I.
Con la fronte corrugata e la bocca socchiusa, Ogata Shingo sembrava rincorrere qualche pensiero. O forse agli altri non dava l’impressione di uno che pensasse. Aveva un’aria quasi triste.
Suo figlio Shūichi se n’era accorto, ma essendo abituato a vederlo in quel modo non se ne preoccupò. Capiva non soltanto che suo padre pensava a qualcosa, ma che stava cercando di ricordarsi qualcosa.
Shingo s’era tolto il cappello e, tenendolo tra le dita della mano destra, lo pose sul ginocchio. Senza dir nulla, Shūichi prese il cappello e lo mise sulla rete portabagagli del treno.
“Oh, senti, ti ricordi…” In quei momenti, Shingo aveva persino difficoltà a formare le parole. “Come si chiamava la cameriera andata via qualche giorno fa?”
“Parli di Kayo?”
“Ecco, Kayo, sì. Quando se n’è andata?”
“Era giovedì scorso, quindi cinque giorni fa.”
“Cinque giorni fa? Non mi ricordo né la sua faccia né come si vestiva. Eppure è andata via appena cinque giorni fa. Ma che strano.”
Mio padre esagera un po’, si disse Shūichi.
“Credo che sia stato due o tre giorni prima che Kayo se ne andasse. Io stavo uscendo per fare quattro passi. Mentre calzavo i geta dissi: forse ho il piede d’atleta. E Kayo mi rispose che si trattava solo di un ozure, intendendo una piaga provocata dai cordoni dei geta. Ma io, nel sentirle dire ozure, provai una profonda ammirazione per la sua espressione raffinata. Che bel modo di esprimersi, mi dissi. Avevo preso quella ‘o’ per una ‘o’ onorifica. Pensavo che fosse una sua scelta deliberata. Invece, era la ‘o’ dei cordoni dei geta. Insomma, si era trattato semplicemente di un errore di pronuncia. Non c’era proprio niente da ammirare. Ero stato tratto in inganno dall’accento di Kayo. Me ne accorgo solo adesso.” Finendo di spiegare, Shingo chiese al figlio: “Prova a dire ozure con la ‘o’ onorifica.”1
“O-zure.”
“Prova a dire l’altro.”
“Ozure.”2
“Giusto. Avevo ragione io, allora. Era sbagliata la pronuncia di Kayo.”
Essendo di origini provinciali, Shingo non si fidava del proprio accento. Shūichi, invece, era cresciuto a Tōkyō.
“Ho pensato che dicesse ozure con l’onorifico e perciò sono rimasto colpito dall’eleganza del suo modo di parlare. Mi aveva accompagnato in anticamera e l’ha detto lì. Sono deluso, ora che mi sono accorto dell’errore. E poi non riuscivo a ricordarmi il nome della ragazza. Non mi torna in mente nemmeno come si vestisse e che faccia avesse. Kayo sarà rimasta con noi quasi per sei mesi, vero?”
“Sì.”
Shūichi, abituato a quei discorsi del padre, non mostrava nessuna simpatia.
Neppure per Shingo era una novità, ma il fatto non diminuiva il suo senso di sgomento. Ogni sforzo di ricordarsi di Kayo era vano. Qualche volta riusciva ad attenuare quel senso di esasperazione con un po’ di sentimentalismo.
Così, in quel momento, Shingo cercava di ricordarsi le mani di Kayo appoggiate sul pavimento dell’anticamera. Gli pareva di ricordare la figura di Kayo che, le mani appoggiate sul pavimento e il torso chino in avanti, diceva: “Si tratta solo di un ozure.”
Dopo sei mesi di servizio in casa sua, la cameriera di nome Kayo gli sarebbe rimasta in mente solo per quella frase pronunciata in anticamera? Il pensiero parve portare a Shingo la sensazione concreta della vita che gli sfuggiva tra le mani.
II.
Yasuko, la moglie di Shingo, era di un anno maggiore di lui: aveva sessantatré anni.
Avevano due figli, un maschio e una femmina. Fusako, la maggiore, era madre di due bambine.
Yasuko aveva un aspetto relativamente giovane per la sua età, e non sembrava affatto più vecchia del marito. Non che Shingo avesse un aspetto particolarmente senile. Soltanto, tutti si aspettavano che, secondo le usanze, la moglie fosse più giovane. Nel suo caso, comunque, la si poteva considerare più giovane di Shingo senza sforzo alcuno. Forse perché, nonostante fosse piuttosto minuta, aveva una salute di ferro.
Yasuko non era molto bella e, quando erano ancora giovani, ci si accorgeva facilmente che era più anziana di lui. Per questo Yasuko aveva odiato uscire in compagnia del marito.
A un certo punto acquistarono l’aspetto normale dei coniugi, marito più anziano della moglie. Ma Shingo non riusciva a rammentarsi precisamente da quando. Era molto probabile che fosse stato dopo i cinquantacinque anni. In genere, sono le donne che invecchiano prima; nel caso loro, invece, era stato il contrario.
L’anno precedente, quando aveva festeggiato i sessantun anni, Shingo aveva vomitato un po’ di sangue. Pareva che fosse dai polmoni, ma non si sottopose a una visita minuziosa e pur senza nessuna cura particolare non ebbe altri disturbi.
Non era necessariamente un segno di invecchiamento. Anzi, la pelle era diventata più liscia e più lucida di prima. Rimasto a letto per una quindicina di giorni, gli era tornata, così gli pareva, la luce negli occhi e il colore alle labbra, come da giovane.
Shingo non aveva mai avuto sintomi di tisi nel passato. Emottisi per la prima volta a sessant’anni! Il pensiero gli aveva messo una grande tristezza. Anche per questo aveva evitato le visite mediche. Shūichi attribuì l’ostinazione del padre alla vecchiaia, ma Shingo sapeva che non era soltanto quello.
Grazie probabilmente alla sua buona salute, Yasuko aveva il sonno facile. A volte Shingo attribuiva i propri risvegli notturni al russare della moglie. Yasuko aveva preso a russare fin da quando aveva quindici o sedici anni e i suoi genitori avevano tentato di tutto per farla smettere, invano. Col matrimonio il brutto difetto le andò via, ma dopo i cinquant’anni ricomparve.
Ogni volta, Shingo le pizzicava il naso con due dita. Se non otteneva nessun risultato, la stringeva alla gola e la scuoteva. Ciò succedeva solo quando Shingo era di buon umore. Quando invece era di cattivo umore, sentiva la miseria del vecchio corpo al quale si era accompagnato per tanti anni della vita.
Era di cattivo umore, quella notte. Accesa la luce, Shingo si mise a osservare di traverso il volto della moglie. L’aveva già scossa stringendola alla gola. Era leggermente sudata.
Tocco il corpo di mia moglie con le mani solo per farla smettere di russare, disse tra sé Shingo, e fu invaso da un senso di profonda pietà sentendosi come svuotato.
Aveva preso in mano una rivista che si trovava vicino al guanciale. Invece di aprirla, però, si alzò e aprì un’imposta. La notte era afosa. Si accovacciò sulla veranda.
Era una notte di luna chiara.
Fuori della finestra penzolava un vestito di Kikuko. Era di un colore biancastro, un brutto colore senza luminosità. Hanno dimenticato di tirar dentro il bucato? si chiese Shingo. Probabilmente l’avevano lasciato apposta sotto la rugiada per togliere le macchie di sudore.
Dal giardino arrivarono gridi soffocati, ma striduli e crudeli. Era una cicala sul tronco del ciliegio a sinistra. Si meravigliò che una cicala fosse capace di gridare in modo tanto mostruoso. Eppure sì, era una cicala.
Anche una cicala poteva avere degli incubi?
Una cicala venne a infilarsi tra le aperture della finestra e si fermò sull’orlo della zanzariera.
Shingo la prese in mano, ma l’insetto non fece nessun rumore. “È muta,” mormorò Shingo. “Non è quella che ha strillato poco fa con voce crudele.”
Perché non sbagliasse di nuovo direzione, prendendo la luce elettrica chissà per che cosa, Shingo lanciò la cicala con tutta forza mirando la cima del ciliegio a sinistra. La cicala si liberò senza nessuna resistenza.
Appoggiato alla grande finestra, Shingo guardava verso il ciliegio ma non capì se la cicala si fosse fermata sul tronco dell’albero. La notte di luna dava una sensazione di profondità che si estendeva in lontananza, in senso orizzontale.
Non era ancora il cielo di agosto, ma gli insetti cantava-no già.
Si udiva il suono della rugiada che, goccia a goccia, cadeva da una foglia sull’altra.
Poi, all’improvviso, Shingo udì il suono della montagna.
Non tirava vento. La luna era chiara, quasi piena, e l’aria della notte umida. I contorni degli alberi che ornavano la collina erano vaghi. Tuttavia erano fermi.
Anche le foglie delle felci sotto la veranda dove si trovava Shingo erano ferme.
La casa si trovava in fondo a un pezzo di terra stretto che a Kamakura chiamavano comunemente yato, la valle. Certe notti si udiva il rumore delle onde. All’inizio, perciò, Shingo aveva pensato che si trattasse del suono del mare. Era chiaramente il suono della montagna, invece.
Somigliava al rumore del vento lontano, ma aveva una forza profonda come di rimbombi della terra. Pareva quasi che gli risuonasse qualcosa in testa. Per un attimo Shingo pensò fosse il suo orecchio che ronzava e, per accertarsene, scosse la testa.
Il suono cessò.
Dopo che il suono fu cessato, per la prima volta Shingo ebbe paura. Rabbrividì pensando che forse era il preannuncio della morte.
Era il vento, il mare o un ronzio dell’orecchio? Shingo pensava di aver riflettuto con calma, ma adesso non era sicuro di aver sentito il suono. Tuttavia non era possibile cancellare il ricordo del suono della montagna.
Pareva che fosse passato un demonio facendo risuonare la montagna con le sue mani.
Per via della notte luminosa e piena di umidità, l’erta scoscesa del lato anteriore della montagna pareva ergersi come un muro scuro. Non era nemmeno una montagna, era una collina che rientrava intera nel giardino di Shingo. Più che un muro sembrava un uovo dimezzato per il lungo.
C’erano altre colline ai lati e dietro quella, ma il suono pareva essere arrivato dalla montagna alle spalle della casa di Shingo.
Attraverso i rami degli alberi in cima alla montagna, traspariva e luccicava qualche stella. Chiudendo l’imposta, Shingo si ricordò di una cosa singolare.
Una decina di giorni prima, aspettava un ospite in una casa del tè appena costruita. L’ospite non era ancora arrivato e c’era soltanto una geisha. Le altre erano in ritardo.
“Levati la cravatta, a vederla sento caldo perfino io,” disse la geisha.
“Uhm.” Shingo lasciò che la geisha gli snodasse la cravatta.
Non la conosceva bene, ma dopo che ebbe messo la cravatta nel taschino della giacca di Shingo, posta accanto al tokonoma, la geisha cominciò a raccontargli la storia della sua vita.
Un paio di mesi prima aveva deciso di morire insieme al falegname che aveva costruito la casa del tè. Ma quando stava per inghiottire la porzione di cianuro, era stata assalita dal dubbio se la dose sarebbe stata sufficiente a ucciderla.
“Lui mi disse che era una dose esatta. ‘Non vedi che sono due bustine?’ mi disse, ‘sono preparate apposta.’” Ma la geisha non riusciva a fidarsi delle sue parole. Più ci pensava, più i dubbi aumentavano.
“Chi lo ha preparato? Può darsi che l’abbiano preparato apposta solo per punirci, per farci soffrire tutti e due. Gli chiesi in quale farmacia aveva preso la medicina, e lui mi rispose che non poteva dirmelo. Ma non era strano che non volesse dirmelo, dal momento che stavamo per morire? Come avremmo potuto svelare il segreto se saremmo morti tutti e due?”
Stai lavorando di fantasia? voleva chiedere Shingo, ma si trattenne.
La geisha si era ostinata: l’avrebbero fatto solo dopo aver chiesto a qualcuno di misurare la dose. “Ce l’ho ancora tutto qui,” disse.
Il racconto non lo aveva convinto. Gli era rimasta nell’orecchio la parola falegname, il falegname che aveva costruito la casa del tè.
La geisha tirò fuori una bustina, e gliene mostrò il contenuto.
Shingo lo guardò ma non fece commenti. Non aveva capito nemmeno se si trattava realmente di cianuro.
Si era ricordato della geisha mentre chiudeva l’imposta.
S’infilò nel letto, ma non era possibile svegliare la moglie di sessantatré anni per raccontarle la paura che aveva avuto udendo il suono della montagna.
III.
Shūichi lavorava nella stessa ditta del padre: gli capitava di essere utile a Shingo fungendogli da registro per le cose che il padre non riusciva a tenere a mente.
Anche Yasuko e la nuora Kikuko, moglie di Shūichi, s’incaricavano di ricordare le cose a Shingo. Insomma erano in tre nella famiglia a rimediare alla sua smemoratezza.
E in più una segretaria cercava di ricordargli gli appuntamenti e altre cose.
Shūichi entrò nell’ufficio di Shingo e, tirato fuori un libro dallo scaffaletto nell’angolo, cominciò a sfogliarne le pagine. A un certo punto, disse: “Oh, oh, oh,” e si portò davanti alla scrivania dell’impiegata alla quale mostrò una pagina aperta.
“Cosa c’è?” domandò Shingo sorridendo.
Shūichi fece un giro e arrivò dal padre tenendo in mano il libro aperto.
Sulla pagina si leggeva: “Non che qui sia andato perduto il concetto della fedeltà tra uomo e donna. L’uomo, non sopportando più l’idea di perseverare nell’amore di una sola donna, e la donna, non sopportando l’idea di amare soltanto un uomo, cercano entrambi i mezzi per trovare altri uomini e donne che non sono i loro compagni al fine di potersi amare a vicenda più a lungo. Tutto serve per consolidare il loro affetto…”
“Di che paese si parla?” chiese Shingo.
“Parigi. È il diario del viaggio in Europa di un romanziere.”
La mente di Shingo era ormai troppo debole per cogliere al volo aforismi e paradossi. Forse però quello non era un aforisma o un paradosso, ma un’osservazione acuta e penetrante.
Non doveva essere stata però quella citazione a suscitare tanto interesse in Shūichi. Probabilmente era un pretesto per fissare un appuntamento con l’impiegata fuori dell’ufficio dopo il lavoro. Shingo era sicuro di aver indovinato il motivo della visita di Shūichi.
Scendendo dal treno alla stazione di Kamakura, Shingo si pentì di non aver chiesto al figlio a che ora sarebbe rientrato. Così sarebbe potuto tornare a casa insieme a lui, o più tardi.
L’autobus era affollato di gente che tornava da Tōkyō e Shingo si incamminò a piedi.
Si fermò davanti al negozio del pescivendolo e sbirciò dentro. Il padrone lo salutò, e così Shingo entrò e si avvicinò al banco. L’acqua del mastello nel quale tenevano le aragoste era torbida e biancastra. Shingo le toccò con la punta delle dita: dovevano essere vive anche se erano immobili. Vide sul banco una grande quantità di frutti di mare, sazae, e pensò di acquistarne.
“Quanti ne vuole?” Alla domanda del padrone, Shingo non seppe rispondere all’istante.
“Be’, tre forse. Ne scelga tre grossi.”
“Li preparo io, vero? Bene.”
Il padrone e suo figlio infilarono la punta dei coltelli nelle conchiglie per estrarre i molluschi. Lo scricchiolio della lama contro la conchiglia diede fastidio a Shingo.
Dopo aver sciacquato i molluschi con l’acqua del rubinetto, i due li spezzettarono con mano veloce. In quell’istante, due ragazze si fermarono davanti al banco.
“Cosa volete?” domandò il padrone sempre tagliando la carne dei frutti di mare.
“Mi dia dell’aji,” disse una di loro.
“Quanti?”
“Uno.”
“Uno?”
“Sì.”
“Uno solo?”
L’aji era piuttosto grande, e la ragazza non sembrò affatto imbarazzata per i modi poco civili del padrone.
L’uomo tolse un pesce dal banco servendosi d’un pezzo di carta e lo diede in mano alla ragazza.
L’altra ragazza, che stava quasi appiccicata alla prima, le diede una gomitata e disse: “Ti ho detto che non abbiamo bisogno di pesci.”
La ragazza davanti, con l’aji in mano, guardava le aragoste, e disse come tra sé: “Chissà se ci saranno anche sabato. Piacciono al mio uomo.”
La ragazza alle sue spalle non rispose nulla.
Sorpreso, Shingo sbirciò di traverso le due giovani.
Erano prostitute, ma Shingo non se n’era accorto subito, tanto erano diverse da quelle di una volta. Avevano la schiena completamente nuda e portavano dei sandali di stoffa. Erano di corporatura robusta, sana.
Il padrone della pescheria aveva raccolto la carne spezzettata dei molluschi al centro del tagliere e, dividendola in tre conchiglie a forma di spirale, disse con tono sprezzante: “Quelle dame sono aumentate perfino a Kamakura.”
Il tono del pescivendolo sorprese Shingo che si oppose in fretta dicendo: “Cosa ci vuol fare? Sono brave ragazze, mi sembra.”
Il padrone divise la carne in tre conchiglie con gesti sbrigativi.
La carne dei tre molluschi si sarà mescolata, pensò Shingo, e la carne di ogni mollusco non tornerà più nella propria conchiglia. Fu un’osservazione curiosamente minuziosa per Shingo.
Era giovedì, quindi mancavano due giorni a sabato. Ma in questo periodo vedo spesso le aragoste in quel negozio, rifletté Shingo. Come cucinerà le aragoste quella ragazza selvatica per farle mangiare a un amante occidentale? L’aragosta può essere bollita, arrostita o cotta al vapore, ma rimane comunque un piatto semplice e primitivo.
Shingo ebbe un moto di simpatia verso le ragazze, ma subito dopo fu afflitto da una specie di immotivata tristezza.
Erano quattro in famiglia, eppure aveva comperato tre molluschi. Sapeva che Shūichi non tornava a cena, ma non capiva se ne aveva comperati tre per non ferire i sentimenti della giovane nuora. Alla domanda del pescivendolo aveva automaticamente omesso di contare Shūichi, senza avere il tempo di rifletterci bene.
In un negozio di verdura Shingo acquistò qualche noce di ginkgo.
Tratto da: Yasunari Kawabata, Il suono della montagna, Bompiani