forse sarebbe sorto in me un sentimento di pietà per gli uomini, di compassione per ogni genere di bruttura.
Tratto da: Mishima Yukio, Il padiglione d’oro
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