«Alzare gli occhi dal libro (leggeva sempre, in treno) e ritrovare pezzo per pezzo il paesaggio – il muro, il fico, la noria, le canne, la scogliera – le cose viste da sempre di cui soltanto ora, per esserne stato lontano, s’accorgeva: questo era il modo in cui tutte le volte che vi tornava, Quinto riprendeva contatto col suo paese, la Riviera. Ma siccome da anni durava questa storia, della sua lontananza e dei suoi ritorni sporadici, che gusto c’era? sapeva già tutto a memoria: eppure, continuava a cercare di far nuove scoperte, così di scappata, un occhio sul libro l’altro fuori dal finestrino, ed era oramai soltanto una verifica di osservazioni, sempre le stesse.
Però ogni volta c’era qualcosa che gli interrompeva il piacere di quest’esercizio e lo faceva tornare alle righe del libro, un fastidio che non sapeva bene neanche lui. Erano le case: tutti questi nuovi fabbricati che tiravano su, casamenti cittadini di sei otto piani, a biancheggiare massicci come barriere di rincalzo al franante digradare della costa, affacciando più finestre e balconi che potevano verso mare. La febbre del cemento s’era impadronita della Riviera: là vedevi il palazzo già abitato, con le cassette dei gerani tutte uguali ai balconi, qua il caseggiato appena finito, coi vetri segnati da serpenti di gesso, che attendeva le famigliole lombarde smaniose dei bagni; più in là ancora un castello d’impalcature e, sotto, la betoniera che gira e il cartello dell’agenzia per l’acquisto dei locali.
Nelle cittadine in salita, a ripiani, gli edifizi nuovi facevano a chi monta sulle spalle dell’altro, e in mezzo i padroni delle case vecchie allungavano il collo nei soprelevamenti. A ***, la città di Quinto, un tempo circondata da giardini ombrosi d’eucalipti e magnolie dove tra siepe e siepe vecchi colonnelli inglesi e anziane miss si prestavano edizioni Tauchnitz e annaffiatoi, ora le scavatrici ribaltavano il terreno fatto morbido dalle foglie marcite o granuloso dalle ghiaie dei vialetti, e il piccone diroccava le villette a due piani, e la scure abbatteva in uno scroscio cartaceo i ventagli delle palme Washingtonia, dal cielo dove si sarebbero affacciate le future soleggiate-tricamere-servizi.
Quando Quinto saliva alla sua villa, un tempo dominante la distesa dei tetti della città nuova e i bassi quartieri della marina e il porto, più in qua il mucchio di case muffite e lichenose della città vecchia, tra il versante della collina a ponente dove sopra gli orti s’infittiva l’oliveto, e, a levante, un reame di ville e alberghi verdi come un bosco, sotto il dosso brullo dei campi di garofani scintillanti di serre fino al Capo: ora più nulla, non vedeva che un sovrapporsi geometrico di parallelelepipedi e poliedri, spigoli e lati di case, di qua e di là, tetti, finestre, muri ciechi per servitù contigue con solo i finestrini smerigliati dei gabinetti uno sopra l’altro.
Sua madre, ogni volta che lui veniva a ***, per prima cosa lo faceva salire sul terrazzo, (lui, con la sua nostalgia pigra, distratta e subito disappetente sarebbe ripartito senz’andarci); – Adesso ti faccio vedere le novità, – e gli indicava le nuove fabbriche: Là i Sampieri soprelevano, quello è un palzzo nuovo di certi di Novara, e le monache, anche le monache, ti ricordi il giardino coi bambù che si vedeva là sotto? Ora guarda che scavo, chissà quanti piani vogliono fare con quelle fondamenta! E l’araucaria della villa Van Moen, la più bella della Riviera, adesso l’impresa Baudino ha comprato ha comprato tutta l’area, una pianta che avrebbe dovuto preoccuparsene il Comune, andata in legna da bruciare; del resto, trapiantarla era impossibile, le radici chissadove arrivavano. Vieni da questa parte, ora; qui a levante, vista da toglierci non ne avevano più, ma guarda quel nuovo tetto che è spuntato: ebbene, adesso il sole alla mattina arriva qui mezz’ora dopo.
E Quinto: – Eh, eh! Accidenti! Ah, cara mia! – non era capace che d’uscirsene in esclamazioni inespressive e risolini, tra il “Tanto che ci vuoi fare?” e addirittura il compiacimento ai più irreparabili guasti, forse per un residuo di giovanile volontà di scandalo, forse per l’ostentazione di saggezza di chi sa inutili le lamentele contro il moto della storia. Eppure, la vista d’un paese ch’era il suo, che se ne andava così sotto il cemento, senz’essere stato da lui mai veramente posseduto, pungeva Quinto. Ma bisogna dire che egli era un uomo storicista, rifiutante malinconie, uomo che ha viaggiato, eccetera, insomma, non glie ne importava niente! Ben altre violenze era pronto a esercitare, lui in persona, e sulla sua stessa esistenza. Quasi gli sarebbe piaciuto, lì sul terrazzo, che sua madre gli desse più esca per questa sua contraddizione, e drizzava l’orecchio a cogliere in queste rassegnate denunzie che ella accumulava da una visita all’altra gli accenti di una passione che andasse al di là del rimpianto per un paesaggio caro che moriva. Ma il tono di ragionevole recriminazione di sua madre non sfiorava mai quel pendio acrimonioso e più in giù maniaco sul quale tutte le recriminazioni continuate troppo a lungo tendono a inclinare, e che si rivela in appena accennati termini del discorso: il dire, per esempio, “loro” di quelli che costruiscono, quasi si fossero tutti associati ai nostri danni, e “guarda cosa ci fanno” d’ogni cosa che nuoce a noi come a tanti altri; no, nessun appiglio di polemica egli trovava nella serena tristezza di sua madre, e tanto più in lui s’aizzava una smania d’uscire dalla passività, di passare all’offensiva. Ecco, ora, lì, quel suo paese, quella parte amputata di sé, aveva una nuova vita, sia pure abnorme, antiestetica, e proprio per ciò – per i contrasti che dominano le menti educate alla letteratura – più viva che mai. E lui non ne partecipava; legato ai luoghi ormai appena da un filo d’eccitazione nostalgica, e dalla svalutazione d’un’area semi-urbana non più panoramica, ne aveva solo un danno. Dettata da questo stato d’animo, la frase: – Se tutti costruiscono perché non costruiamo anche noi? – che egli aveva buttato lì un giorno conversando con Ampelio in presenza della madre, e l’esclamazione di lei, a mani alzate verso le tempie: – Per carità! Povero il nostro giardino! – erano state il seme di una ormai lunga serie di discussioni, progetti, calcoli, ricerche, trattative. Ed ora, appunto, Quinto faceva ritorno alla sua città natale per intraprendervi una speculazione edilizia.»
tratto da Italo Calvino, La speculazione edilizia, Milano 1994.
Prima edizione Italo Calvino, La speculazione edilizia, in «Botteghe oscure», XX (1957).
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