Il paesaggio: una ricerca psicologica.

1. Alcuni anni fa, vivevo ancora a Zurigo, partecipai ad una conferenza tenuta dal grande mitografo ungherese, Karl Kerény, sul tema del momento dionisiaco. Era la fine degli anni Sessanta, il periodo delle grandi rivolte, quando i giornalisti cercavano di spiegare lo Zeitgeist come un ritorno di Dioniso, un’espressione orgiastica, una sfrenatezza tumultuosa, una liberazione collettiva. Ricordo le parole di Kerény: «Per incontrare Dioniso, basta recarsi in una vigna del Sud Italia, a fine estate, nella calura del mezzogiorno; sdraiarsi di schiena sulla terra calda sotto le fronde intrecciate e alzare lo sguardo sugli acini rigonfi dei grappoli pendenti, il volto immerso nella luce che gioca con le foglie di vite, e arrendersi al dio dell’ebbrezza e alla zoé della sua forza vitale». L’evocazione estatica di Kerény di un terroir vivente rapiva gli ascoltatori. Eravamo diventati parte del thiasos del dio del vino abbandonandoci al paesaggio.

È questa l’idea di paesaggio che oggi vorrei esplorare, un’idea che prende spunto da una antichissima affermazione attribuita a Talete: “tutte le cose sono piene di dei”.

2. Credo che la pittura di paesaggio, come pure l’architettura del paesaggio, cerchino di materializzare, se non di letteralizzare, le parole di Talete. Quali psicologi, dobbiamo chiederci che cosa cercassero di ottenere pittori come Poussin, Constable, Turner, Hobbema, Pissarro e Cézanne, quale fosse l’urgenza cha si è impossessata della loro mente e delle loro mani. Di più: che cosa rende la loro visione trasposta sulla tela, in una sottilissima copertura di pigmenti, capace di rapirci e incantarci. Qual è il potere del paesaggio, quello là fuori, o quello dipinto, anche di un paesaggio commerciale per il turista e ridotto a bel panorama? Cosa ci porta fuori per una passeggiata domenicale, per un’escursione vagare per colline e brughiere o strade di campagna? Che cos’è che capta nel paesaggio?

A questo punto mi ricollego allo psicologo americano, J.J. Gibson, che ha rivoluzionato la teoria della percezione mostrando, in maniera sperimentale, che non basta il funzionamento ottico della luce a spiegare quanto è percepito dall’occhio umano.

La nostra natura animale risponde ai significati e alle possibilità presenti nell’ambiente. Queste “affordances”, come le chiama Gibson, ineriscono al campo percettivo e sono offerte dal campo. Un colibrì, ad esempio, non vede semplicemente un ramoscello, un virgulto, un bocciolo, per poi richiamare alla mente ricordi accumulati della dolcezza di boccioli del tutto simili. Il colibrì, piuttosto, nel suo volo qua e là scorge possibilità di posarsi e riposarsi, di trovare cibo e dissetarsi. Il campo percettivo offre più che semplici oggetti quali ramoscelli e fiori. Offre al contrario possibilità vitali compatibili con il potenziale comportamentale del volatile.

Una palla da baseball che arriva veloce dalla mazza del battitore “dice” al compagno di squadra dove correre e precisamente quando saltare per afferrarla. La sua azione è consentita dall’informazione che proviene dal movimento della palla, ed il salto tempestivo dell’esterno non è semplicemente il risultato di un ricordo. Siamo adattati ai significati e alle intenzioni e le nostre facoltà percettive prendono spunto proprio da queste affordances.

Una revisione della teoria della percezione di Gibson è stata messa in atto dalla psicologia della Gestalt, elaborata quasi un centinaio di anni orsono da David Katz, Wolfang Kohler e Kurt Koffka, i quali, insieme ai propri studenti, dimostrarono come i paesaggi presentano precisi stati d’animo. Un cupo pendio coperto di abeti rossi e sovrastato da nubi invernali cariche di pioggia scatena emozioni che non sono una semplice proiezione della depressione soggettiva di chi guarda. L’emozione è nella Gestalt del campo percettivo, e queste forme sono descritte dalla psicologia della Gestalt come “caratteri fisiognomici”, caratteristiche leggibili nei visi delle persone. Innate nel paesaggio sono le emozioni che proviamo in presenza del paesaggio, e queste tonalità emotive e sensazioni non sono solo nella nostra mente, nel nostro cuore, nei nostri sensi. Ciascuna sensibilità soggettiva potrà interpretare il paesaggio in base alle proprie esperienze e ai propri desideri, tuttavia esiste anche una sorta di soggettività oggettiva offerta alla scena e ad essa intrinseca.

I pittori espressionisti tedeschi riconobbero, ma in senso rovesciato, il potere del campo percepito. Essi dipingevano tronchi rosa, cavalli blu, fili d’erba violetti e questo per liberarsi dal carattere fisiognomico dei paesaggi naturali reali. Il loro lavoro era un opus contra naturam, un atto di protesta, di liberazione sia dalla pittura di paesaggio realistica, che dal potere del paesaggio stesso che induce chi ne partecipa a un realismo naturalistico, all’imitazione dell’oggetto.

3. Il tono emotivo e la forza del carattere intrinseco del paesaggio era, naturalmente, apprezzato in sommo grado dai Greci, come mostrano le parole di Talete. Gli antichi Greci collocavano i propri templi su promontori sul mare, declivi in pianure fertili, alture isolate nella luce e nell’azzurro del cielo, o sull’orlo di profondi dirupi. Luoghi specifici evocavano divinità particolari, parlavano di esse e ne testimoniavano i favori. Vincent Scully, cui si deve il meticoloso e creativo lavoro di svelamento della natura sacra delle tonalità emotive dei paesaggi nel mondo greco, descrive, ad esempio, così le forme e i luoghi ove sorgono i templi dedicati a Poseidone: “Luoghi distesi pervasi dalla ritmicità del movimento rotatorio della terra, del rigonfiarsi del mare. Erano azioni, dunque, che richiedevano il consenso di quelle forze non umane, il cavallo ed il mare, dalle quali (questi siti) derivavano la propria splendida potenza1. L’analisi di Scully dei santuari di Afrodite indica «l’apparizione di forze irresistibili ed inattese, espressione di una natura ad un tempo aggressiva e trionfante»2.

«Forze irresistibili ed inattese» – sono quelle che determinano il fato di Edipo nella tragedia di Sofocle che ha gettato le basi per la teoria freudiana sulla natura umana. Il crocevia destinale dove Edipo incontra il padre, e dove nessuno dei due lascerà il passo all’altro, e dove infine il padre verrà trucidato ai piedi del monte Citerone. “Il mio monte”, chiamava Edipo il Citerone, e il coro lo definisce “la sua patria”, “sua nutrice e madre”. Le storie di questa montagna parlano della sua forza irresistibile: storie di fratelli che si uccidono l’un l’altro, di un figlio che scaglia il padre da una rupe, di un giovane ucciso da un serpente velenoso, di Tiresia che vi perde la vista, tutto per la forza dirompente di questo paesaggio. Ed inoltre ninfe che amano frequentare i crocevia dove fanno smarrire il senno agli umani3.

L’idea che il paesaggio possegga qualità psicologiche, che esso incarni tonalità dell’anima quali tristezza, espansività e terrore, contrasta in maniera radicale con la filosofia razionale occidentale che, a partire da Galileo e Newton, e attraverso Cartesio e Kant, continua fino ai nostri giorni nella scienza contemporanea della natura. Cartesio espresse in maniera chiara la sua idea che il mondo esterno sia pura materia, res extensa, dotata esclusivamente di qualità primarie quali movimento e dimensione. Tutto il resto, colore, gusto, suono sono secondari e presenti non tanto nelle cose quanto nella fisiologia dell’osservatore. La più esatta intellezione del mondo, secondo la cultura occidentale, è possibile non grazie alle nostre percezioni o alle descrizioni fenomeniche del mondo, quanto attraverso un’analisi riduzionistica di astrazioni matematiche.

Sin qui ho limitato la nostra discussione del paesaggio alla “natura” nella sua accezione più semplice di colline verdeggianti, marine e dirupi, o del volo di un colibrì tra i fiori. Tuttavia la pittura di paesaggio raffigura anche scene di strade affollate, luci, insegne, traffico, porti, chiatte e rimorchiatori, il fumo che esce dalle ciminiere, contadini e macchine agricole intenti al raccolto. Il paesaggio include il mondo popolato, il mondo delle industrie, il mondo degli edifici.

Il mondo costruito era presente anche nei paesaggisti convenzionali, che nel cuore di una scena collocavano rovine, una o due colonne, animali domestici, la scia lontana del fumo di un camino, come pure una chiusa, un carro o una semplice zattera. Solo una traccia, un semplice accenno all’interno di un paesaggio convenzionale, ma sufficiente a dichiarare che il mondo costruito è anch’esso parte integrante del paesaggio, essenziale alla sua stessa idea. La definizione di paesaggio non deve dunque essere limitata alla natura. L’idea deve essere estesa a qualsiasi luogo definito dell’anima del mondo che offra una prospettiva specifica della psiche incarnata.

In particolare il paesaggio costruito racchiude più che meri stati d’animo. Esso rende possibile la memoria.

Paul Auster, nel suo libro, L’invenzione della solitudine, racconta un episodio:

A. e il figlio camminavano lungo una strada. Per caso si imbatterono in un compagno d’asilo del ragazzino che con suo padre si trovava davanti ad una pizzeria. Il figlio del Sig. A. era contento di vedere l’amico, mentre l’altro ragazzo sembrava cercare di evitarlo. Di’ ciao, Kenny, lo esortava il padre ed il ragazzo riuscì a stento ad abbozzare un flebile saluto. Poi A. ed il figlio ripresero la propria strada. Tre o quattro mesi dopo, si trovarono a passare nuovamente nello stesso punto. A. improvvisamente sentì il figlio mormorare fra sé e sé con voce fievole: “Di’ ciao, Kenny, di’ ciao.”

Il fatto che il ragazzo recuperi un ricordo specifico in corrsispondenza di un luogo specifico induce Auster alla seguente conclusione: «Se in un qualche senso il mondo si imprime nella nostra mente, è altrettanto vero che le nostre esperienze si imprimono nel mondo. Per un breve istante, passando davanti alla pizzeria, il ragazzo ha rivisto, nel senso letterale del termine, il suo stesso passato. “Il passato”, per ripetere le parole di Proust, “celato in un qualche oggetto materiale”».

Ma il paesaggio veicola anche un altro tipo di memoria, che definiremo memoria morale, come raccontato da Keith Basso, nella sua ricerca sulla lingua apache sui toponimi dell’Arizona Occidentale. Il libro di Basso, Wisdom sits in places (La saggezza risiede nei luoghi), offre la traduzione in inglese di numerosi toponimi: “il Grande Salice solitario”, “Il candore che si espande discendendo verso le acque”, “La linea delle rocce blu di sotto” “I salici grigi che seguono la curva”. Le immagini del paesaggio conservano memorie che narrano storie. Sarà sufficiente un esempio a spiegare come un paesaggio possa offrire un insegnamento morale.

«Accadde sulla Linea lungo la quale le Rocce Bianche si estendono verso l’alto e verso l’esterno». Molto tempo fa una ragazza viveva con la nonna. La ragazza, fu mandata, come sempre, a raccogliere legna per il fuoco. Il suo sentiero attraversava un canyon in cui la ragazza avrebbe dovuto fare attenzione ai serpenti. La fanciulla, raccolta la legna, stava tornando a casa quando fu colta dal caldo e dalla sete, e incurante dei consigli, prese la via più breve attraverso il canyon. Scivolò, cadde ed un serpente le morse la mano. A quel punto si sovvenne delle parole della nonna. Una volta guarita, la ragazza tornò dalla nonna che nuovamente le parlò. La storia si conclude, così come la racconta Basso, con la frase: «Accadde sulla Linea lungo la quale le Rocce Bianche si estendono verso l’alto e verso l’esterno»4.

Il toponimo evoca la storia mentre il luogo incarna e ricorda gli eventi, proprio come avveniva con la pizzeria nella storia di Auster, ma in questo caso i luoghi manifestano anche un ordine morale. «I luoghi sembrano dire – scrive Basso – pensa in modo sensato e fai ciò che è giusto. Perché qui sta virtù, la virtù insita nei modelli stabiliti dell’ordine sociale, qui risiede la sopravvivenza»5. Un apache dice che la terra «insegna alla gente a vivere giustamente» grazie alla «significazione morale dei luoghi geografici»6. «Al di là della realtà visibile del luogo vi è una realtà morale»7. «Quando gli uomini e le donne Apache si accingono a bere dai luoghi – acquisendo una conoscenza profonda della natura che li circonda, la affidano a una memoria permanente e la applicano in maniera produttiva […] così mostrando […] che i loro luoghi vivono dentro di loro»8.

Le più preziose qualità della mente umana, il ragionamento intenso e senza fretta, il sapersi opporre alla paura e all’ansia, il sapere sopprimere emozioni frutto di ostilità ed orgoglio, si radicano nell’essere attraverso un’ampia riflessione sull’[…] ambiente fisico9.

La vita moderna attraversa rapida il paesaggio, lungo autostrade concepite per collegare partenze ed arrivi indifferenti a ciò che si trova in mezzo. Possiamo anche attraversare il paesaggio ad alta velocità. Tuttavia, se ciò che si trova in mezzo contiene memorie più profonde che possono offrire un insegnamento morale, allora la nostra indifferenza a quanto percepito attraverso i sensi è correlativa, e forse una causa della perdita, tipica del nostro tempo, di un orientamento morale. Forse, anche, quando la moralità si astrae dalla «riflessione estesa sull’ambiente fisico», ci rimangono come guida solo nobili precetti, ammonimenti e punizioni.

Adesso proviamo a spostare la nostra immaginazione dalle terre desertiche del Sud Est americano attraverso il Pacifico fino alla straordinaria raffinatezza di un giardino giapponese.

Questo giardino è anche un nudo terreno. Ciottoli grigi rastrellati e nove grossi sassi di fiume scoloriti attentamente selezionati, e posizionati in maniera precisa. Se la moralità del territorio apache è incorporata nei nomi e nelle storie della terra, il giardino zen di Kyoto insegna, in maniera alquanto diversa, una moralità di consapevolezza storica. Anche in questo caso la storia sembra scaturire dalle nove pietre di grandezza e posizione diversa. Secondo alcuni, esse raccontano di una famiglia di tigri che nuotano attraverso il mare; per altri invece significano vette di montagne che fanno capolino attraverso un manto di nubi indistinte; altri parlano di leggende storiche di monaci e vecchi saggi, o di parallelismi con poesie di grande semplicità nelle quali ogni sillaba come le nove rocce è collocata con grande cura, niente è superfluo, tutto è essenziale.

La storia raccontata nel giardino di roccia, tuttavia, è storia di non-storia. Non una lezione morale. È consapevolezza cosciente di sè. Con questo intendo la moralità di riconoscere la capacità della mente di dare vita ad una storia per trovare nel paesaggio narrazioni significative riconoscendo che gli insegnamenti emozionali sono in effetti immagini, configurazioni dell’“esemplastica” (per dirla con Coleridge) o un’immaginazione creativa dell’anima del mondo. È questa capacità di percepire il mondo come immagine ancora prima che come tonalità dell’animo, memoria e lezione morale che deletteralizzano la mente dello spettatore rispetto a una positiva fissazione su un significato univoco. La morale ultima, in questo caso, è una morale di libertà dalle certezze circa ciò che si percepisce, senza pregiudizi e totalmente presenti a ciò che è lì, in quanto tale, e solo nella forma in cui è, completo nella bellezza non mediata dell’irraggiarsi di un fenomeno, come standosene sdraiati per terra sotto i grappoli d’uva.

4. Al di là dello stato d’animo, della memoria e della moralità, al di là delle affordances offerte dal campo percettivo, esiste anche il piacere. Puro piacere, che è una delle ragioni per cui l’uomo ammira i dipinti di paesaggio e una delle ragioni degli sforzi compiuti dai pittori paesaggisti. Architetti, giardinieri e conservatori del paesaggio potrebbero essere motivati in alcuni recessi dei loro fondamenti archetipici, dalla chiamata dell’Eden e dei campi elisi come un paradiso idealizzato; ma probabilmente la loro fonte immaginale è il jardin des delices, il giardino delle delizie che gode del dono terrestre della percezione, che in greco è espresso dal termine aisthesis.

Il piacere estetico per il mondo naturale è stato sussunto sotto il termine “biofilia”, coniato nel 1984 dal grande biologo Edward O. Wilson nel libro dallo stesso titolo. L’ipotesi della biofilia proclama un’affinità umana con tutte le forme della natura che si estende ben oltre il valore strumentale del sostentamento materiale. Il mondo non solo è utile, è bello, e bello non semplicemente perché utile. Wilson sostiene che un paesaggio naturale corrisponde al profondo desiderio umano di estetica, di significato e soddisfazione intellettuale e spirituale. La biofilia asserisce la necessità di una relazione essenziale fra le creature viventi ed i luoghi della natura.

Come biologo, Wilson preferisce i paesaggi naturali a quelli artificiali. Un altro sostenitore della biofilia, Roger Ulrich, studiando le risposte estetiche ai paesaggi naturali, afferma che

uno dei risultati più netti è la consistente tendenza a preferire vedute naturali rispetto a paesaggi costruiti, in particolare quando questi ultimi siano privi di spazi verdi o di giochi d’acqua […] anche vedute non particolarmente suggestive o pseudonaturali suscitano una maggiore preferenza estetica rispetto a qualsiasi altra veduta urbana, fatta eccezione per una ridottissima percentuale.

Ulrich afferma inoltre che le preferenze estetiche per la natura potrebbero essere espresse in maniera universale in ogni cultura umana, e che «le preferenze estetiche potrebbero non variare in maniera sostanziale in funzione della cultura»10.

L’opposizione tra il naturale e il costruito è uno dei fondamenti dell’ipotesi della biofilia ma anche il suo limite, in quanto ripropone la classica dicotomia tra crudo e cotto, istinto e cultura, ciò che è dato e ciò che è fatto. Architetti paesaggisti, comuni giardinieri e anche pittori di paesaggio ignorano tranquillamente e trascendono la separazione purista tra questi due ambiti arbitrari. Nel momento in cui il loro fine è quello di raggiungere il piacere estetico, le due componenti dell’opposizione si potenziano, come nella collocazione del tempio greco, di un tabernacolo scintoista o di un paravento con una raffigurazione cinese. La felice combinazione tra ciò che è dato e ciò che è fatto non dipende dalla mera somiglianza tra essi, quanto dalla visione di cui entrambi sono al servizio: l’intensificazione del mondo dato tramite quello costruito, entrambi espressione della singolarità del genius loci.

La contrapposizione tra naturale e costruito ha inoltre il difetto di trascurare il piacere estetico della superba architettura e l’importanza intellettuale ed estetica dell’atto in sé del fare e del costruire, quell’impulso umano a costruire civiltà. Ma perseguire questa dicotomia, infelice e inutile, tra il naturale e il costruito non è in questo momento al centro del nostro discorso, e del resto me ne sono occupato già in varie occasioni.

Qui vorrei invece discutere di come il paesaggio naturale sia in grado di dare piacere estetico. I biologi riduzionisti collegano il piacere all’evoluzione. Sostengono che alcuni ambienti soddisfino una necessità genetica: i paesaggi che trasmettono un senso di evidente fertilità (distese d’acqua o praterie sconfinate) e di sicurezza (viste aperte o rifugi protetti) “ridestano” i primordiali bisogni umani di un territorio che promuova e favorisca la sopravvivenza. Ecco dunque che un paesaggio ricco di acque o una china che degrada dolcemente saranno preferiti rispetto ad un paesaggio vulcanico o di tundra.

Sebbene la base genetica del piacere estetico sia un concetto discutibile, il piacere estetico in sé è certamente indubbio. Se questo fenomeno di fondo dell’esistenza umana non è semplicemente un residuo evolutivo che ci riporta indietro a ominidi affamati e in pericolo, allora verso cos’altro fa segno il piacere estetico contemporaneo per il paesaggio? Che cosa dà felicità in un albero di Corot, in un giardino di Bonnard, in una forra di Turner, in una marina di Homer, o in un’alba invernale che gradualmente tinge di rosa ed arancio i campi gelati mentre guidando andiamo a lavoro, che cosa indica questa felicità? Perfino il paesaggio sublime di una cascata fragorosa, di un temporale estivo, di una scogliera strapiombante in un mare freddo portano a un gioioso rapimento. Perché? Oserei dire che tali momenti, siano essi dipinti, o visti attraverso il finestrino della macchina, smuovono, o perfino distolgono l’anima dalla remissività all’abitudine e al dovere, urbano o rurale che sia. E ci troveremo a scorgere sui nostri volti un sorriso. A lasciarci sfuggire un “oh”; a rimanere immobili: la famosa “paralisi” di fronte alla bellezza. Ecco allora che in questi momenti sembra che l’anima si trovi giudiziosa, esattamente disposta, nel giusto ordine e che lo spirito si elevi in una dolorosa dolcezza. Ci si sente a casa nel mondo, come in un’immersione, perduti e ritrovati, più vivi e meno soli.

Questo momento estetico si accorda alla radice del significato di “estetica”: aisthesis (percezione) ci riporta ad aisthou, inspiro, rimango senza fiato. Respiriamo il paesaggio, lo inaliamo, lo inspiriamo, sfidando all’improvviso la coscienza con l’immediata conoscenza del mondo. «La conoscenza si realizza – scrisse Tommaso d’Aquino – nel momento in cui l’oggetto conosciuto è dentro colui che conosce» (Sum. Th. I.Q, 59, A.2).

Conoscenza del mondo, o forse avrei dovuto dire meglio conoscenza del cosmo. Poiché il piacere, come pure il trasalimento e il timore di fronte ad un luogo sublime, sono le risposte primarie alla manifestazione del cosmo. “Cosmo”, tengo a precisare, è un termine estetico, con un significato diverso da quello impropriamente adottato per descrivere la sacca gassosa di immensità nella quale i cosmonauti lanciano le proprie navicelle spaziali. L’uso greco del termine kosmos sposava connotazioni di carattere etico ed estetico: decenza, convenienza, regolatezza, decorosità, equilibrio, appropriatezza. Kosmos era riferito agli ornamenti femminili; il cielo notturno mostrava un cosmo punteggiato di corpi lucenti; il kosmos stoico si riferiva all’anima mundi, l’anima del mondo. Il termine “cosmetica“ è più fedele al senso originale del termine di quanto non lo siano le vuote astrazioni della cosmologia moderna.

Il piacere estetico per il paesaggio è dunque un evento cosmico, in quanto comunica il riconoscimento cosmologico in cui il paesaggio offre alla prospettiva dello spettatore un momento definito del cosmo a cui lo spettatore è soggetto e del quale è parte. Un semplice paesaggio, ridestando il nostro riconoscimento partecipativo ed affettivo, la biofilia profonda, ci ricorda che noi umani siamo sulla terra non solo come homo erectus, homo sapiens, homo faber, ma innanzitutto come homo aestheticus, e che la nostra prima chiamata è in qualità di estimatori, che hanno cognizione di ciò che è. Alla base del sorriso (e Afrodite non era forse definita “la sorridente”?), come pure del rimanere senza fiato c’è il cosmo svelato come bellezza che chiama l’animo umano a ridestarsi. «L’anima – diceva Plotino – è sempre un’Afrodite.»

Sono risalito fino a Talete ed Edipo, Dioniso, Poseidone e Afrodite, all’ubicazione fisica dei templi mediterranei, e anche all’Arizona e a Kyoto. Ho evocato un modo di vivere prima che la mente moderna separasse la soggettività dell’oggetto, il senso di una natura vivente, per fondere psicologia profonda e geografia profonda. La forma della terra, il paesaggio, è stato mio soggetto e la sua soggettività il mio obiettivo. Se l’anima è la forma del corpo, come affermava la psicologia greca, allora la forma della terra mostra la sua anima, come suggerito dalla psicologia della Gestalt.

Forse mi sono concentrato troppo sulla mia disciplina: psicologia e psicoanalisi. Questo perché, fin dalle origini, questa disciplina è stata schiacciata dalla storia, la storia dell’individuo a partire dalla sua infanzia, la storia del caso, della cultura, della psicoanalisi stessa. Non solo Freud e Jung, ma anche gli psicologi sociali e biogenetici hanno conferito preponderanza alle determinanti storiche: la storia della civiltà e la storia della specie sono inscritte nel nostro codice genetico.

Oggi, tuttavia, abbiamo lasciato la storia per entrare nella geografia, avventurandoci nel paesaggio in cui siamo. In questo paesaggio, in ogni paesaggio, ci sono anche una psiche, un’anima, le nostre anime, che annunciano la terra come un territorio psichico che chiede riconoscimento. E più che la terra. Anche qualcosa al di là del pianeta come tale. E se persino immagini di disordine ci attraggono, di cosa si tratta? Quale corda della nostra anima viene fatta vibrare dalla vista di masse disordinate di vegetazione sul ciglio della strada, mucchi di neve sporca a fine marzo, una spiaggia spoglia dopo la marea, cosparsa di rifiuti e di oggetti lasciati dal mare? Luoghi geografici come questi li troviamo nelle poesie, nei dipinti, nella ricerca sull’ecosistema. Anch’essi motivano un’attenzione assidua.

Sono forse appelli a ripristinare l’ordine cosmico? Oppure l’attenzione è piuttosto una reminiscenza di un altrove, di un’altra bellezza, un’immaginazione chiamata dalla geografia di questa terra, un’epistrophé che ci riporta alle dettagliate geografie immaginali degli sciamani e dei mistici nei loro viaggi in latitudini altre. La loro retorica e la loro visione ridesta la forza radiosa di questo pianeta perfino nel suo disordine. E dunque gli sforzi di giardinieri e pittori e di tutti i cultori di paesaggio rappresentano tentativi di raggiungere una condizione dell’anima fuori dal tempo e dalla storia, fuori dallo spazio fisico, una condizione dell’anima che l’immaginazione forse un tempo ha conosciuto, e può sempre conoscere, quel cosmo immaginale innato la cui verità è la bellezza del fiorire e del tramontare.

È come se un fenomeno geografico assumesse valore cosmico. Il suo volto chiede di essere visto, e viene offeso se ignorato. Il nostro personale disordine psicologico, la nostra deriva morale e le catastrofi ambientali nascono tutte dalla stessa offesa cosmica: il timore del volto della bellezza. Se un paesaggio in ultima analisi offre un’epifania di appartenenza cosmica, una terapia dell’anima che la riporta sulla via e in armonia con l’ordine delle cose, allora forse potremo capire perché agognamo tanto alla “natura” e alla sua bellezza, e al tempo stesso temiamo tanto la natura quanto la bellezza. Un paesaggio, comunque si presenti, dipinto, fotografato, osservato da lontano, nel quale si cammina o si lavora, evoca la risposta estetica che riallinea l’anima al mondo, rammemorandoci, come diceva Rilke, di “cambiare la nostra vita”. Non possiamo continuare a ignorare la verità della bellezza svelata dalle nostre risposte estetiche, non possiamo continuare a rimanere anestetizzati. Colpito dal paesaggio, ora sono ferito ed aperto alla biofilia, alla verità del modo in cui le cose sono ed io no. Il suo ordine manifesta il mio disordine. Oppure, come diceva un Apache, se non viviamo in un paesaggio, non possiamo sapere dove siamo; siamo fuori dal cosmo, completamente fuori posto, soli, in nessun luogo e dunque non siamo nessuno.

Note

1. V. Scully, The Earth, the Temple and the Gods: Greek Sacred Architecture, Fred. Praeger, New York 1969, p. 156.

2. Ivi, p. 94.

3. Cfr. il mio Oedipus revisited, in Mithical Figures: Uniform Edition, Spring Publications, Putnam 2006, cap. 4.

4. K.H. Basso, Sits in Places: Landscape and Language among the Western Apache, University of New Mexico Press, Albuquerque 1996, p. 94.

5. Ivi, p. 28.

6. Ivi, p. 61.

7. Ivi, p. 146.

8. Ibidem.

9. Ibidem.

10. R.S. Ulrich, Biophilia, Biophobia and Natural Landscapes, in A.R. Kellert e E.O. Wilson, The Biophilia Hypotesis, Island Press, Washington 1993, p. 49.

Tratto da: James Hillman, Il paesaggio: Una ricerca psicologicaedito da Cardano Libreria

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