Il momento privato e quello pubblico non sono adiacenti tra loro come una camera da letto e un ambulatorio medico, ma sono intessuti l’uno nell’altro. Dove il fatto piú privato ha luogo pubblicamente, anche le cose pubbliche sono decise privatamente, e comportano cosí una responsabilità fisica, politica, che è qualcosa di completamente diverso da quella metaforica e morale. La persona privata si assume la responsabilità degli atti pubblici, perché è sempre sul posto.
Walter Benjamin
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Spesso conoscendo una nuova città, circolando a piedi per le sue strade, prendendo gli autobus fino al capolinea, mescolandomi ai compratori di noodles, facendo la coda per un parota ad Allahbad in India o per un nasi goreng a Penang in Malesia, infilandomi in mercati e in templi ho pensato: «Io qui ci abiterei!» Un’idea balzana che non so se viene dal fatto di essere antropologo o dal verso contrario, dalla voglia intima di scoprire cosa si prova a «essere di un posto» che mi ha condotto all’antropologia. Fatto sta che per me questa è stata una sorpresa. L’ho scoperto la prima volta a Tashkent in Uzbekistan, posto in cui ero arrivato per caso, e lo scopro il piú delle volte mio malgrado. Sono città di cui avevo sentito parlare male o città di cui ignoravo l’esistenza o città che non prevedevo potessero avvolgermi a tal punto. Di esse però non avevo un’immagine preconcetta, ma una rivelazione improvvisa che mi invitava a mettermi nei panni di chi ci viveva. E a volte questo primo impulso mi spingeva a fare l’esperimento, a starci, in quella città, fin quando non ne diventavo un po’ padrone come i suoi abitanti, fin quando non ero capace di spostarmi al suo interno, di conoscerne le stagioni e potevo scivolare lentamente nella inconsapevolezza di chi non fa piú caso alla novità ma alle cose che ritornano giorno per giorno e vi dànno la sensazione di essere parte di un mondo comune, di un mondo fatto di case, spazi, alberi, pioggia e luna o sole cocente o vento rinfrescante. È questa voglia di capire come fanno gli altri a viverci che mi spinge a spiarli e a comportarmi come loro e che rimane per buona parte del tempo un mistero. Cosa si prova a essere di Singapore? Cosa si prova a essere di Istanbul, che tipo di orgoglio o di timidezza mi dà l’essere di una città di provincia come Yojakarta a Giava o come Penang in Malesia? In Vietnam a un certo punto ho capito l’orgoglio dell’essere di Hanoi, l’identità nordista che tutt’ora è intrappolata tra un senso di colpa nei confronti del sud e l’orgoglio di avere salvato il paese, l’idea di essere un po’ troppo «cinesi» e quindi non veramente Viet discendenti dei Champa che venivano dall’India, come sono quelli del sud. Questo misto lo sentivo nella razionalità e nello stesso tempo «napoletanità» di Hanoi2. Ma mi è successo altre volte questo volere entrare nell’esperienza vissuta di una città, fino a fare finta di appartenerle. È un apprendimento che ho sempre ricondotto alla frustrazione ma anche alla sicurezza della mia appartenenza a Palermo, al fatto che conoscevo bene questo senso pretenzioso di centralità di una città provincialissima e però orgogliosa dell’essere a parte. In genere però l’esperienza pura del «vissuto» in una città non c’entra con un giudizio piú o meno morale su come ci si vive. C’entra invece con l’invidia di quelli che sono inners e non outers. Che invidia nei confronti degli stambulioti, del loro muoversi nell’immensa città sul Bosforo! Che invidia nei confronti degli abitanti della Bay Area e di San Francisco e del loro dare per scontato tutto il mondo cosmopolita che li circonda! Che invidia nei confronti degli abitanti delle mahalle di Tashkent in Uzbekistan, la loro sicurezza di abitare in compound apparentemente di fango ma piastrellati di marmo all’interno. Credo che sia questa ancora la molla principale dei miei viaggi, quella di provare a capire come ci si sente «dall’interno», come se si fosse dei veri abitanti di un posto. Ovviamente è un esercizio di impossibilità, anche se il desiderio ci fa avvicinare a intuizioni preziose, anche se si può arrivare a sentire come «i locali» grazie alla «risonanza» di cui parla Unni Wikan. È possibile risuonare, consonare anche con gente di cui non si capisce la lingua ma di cui si osserva il modo di vivere, anche con gente di religione, cultura, abitudini diverse.
Questa esperienza passa per la condivisione della quotidianità, per l’abbandono della straordinarietà di arrivare dall’esterno, per lo spartire cibi, bevande, tempi del giorno e della notte, ritmi quotidiani e movimenti del corpo. Nella risonanza, nella consonanza è il nostro corpo che per primo apprende e poi spiega, senza che ce ne accorgiamo, com’è «essere di un posto», nell’imitazione fisica degli altri corpi che ci vivono da tempo e molto prima di noi. Vivendo in un posto se ne apprendono le movenze; ci sono città che vi spingono al passo felpato, come Venezia, città in cui un nervosismo vi prende dalle gambe e poi sale piú su come New York, città dove il sudore e l’umidità vi insegnano altri ritmi, ci sono metropoli dove imparate a muovere i fianchi come loro, i nativi, fare le smorfie che fanno loro, gesticolare per entrare nella parte come a Napoli o a Mumbai. I corpi vengono modellati dalle città in cui vivono, dalle loro scale o superfici piane, dalle loro discese e salite, dai prati e dalla polvere. Non so se questa è antropologia, è sicuramente parte dell’esperienza di straniamento e di sporgersi nel mondo altrui, è sicuramente parte della tentazione magnifica di fare finta di essere altri. L’antropologia è una forma di conoscenza per travestimento; come dice Tim Ingold, «l’antropologia è la filosofia che ha il coraggio di vivere fuori»3.
C’è in questo ritorno del corpo una ripresa di qualcosa che sembrava oramai in via di estinzione o estinto per sempre dietro la nostra ammirazione o il nostro terrore per il web. C’è quel nucleo che per Lewis Mumford costituiva il senso delle città, quella contigua fisicità che era stata fondata nelle polis greche ed era continuata fino alla città gotica pre-industriale. Per Mumford la «cultura delle città»4 era l’esperimento umano del convivere che produceva arte e artigianato, gilde e commercio, l’isonomia greca e le signorie rinascimentali. La cultura delle città era un vis-à-vis, una relazione primaria tra spazi e persone, angoli di muri e campanili, dirimpettai e marinai, arcate e templi, mercanti e lavandaie. Ma che si era prolungata a ridefinire la vita di Londra, Parigi, Roma, i primi singulti di New York e di Chicago.
Perfino la città degli anni tra le due guerre, la San Pietroburgo divenuta Leningrado o la San Francisco dei cercatori d’oro, vivevano ancora di dialettica tra prossimità e passaggi. La città come il luogo dell’arrivare, dello stare e del partire, un luogo che doveva la sua esistenza alla compresenza di persone tra persone, a quel farsi della quotidianità che perfino con l’accelerazione della Rivoluzione industriale risultava essenziale al funzionamento delle società. Poi le città sono state squassate da guerre e dalla piú potente guerra dichiarata loro dall’impero del traffico gommato, dalla rivoluzione conservatrice e reazionaria dell’automobile individuale. E hanno smesso la dimensione primaria, hanno privilegiato cavi, fili, connessioni visibili e invisibili, immagini e voci in transizione e movimento. Si sono defisicizzate, fino a una dis-incarnazione quasi totale. A chi poteva piú interessare che esistessero centri storici attenti alle piú sottili sfumature dello stare, chi potevano riguardare portici e gradinate, promenade e passaggi coperti? Erano un passato archeologico da affidare a dame preoccupate di vecchi muri. È stato per l’urbanistica il tempo della scoperta della conservazione. Il dover difendere l’antico, sapendo bene che si trattava di essere realisti, di difendere i muri ma non le funzioni ormai desuete. Chi si sarebbe mai battuto per una compresenza di residenze e di botteghe? Chi avrebbe spezzato una lancia per una reale centralità dei vecchi centri? Oramai le periferie, i centri commerciali e le autostrade erano i veri luoghi dove la vita accadeva. Poi l’Europa è stata invasa da immigrati da altri mondi. E questi hanno ricominciato a usare le città con i loro corpi, a usarle per fare dei loro spazi la risorsa primaria. Proprio perché esiliati dai propri luoghi d’origine, era la spazialità delle città d’arrivo a dovere offrire loro la presa su nuovi mondi5. Si legga il bel romanzo di Riccardo Arena La letteratura tamil a Napoli6 per capire questa nuova, inedita realtà dove si sovrappongono vecchie e nuove fisicità.
Si sono creati nei centri delle vecchie città europee posti per telefonare, per inviare denaro, commerci al minuto, parrucchieri, fast food «orientali». Abbiamo scoperto gli immigrati mentre si appropriavano di spazi che a noi sembravano troppo obsoleti e oramai scomodi anche per parcheggiare. Non ci saremmo mai immaginati di ritrovarci un giorno a domandare perché avevamo perso noi la presa su quegli stessi spazi. Le città, diventate luoghi astratti della nostra residenza, si allontanavano da noi. E con questa distanza se ne allontanavano le possibilità di democrazia diretta, di qualità quotidiana, di pretesa di appartenervi. Attraverso il corpo degli immigrati abbiamo lentamente riscoperto il nostro. Dovevano però arrivare i tempi delle occupazioni, della presenza in Piazza Tahrir, Gezi Park, Mong Kok, ma anche Wall Street, le strade del Brasile, le occupazioni nelle nostre città piene di edifici vuoti e inutilizzati, per renderci conto che la disincarnazione a cui sono sottoposte le città le svuota di senso e le rende inutili assembramenti. Il corpo è tornato alla ribalta, con le sue esigenze e le sue posture, i suoi ritmi e le sue evitazioni. I sensi sono tornati alla ribalta, l’arte di vivere e muoversi, corpi tra corpi, e l’arte di evitarsi. Oggi siamo sul bordo di una riscoperta o su quello di perdere definitivamente città e corpi. Perché le città sono il teatro dei corpi e sono la scena dove essi possono giocare con il potere limitato e fortissimo che hanno, il potere di chi «sa stare».
Tratto da Franco La Cecla, Contro l’urbanistica, La cultura delle città, Giulio Einaudi Editore
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