In un volume di filosofia che nientemeno rende chiare le cose oscure e difficili – Il Romanticismo, di Rüdiger Safranski (Longanesi, 2011) – ho trovato il più dritto, il più bello degli elogi possibili dell’ebraismo. Safranski lo cita, nel capitolo 17, dalle Confidenze di Hitler di Hermann Rauschning (edizione italiana Erredici, Padova, 1974) e il pensiero di gloria è dello stesso Führer, inviato dell’Angelo Sterminatore per distruggere, di ebraismo e di ebrei, ogni traccia. «Noi poniamo fine al battere di una strada sbagliata da parte dell’umanità. Le tavole del Sinai hanno perduto valore. La coscienza è un’invenzione ebraica». (La sottolineatura è mia).
Ecco. Emozionante. Vero da brivido. Di lì, da questa porta stretta vasodilatatrice, passa l’intero thesaurus etico dell’umanità (il cui supremo rischio è di battere, a testa bassa, proprio la via indicata come la giusta da Hitler); lì giace il legato dei legati delle Scritture veterotestamentarie, il messaggio povero, disperato, unico, mai smentito, di Israele. Un lumino è tuttora acceso nell’introvabile – archeologicamente, non simbolicamente – Sinai mosaico, come quello della stazioncina della Jungfrau che brilla nel nero pauroso della Nord dell’Eiger. Il lumino del dubbio, dell’incredulità motivata, del contrasto incessante con la divinità, che è il proprio di Israele. Il contrario assoluto dell’Islam, che è l’inesorabilità d’abisso della Sottomissione.
Ricordo il titolo di una raccolta di saggi di uno degli uomini più immacolati che abbia avuto l’Italia postfascista, Nicola Chiaromonte: Il verme della coscienza. La coscienza è un verme che impedisce di prevalere alla verminosità del mondo. La coscienza, invenzione ebraica, che tale rimane; e benedetto chi, nato o no ebreo, ne venga, in questa verminaia incurabile, in qualsiasi luogo o non-luogo, contagiato – fino alla morte, e anche a rischio di morte.
Va tenuta d’occhio la via dell’ebreo tormentato newyorkese Hertz Grein, tormento del suo stesso creatore, Isaac Singer, in Ombre sull’Hudson, ultimo suo, tra i più dolenti, romanzo. Nell’epilogo Grein scrive ad un amico suo in America da Israele, che giudica un bagno di idolatria, mentre il secolo XX sta terminando. Questo epilogo è quasi un trattato, un po’ come la confessione di Stavrogin. Ne stralcio poche righe: «Sono rimasto, al novantanove per cento, una belva, un uomo del bassofondo. Ma la belva l’ho legata coi fili di cuoio dei miei filatteri e i fili delle mie frange rituali. Neppure una tigre, quando è legata e impastoiata, può mordere. Ecco l’ebraismo».
Una aliàh verso una sponda individuale etica pura: questo vale un coro di pellegrini dei salmi graduali; il Messia d’Israele si può dirlo a sufficienza venuto.
Tratta da: Guido Ceronetti, Tragico tascabile
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