Un mattino, sulle tracce dei miei desideri, lasciai casa nostra con un libro e un pezzo di pane nella borsa. Ma prima, com’ero abituato a fare da bambino, corsi dietro la casa nel giardino ancora ombreggiato. Gli abeti piantati da mio padre, che avevo conosciuto giovani e sottili come bastoni, si erano fatti alti e robusti; ai loro piedi giacevano cumuli di aghi di un marrone chiaro e da anni non vi cresceva altro che pervinche [Vinca minor, L.]. Lì vicino, però, in una piccola aiuola, c’erano i fiori perenni di mia madre, raggianti e allegri, che sempre la domenica raccoglievamo in grandi mazzi. C’era una pianta con grappoli di fiorellini rosso cinabro che chiamavano “monete del papa” [Lunaria annua, L.] e un esile arbusto dai cui rami sottili pendeva una moltitudine di fiori rossi e bianchi, cuoriformi, chiamati “cuori di Maria” [Dicentra spectabilis, Lem.], e, ancora, un cespuglio detto “fanciullaccia” [Nigella damascena, L.]. Poco oltre crescevano, non ancora in fiore, gli astri dal lungo gambo, in mezzo strisciavano sul terreno il grasso sempervivum con le sue spine morbide, e la buffa portulaca. Quest’aiuola lunga e stretta era la nostra preferita, il giardino dei nostri sogni: qui crescevano insieme tanti diversi tipi di fiori bizzarri, che noi amavamo e ammiravamo ben più delle rose che fiorivano nelle due aiuole rotonde. Quando il sole splendente illuminava il muro di edera, ogni pianta si mostrava unica nella sua particolare bellezza: i gladioli si innalzavano superbi, carnosi e sgargianti, l’eliotropio blu [Heliotropium arborescens, L.], come incantato, sembrava sprofondare nel suo profumo intenso, le code di volpe [Ononis sp.] penzolavano arrendevoli, ormai appassite, l’aquilegia invece si ergeva in punta di piedi suonando le sue quadruplici campanelle estive. Intorno alle verghe auree [Solidago virga-aurea, L.] e tra i phloxazzurri ronzavano rumorose le api e sopra la fitta edera correvano qua e là piccoli e frettolosi ragnetti marroni; sopra le violaciocche tremolavano nell’aria farfalle col corpo robusto e le ali sottili come vetro, dal volo veloce e capriccioso, chiamate sfingidi.
Indugiando nel piacere dei giorni di festa passavo da un fiore all’altro, qua e là annusavo un’ombrella profumata, con un dito aprivo cautamente un calice per guardarci dentro e ammirare i misteriosi meandri e il silenzioso ordine di nervature e pistilli, di morbidi fili pelosi e di solchi cristallini. Intanto studiavo il cielo annuvolato del mattino, tratteggiato da un intricato groviglio di sottili striature di nebbia e di lanosi batuffoli di nuvole…
Meravigliato e con un senso di silenziosa angoscia, mi guardavo intorno nella ben nota cerchia delle mie gioie infantili. Il piccolo giardino, il balcone ornato dai fiori e il cortile umido, dove il sole non arrivava e il selciato era sempre coperto dal verde muschio, mi guardavano con un aspetto diverso da quello di un tempo. Persino i fiori avevano perduto qualcosa del loro inesauribile incanto. Il vecchio bottaccio dell’acqua col suo condotto se ne stava in un angolo del giardino, modesto e inespressivo; un tempo, indispettendo mio padre, vi avevo fatto scorrere l’acqua per intere mattinate e per interi pomeriggi, costruivo ruote di mulino in legno e lungo il percorso disponevo dighe e canali provocando violente alluvioni. Quel bottaccio ormai sgretolato dalle intemperie mi era stato fedele e amato compagno di giochi; guardandolo riuscii a percepire un’eco di quella gioia infantile, ma ormai sapeva di tristezza, si era ridotto a un piccolo rigagnolo, non era più un torrente né un Niagara.
Pensoso, scavalcai il recinto, un fiore azzurro di convolvolo mi sfiorò il viso, lo strappai e me lo infilai tra i denti. Ero deciso a fare una passeggiata sul monte per guardare la nostra città dall’alto. Passeggiare era una di quelle imprese semigioiose che in tempi passati non mi sarebbe mai venuta in mente. Un bambino non va a passeggio. Semmai va nel bosco a fare il bandito, il cavaliere o l’indiano, va al fiume a fare lo zatteriere e il pescatore oppure il costruttore di mulini, corre nei prati a caccia di farfalle e di lucertole. E così la mia passeggiata mi sembrò l’occupazione rispettabile e un po’ noiosa di un adulto che non sa bene cosa fare di se stesso.
Il mio fiore azzurro ben presto si avvizzì e lo gettai via; ora rosicchiavo un rametto di bosso dal sapore amaro e piccante, che avevo appena strappato. Vicino al terrapieno della ferrovia dove crescevano gli alti arbusti di ginestra, una lucertola mi sfrecciò davanti ai piedi. Allora la mia indole di bambino si ridestò: non mi diedi più pace, la rincorsi strisciando fino a quando la bestiola spaventata e calda di sole fu prigioniera tra le mie mani. La fissai negli occhietti brillanti come gemme e, nel ritrovare la gioia di un tempo per la caccia, sentii quel corpicino agile e forte e le dure zampette che si dimenavano puntandosi contro le mie dita. Poi, però, il piacere si esaurì e io non seppi più cosa fare di quella bestiola. Non mi dava più niente, non provavo più alcuna felicità. Mi chinai e aprii la mano; la lucertola rimase un attimo immobile con il respiro affannato che le faceva palpitare i fianchi, poi scomparve veloce tra l’erba. Un treno passò sulle rotaie luccicanti sfrecciandomi accanto; io lo guardai allontanarsi e per un momento percepii in modo inconfondibile che per me qui non poteva più fiorire alcun vero piacere e desiderai intensamente partire per il mondo con quel treno.
Tratto da: H. Hesse, Der Zyklon, 1913
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