James G. Frazer

Il rituale di Adone

Alle feste di Adone, che venivano celebrate ogni anno nell’Asia occidentale e in tutti i paesi greci, accorreva gran folla specialmente di donne a piangere e a lamentare acerbamente la morte del dio. Si portavano statuette di Adone rappresentato come un cadavere, quasi per seppellirlo, e si gettavano in mare o in sorgenti; in alcuni luoghi, nel giorno seguente, si celebrava la sua risurrezione. Ma, a seconda del luogo, la cerimonia variava un poco, anche in rapporto all’epoca in cui era celebrata.

Ad Alessandria, le immagini di Afrodite e di Adone venivano stese su due letti e vi si ponevano accanto delle frutta mature d’ogni genere, dei dolci, delle piante in vaso, delle verdi pergole intrecciate di anice. Si celebrava un giorno il matrimonio dei due amanti e il mattino dopo le donne vestite a lutto coi capelli al vento e il petto nudo portavano sulla spiaggia la statua di Adone morto e la gettavano in balía delle onde. Tuttavia il loro dolore non era senza speranza, perché cantavano che il dio perduto sarebbe tornato di nuovo. La data in cui veniva celebrata ad Alessandria questa cerimonia non è espressamente indicata ma è stato dedotto, per l’accenno alle frutta in quel tempo mature, che avesse luogo verso la fine dell’estate. Nel gran santuario fenicio di Astarte a Byblo, la morte di Adone veniva pianta ogni anno al lamentevole e stridulo suono del liuto, con grida, gemiti e colpi sul petto; ma si credeva che il giorno seguente il dio tornasse in vita e ascendesse in cielo alla presenza dei suoi adoratori. I dolenti fedeli lasciati in terra si radevano la testa come facevano gli Egiziani alla morte del bue divino Apis; le donne che non potevano decidersi a sacrificare le loro belle trecce, dovevano abbandonarsi a degli stranieri in un giorno determinato della festa e dedicare ad Astarte il prezzo della loro prostituzione.

Sembra che questa festa fenicia avesse luogo in primavera poiché ne era determinata la data dal cambiamento di colore del fiume Adone e viaggiatori moderni hanno osservato che questo fenomeno avviene in primavera. In questa stagione la terra rossastra, sgretolata dalle piogge delle montagne, colora l’acqua del fiume e anche del mare per una gran distesa, di un rosso sangue, e si credeva che fosse il sangue di Adone, ogni anno ferito a morte da un cinghiale sul monte Libano. Si diceva inoltre che l’anemone scarlatto fosse sbocciato dal sangue di Adone, o che da esso avesse preso il colore, e poiché in Siria l’anemone fiorisce verso Pasqua possiamo dedurre che la festa di Adone, o per lo meno una delle sue feste, si celebrasse in primavera. Il nome del fiore deriva probabilmente da Naaman («diletto») che sembra fosse un epiteto di Adone. Gli Arabi chiamano ancora l’anemone «ferite del Naaman». Anche la rosa rossa si credeva che dovesse il suo colore alla stessa triste occasione: perché Afrodite, per la fretta di raggiungere il suo amante ferito, aveva attraversato una siepe di rose bianche; le spine crudeli avevano ferito la delicata sua pelle e il sacro sangue colorò per sempre di rosso quelle rose bianche.

Sarebbe forse vano basarsi troppo su prove date dal calendario floreale e soprattutto far valere un argomento così fragile come un bocciuolo di rosa, ma, per quanto le si può prestare fede, la tradizione che associa la rosa rossa con la morte di Adone indica che la sua passione si celebrava più d’estate che di primavera. È certo che, nell’Attica, la festa aveva luogo nel pieno dell’estate, poiché la flotta che Atene armò contro Siracusa, e dalla cui distruzione la sua potenza fu per sempre abbattuta, salpò a mezz’estate nel momento stesso in cui, per una coincidenza di cattivo presagio, venivano celebrati gli oscuri riti di Adone. Mentre le truppe marciavano verso il porto per imbarcarsi, le strade per cui passavano erano ingombre di bare e di effigi di cadaveri e l’aria era rotta dalle grida delle donne che si lamentavano per la morte di Adone. La circostanza ispirò lugubri presentimenti per la più bella flotta che Atene avesse mai mandato sul mare. Molti anni dopo, quando l’imperatore Giuliano fece il suo primo ingresso in Antiochia, trovò, ugualmente, la gaia e sontuosa capitale d’Oriente immersa nel lutto per l’annuale morte di Adone; e s’egli era già in preda a presagi di sfortuna, le voci di dolore che gli arrivavano alle orecchie dovettero sembrargli pari a un canto funebre.

È evidente la somiglianza tra queste cerimonie e quelle indiane ed europee altrove descritte. Particolarmente, salvo per la dubbia data della sua celebrazione, la cerimonia di Alessandria è quasi identica a quella indiana. In ambedue, il matrimonio di due esseri divini, la cui affinità con la vegetazione sembra risaltare dalle fresche piante da cui son circondati, vien celebrato in effigie e si fa un pianto funebre sulle effigi che vengono quindi gettate nell’acqua. Dalla somiglianza di questi costumi tra loro e coi costumi di primavera e di mezz’estate dell’Europa moderna, siamo indotti a pensare che tutti ammettano la stessa spiegazione. Per conseguenza, se la spiegazione che abbiamo adottato, riguardo a questi ultimi, è esatta, le cerimonie della morte e della risurrezione di Adone devono esser state anch’esse una rappresentazione drammatica della morte e della rinascita delle piante.

La conclusione, fondata così sull’analogia dei diversi costumi, è confermata dai seguenti caratteri della leggenda e del rito di Adone. La sua affinità con la vegetazione risulta evidente dal racconto che si fa di solito della sua nascita. Si dice che Adone fosse nato da un albero di mirra, la cui corteccia spaccandosi, dopo dieci mesi di gestazione, mise al mondo il bellissimo fanciullo. Secondo alcuni un cinghiale aveva rotto la corteccia con le sue zanne, aprendo così un passaggio per il fanciullo. Si diede alla leggenda una debole tinta razionalistica dicendo che sua madre era una donna, chiamata Mirra, tramutata in un albero di mirra dopo aver concepito il bambino. L’uso della mirra come incenso durante la festa di Adone può aver dato origine a questa favola. Abbiamo visto che si bruciava l’incenso negli analoghi riti babilonesi, proprio come veniva bruciato dagli Ebrei idolatri in onore della regina del cielo che non era altri che Astarte. Inoltre la leggenda che Adone doveva passare metà, o secondo altri, un terzo dell’anno nelle regioni sotterranee e il resto sulla terra, si spiega in modo assai facile e naturale, ammettendo che egli rappresentasse la vegetazione, specialmente il grano, che sta la metà dell’anno sotto terra ed è visibile l’altra metà.

Certamente, tra i fenomeni annuali della natura non ve n’è alcuno che suggerisca così naturalmente l’idea della morte e della risurrezione, come la sparizione e la ricomparsa della vegetazione in autunno e in primavera. Adone è stato preso per il sole; ma non vi è nulla nelle rivoluzioni annuali che il sole compie nelle zone temperate che suggerisca che egli sia morto per metà o un terzo dell’anno, vivo l’altra metà o gli altri due terzi. Si potrebbe dire che sia indebolito durante l’inverno; non certo morto: la sua riapparizione quotidiana contraddice la supposizione. Nelle regioni artiche dove il sole sparisce ogni anno per un tempo che varia secondo la latitudine da un periodo di ventiquattr’ore a uno di sei mesi, sarebbe naturale credere alla sua morte annuale e alla sua annuale risurrezione; ma nessuno, tranne lo sfortunato astronomo Bailly, ha mai osato sostenere che il culto di Adone venisse dalle regioni artiche.

La morte annuale e l’annuale rinascita della vegetazione è un concetto, d’altra parte, che si presenta facilmente agli uomini di ogni grado di barbarie e di civiltà; e la vastità della scala in cui avvengono questo declinare e questa risurrezione periodica, il fatto stesso che l’uomo ne dipende così strettamente per la sua sussistenza, lo rendono il più importante fenomeno della natura; almeno nelle regioni temperate. Non vi è da meravigliarsi se un fenomeno così importante, così straordinario e universale, abbia dato origine, suggerendo idee simili, a riti simili in molti paesi. Possiamo, quindi, riconoscere come probabile una spiegazione del culto di Adone che s’accordi con i fatti naturali e con l’analogia dei riti simili negli altri paesi. Inoltre, la spiegazione è sostenuta dall’opinione di molti antichi che ripetutamente interpretarono la morte e la rinascita del dio come la mietitura e la germinazione del grano.

Il carattere di Tammuz o Adone come spirito del grano appare ben chiaro da un racconto di queste feste dato da uno scrittore arabo del secolo X. Descrivendo i riti e i sacrifici osservati in diverse stagioni dell’anno dai Siriani pagani dello Harran, egli dice: «Tammuz (luglio). Alla metà di questo mese ha luogo la festa di el-Bûgât, ossia delle Lamentatici, e questa è la festa Tâ-uz, celebrata in onore del dio Tâ-uz. Le donne si lamentano della sua sorte, perché il suo signore lo uccise così crudelmente, macinò le sue ossa in un molino e poi le sparse al vento. Le donne, durante questa festa, non mangiano niente che sia stato macinato in un molino, ma limitano la loro dieta a grano macerato, alle cicerchie dolci, datteri, uva secca e simili». Tâ-uz non è altro che Tammuz, somiglia qui al John Barleycorn (Giovanni Grano-d’orzo) della poesia di Robert Burns:

Gli arrostirono l’ossa e le midolla

Su un gran falò

Ed un mugnaio dentro al suo molino

Lo triturò.

Questa concentrazione, per così dire, della natura di Adone nel raccolto dei cereali è caratteristica del grado di cultura raggiunto dai suoi adoratori nei tempi storici. Da molto tempo avevano lasciata addietro la vita nomade del cacciatore e del pastore. Da secoli si erano stabiliti nel paese dove vivevano soprattutto dei prodotti dell’agricoltura. Le bacche e le radici del deserto, l’erba dei pascoli, così importanti per i loro più rozzi antenati, erano ora cose di poca importanza per loro: i loro pensieri e le loro energie venivano sempre più assorbiti dalla loro nutrizione essenziale, il grano; e, per conseguenza, la propiziazione delle divinità della fertilità in genere e dello spirito del grano in particolare, tendeva sempre di più a divenire il carattere principale della loro religione. Lo scopo che si proponevano di raggiungere nella celebrazione dei riti era soprattutto pratico. Non era un vago senso poetico che li spingeva a salutare con gioia la rinascita della vegetazione e a rattristarsi al suo declino. La fame, provata o temuta, era la ragione principale del culto di Adone.

Il padre Lagrange ha avanzato l’ipotesi che i lamenti in onore di Adone fossero essenzialmente un rito della mietitura, destinato a propiziare il dio del grano, che allora o moriva sotto le falci dei mietitori o sotto le unghie dei buoi nell’aia. Mentre gli uomini lo uccidevano, le donne nelle case versavano lacrime di coccodrillo per placare la sua ben naturale indignazione, mostrando dolore per la sua morte. La teoria s’accorda bene con le date delle feste di Adone, che avvenivano di primavera o d’estate; perché la primavera e l’estate, e non l’autunno, sono le stagioni della raccolta dell’orzo e del grano nei paesi in cui era adorato Adone. Inoltre, l’ipotesi è confermata dalla pratica dei mietitori egiziani che, falciando il primo grano, emettevano lamenti e invocavano Iside, e anche dall’analogo costume di numerose tribù cacciatrici che manifestano gran rispetto per gli animali che uccidono e mangiano.

Secondo questa interpretazione, la morte di Adone non è il naturale deperimento della vegetazione in genere per il calore estivo o per il freddo invernale; è la violenta distruzione del grano per opera dell’uomo che lo falcia sui campi, lo batte sull’aia e lo riduce in polvere al molino. Si può ammettere che fosse questo l’aspetto principale sotto cui Adone si presentava, in un’epoca posteriore, ai popoli agricoli del Levante, ma è permesso di dubitare che fosse stato, sin dal principio, la rappresentazione del grano e nient’altro che del grano. In un’epoca anteriore può darsi che sia stato per il pastore soprattutto la tenera erba che spunta dopo la pioggia e che offre abbondante nutrimento al bestiame dimagrito e affamato. Più anticamente ancora può darsi che abbia personificato lo spirito delle noci e delle bacche che i boschi in autunno danno al selvaggio cacciatore e alla sua compagna. E come il contadino deve propiziarsi lo spirito del grano ch’egli consuma, così il pastore deve placare lo spirito dell’erba e delle foglie che bruca la sua pastura e il cacciatore lo spirito delle radici che dissotterra e delle frutta che coglie dai rami. In tutti questi casi, la propiziazione del danneggiato e irritato spirito richiedeva naturalmente lunghe scuse e autodifese, accompagnate da profondi lamenti sulla sua morte, quando, per necessità o per deplorevole caso, accadeva che venisse ucciso o depredato. Non dobbiamo dimenticare che il cacciatore selvaggio e il pastore di quei tempi remoti non erano ancora giunti probabilmente all’idea astratta della vegetazione in genere; e che, per conseguenza, Adone, se ha potuto esistere per loro in un modo qualsiasi, deve esser stato l’Adon o signore di ogni singolo albero e pianta, piuttosto che una personificazione dell’insieme della vita vegetale. Così vi dovevano essere tanti Adoni quanti erano gli alberi e gli arbusti e ognuno di essi poteva sperare di ricevere soddisfazione per ogni danno fatto alla sua persona o alla sua proprietà. E ogni anno, quando gli alberi perdevano le foglie, sembrava che ogni Adone sanguinasse a morte con le rosse foglie autunnali e ritornasse in vita col fresco verde primaverile.

V’è ragione di credere che, in origine, Adone era qualche volta personificato da un uomo vivo che moriva di morte violenta in qualità di dio. Vi sono inoltre prove che, presso le popolazioni agricole del Mediterraneo orientale, lo spirito del grano, sotto qualsiasi nome fosse conosciuto, era spesso rappresentato da vittime umane che venivano sacrificate sul campo del grano. Sembra possibile pertanto che la propiziazione dello spirito del grano tendesse a confondersi, sino a un certo punto, con il culto dei morti. Perché si credeva che gli spiriti di queste vittime potessero tornare in vita nelle spighe che esse avevano fertilizzato col loro sangue, per morire, una seconda volta, al tempo della mietitura. Ora, gli spettri di quelli che sono periti per morte violenta sono adirati e cercano, alla prima occasione, di vendicarsi degli uccisori. Di qui il tentativo di calmare le anime delle vittime uccise si univa naturalmente, almeno nel concetto popolare, al desiderio di placare lo spirito del grano ucciso. E poiché i morti ritornavano nel grano novello, così si poteva credere che tornassero nei fiori primaverili, destati nel loro lungo sonno dalla dolce aria primaverile. Erano stai messi sotto terra perché riposassero. Che cosa c’era di più naturale dell’immaginare che le violette e i giacinti, le rose e gli anemoni, sbocciati dalla loro cenere, si colorissero di porpora o di rosa per il loro sangue e contenessero parte del loro spirito?

Talvolta io penso che non mai dà fiore

Di sì stupenda porpora la rosa,

Come in un prato sotto cui riposa

Il corpo d’un ucciso imperatore.

E che ciascun giacinto a noi d’intorno

Venga da un viso che fu vago un giorno.

Il dolce verde di quest’erba fresca

Orna la sponda sopra cui sediamo –

Lieve il peso le sia! saper possiamo

Da che mai labbra, un dí soavi, nacque?

Nell’estate che seguì la battaglia di Landen, la più sanguinosa battaglia del secolo XVII in Europa, la terra bagnata del sangue di ventimila morti, si coprì di papaveri e il viaggiatore che passava davanti a questa vasta distesa di scarlatto, poteva ben immaginare che la terra avesse reso alla luce i suoi morti. Ad Atene la grande commemorazione de morti avveniva in primavera, verso la metà di marzo, quando sbocciano i primi fiori. Si credeva allora che i morti si alzassero dalle loro tombe ed errassero per le strade, sforzandosi inutilmente di entrare nei templi e nelle abitazioni che venivano serrate con corde, rovi e pece, contro gl’inquieti spiriti. Il nome della festa, secondo la più semplice e naturale interpretazione, significa «festa dei fiori», e questo nome si accorderebbe bene con il carattere delle cerimonie, se in quella stagione si credeva che i poveri spettri si trascinassero davvero fuori della loro stretta dimora allo sbocciare dei fiori. Può, quindi, esservi qualche cosa di vero nella teoria di Renan che vide nel culto di Adone un culto pieno di sogni e voluttà della morte, intesa non come una regina del terrore ma come una maga insidiosa che alletta le vittime e le culla in un sogno eterno. L’infinito fascino della natura nel Libano, egli pensa, si presta a queste emozioni religiose che si agitano fra la voluttà, il sonno e le lacrime. Sarebbe senza dubbio un errore attribuire ai contadini siriani il culto di una concezione così astratta come quella della morte in generale. Può darsi, tuttavia, che, nella loro semplice mente, il pensiero dello spirito rinascente della vegetazione si sia fuso con la nozione concreta degli spettri della morte che a primavera tornano nuovamente in vita coi primi bocciuoli, con il tenero verde del grano e coi variopinti fiori degli alberi. Così le loro idee sulla morte e sulla risurrezione della natura si coloravano dalle loro idee sulla morte e sulla risurrezione dell’uomo, dai loro propri dolori, dalle loro speranze e paure. E, così, non possiamo dubitare che la stessa teoria di Renan sopra Adone non sia stata profondamente influenzata da appassionati ricordi, ricordi del sonno così vicino alla morte che aveva chiuso i suoi occhi sui versanti del Libano, ricordi della sorella che dorme nel paese di Adone, per non mai più svegliarsi con gli anemoni e le rose.

Tratto da: James George Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, trad. it. Lauro De Bosis, vol I, cap. XXXII, Torino 1973.

Prima edizione The Golden Bough. A study in Magic and Religion, New York and London 1890.

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