Il mito greco pose Pan come Dio della natura. Il significato di questo termine ‘natura’ è stato ricondotto a non meno di sessanta differenti nozioni, sicché l’uso che qui faremo di ‘natura’ deve essere individuato a partire dalle qualità associate con Pan, dalla sua descrizione, dalla sua iconografia e dal suo stile di comportamento. Tutti gli Dei avevano degli aspetti naturali e potevano essere trovati nella natura, e questo ha indotto taluni a concludere che l’antica religione mitologica era essenzialmente una religione naturale, il cui trascendimento da parte del cristianesimo significò soprattutto la repressione del rappresentante della natura, Pan, che ben presto divenne il Diavolo dai piedi di capro. Per specificare quella che è la natura di Pan dobbiamo vedere in che modo Pan la personifica, sia nella sua figura sia nel suo ambiente, che è nel contempo un paesaggio interiore e una metafora, e non semplice geografia. Il suo luogo originario, l’Arcadia, è una località tanto fisica che psichica. Le « oscure » caverne dove lo si poteva incontrare (si pensi all’Inno orfico a Pan) furono dilatate dai neoplatonici fino a indicare i recessi materiali in cui risiede l’impulso, gli oscuri fori della psiche da cui nascono desiderio e panico.
Il suo habitat nell’antichità, come quello delle sue più tarde forme romane (Fauno, Silvano) e dei suoi compagni, era sempre costituito da forre, grotte, fonti, boschi e luoghi selvaggi; mai da villaggi, mai dagli insediamenti coltivati e cintati dei civilizzati; santuari in caverne, non templi edificati. Egli era un Dio dei pastori, un Dio di pescatori e cacciatori, un vagabondo privo persino della stabilità derivante dalla genealogia. I lessicografi del mito indicano almeno venti origini di Pan. Suo padre è di volta in volta Zeus, Urano, Crono, Apollo, Odisseo, Ermes, o la compagnia dei pretendenti di Penelope; il suo è perciò uno spirito che può sorgere veramente in qualsiasi luogo, frutto di molti movimenti archetipici o di generazione spontanea. Una tradizione gli dà come padre Etere, la tenue sostanza che è invisibile eppure ubiqua, e il cui nome indicava anticamente il cielo luminoso o il tempo associato con l’ora del meriggio (si veda più avanti) di Pan. Ma se Pan è così diffuso e spontaneo, perché attribuirgli un’origine? Questa line venne seguita da Apollodoro (Framm. 44b) e da Servio nel suo commento alle Georgiche di Virgilio.
Certamente la sua ascendenza materna è oscura. Il racconto che ci viene dato nell’Inno omerico a Pan, ripreso da Kerényi in Dei ed eroi della Grecia, mostra Pan abbandonato alla nascita da sua madre, una ninfa dei boschi, ma avvolto in una pelle di lepre da suo padre Ermes (l’esser generato da Ermes mette in rilievo l’elemento mercuriale presente nello sfondo di Pan), il quale portò il bambino sull’Olimpo dove fu accolto da tutti (pan) gli Dei con gioia. Soprattutto Dioniso ne fu felice.
Questo racconto situa Pan entro una specifica configurazione. Innanzitutto, essere avviluppato nella pelle della lepre, un animale particolarmente sacro ad Afrodite, a Eros, al mondo bacchico e alla luna, implica che egli è avvolto in queste associazioni. Il suo primo indumento sta a significare la sua iniziazione nel loro universo; egli è stato adottato da queste strutture di coscienza. In secondo luogo, il fatto che suo protettore sia Ermes conferisce alle azioni di Pan un aspetto ermetico. Esse celano dei messaggi. Sono modi di comunicazione, connessioni che significano qualcosa. In terzo luogo, la gioia di Dioniso esprime la simpatia che c’è tra di loro. Questi Dei, perciò, formano il fascio archetipico entro cui Pan è inserito e dove, in particolare, possiamo presumere che venga costellato.
Su questi mitologemi – « il bambino abbandonato », « avvolto in una pelle animale » e « gradito agli Dei » – si può meditare a lungo. La loro esegesi, quale emerge se viviamo i loro significati nelle nostre vite, può dirci molto sul nostro comportamento in carattere con Pan durante i momenti di debolezza e smarrimento (abbandono), e anche sulla nostra luxuria erotica: infatti, dentro il piccolo pegno d’amore che un tempo era la lepre, è celata l’incolta selvatichezza di Pan. Ciò che all’inizio è soffice si fa ruvido e sotto la pelliccia del coniglio sta in agguato il capro. Tuttavia gli dei guardano con favore a questo nostro bambino dai piedi caprini: essi lo considerano come un dono per il divino; ciascuno di loro scopre di avere un’affinità con lui; Pan li riflette tutti.
In quanto Dio di tutta la natura, Pan personifica per la nostra coscienza ciò che è completamente o soltanto naturale, il comportamento nel suo corso massimamente naturale. Il comportamento il cui corso è naturale è, in un certo senso, divino, è un comportamento che trascende il giogo umano degli scopi: è interamente impersonale, oggettivo, inesorabile. La causa di un tale comportamento è oscura; nasce repentinamente, spontaneamente. Come la genealogia di Pan è oscura, così è l’origine dell’istinto. Definire l’istinto come un meccanismo scatenante innato, o parlarne come di uno spirito ctonio, un urgere della natura, esprime in oscuri concetti psicologici quelle oscure esperienze che un tempo sarebbero state attribuite a Pan.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che l’esperienza di Pan sfugge al controllo del soggetto volitivo e della sua psicologia egoica. Anche dove la volontà è più disciplinata e l’io massimamente risoluto, e sto pensando qui agli uomini in battaglia, Pan appare, determinando attraverso il panico l’esito della mischia. Due volte nell’antichità (a Maratona e contro i Celti nel 277 a.C.) Pan apparve e i Greci conquistarono la vittoria. Egli veniva commemorato con Nike. La fuga panica è una reazione protettiva anche se nella sua cecità il risultato può essere la morte in massa. L’aspetto protettivo della natura che appare in Pan si rivela, oltre che nella sua affinità con i pastori, o nella radice (pan) di ‘pastore’, ‘pastorale’ e pabulum (nutrimento), anche nel suo ruolo nel seguito di Dioniso, dove Pan porta lo scudo del Dio nella marcia verso l’India.
Nella favola di Eros e Psiche raccontata da Apuleio, Pan protegge Psiche dal suicidio. Sconsolata, senza amore, negato l’aiuto divino, l’anima è presa dal panico. Psiche si butta nel fiume che la rifiuta. In quello stesso momento di panico, Pan compare con il suo altro lato riflessivo, Eco, e persuade l’anima su alcune verità naturali. Pan è al tempo stesso distruttore e preservatore, e i due aspetti appaiono alla psiche in stretta prossimità. Quando siamo presi dal panico noi non sappiamo mai se non si tratti del primo movimento con cui la natura si appresta a elargirci, se siamo capaci di udire l’eco della riflessione, una nuova visione di se stessa.
Come dice R. Herbig nella sua monografia, questo Dio è sempre un capro, il capro sempre una forza divina. Pan non è ‘rappresentato’ da un capro, né il capro è ‘sacro’ a Pan; piuttosto, Pan è il Dio-capro, e questa configurazione di natura-animale qualifica la natura personificandola come qualcosa di irsuto, fallico, errante e caprigno. Questa natura di Pan non è più uno spettacolo idillico per l’occhio, un certo luogo dove passeggiare o dove si desidera ritornare in cerca di dolcezza. La natura, in quanto è Pan, è calda e opprimente, è l’odore forte del suo pelo caprino, è la sua erezione, come se la forza arbitraria e imprevedibile e l’inquietante mistero della natura fossero sintetizzati in quest’unica figura.
L’« unione di Dio e capro » – la frase è tratta da La nascita della tragedia di Nietzsche – significò per il mondo post-nietzscheano il modo dionisiaco di coscienza e la finale malata follia del suo promulgatore. Ma sebbene Nietzsche stesse palesemente parlando del Dio-capro, « nella biografia di Nietzsche » scrive Jung « c’è la prova irrefutabile che il Dio che egli aveva veramente in mente era in realtà Wotan ». Perciò, tentando di comprendere l’unione di Dio e capro, che, come dice la Merivale, è « il fermo punto focale delle mie ricerche », dobbiamo evitare di confonderla con il Dioniso di Nietzsche, sul cui sfondo c’era il Wotan germanico. Nietzsche, tuttavia, penetra un enigma dell’esistenza caprina (e ve ne sono molti, giacché qui non consideriamo il capro del senex e il capro espiatorio e il capretto dionisiaco e la capra-nutrice), quando egli parla dell’orrore della natura e dell’orrore dell’esistenza individuale. Il capro solitario è infatti sia l’Unicità che l’isolamento, una maledetta esistenza nomadica in luoghi deserti, che il suo appetito rende sempre più deserti, e il suo canto « tragedia ». Questo non è il pingue e alticcio Pan di certa statuaria o l’elfo col piffero che chiamiamo Peter o il profondo sé « emotivo » del Pan di D.H. Lawrence, ma il Pan dell’Inno omerico che nella traduzione rinascimentale di Chapman è detto « leane and lovelesse ». La lascivia, quindi, è secondaria, e la fertilità anche; nascono dal disseccato desiderio della natura solitaria, di uno che è sempre un bambino abbandonato e che in innumerevoli accoppiamenti non forma mai una coppia, non cambia mai completamente il piede fesso con la zampa di coniglio. Può rallegrare gli Dei, ma non riesce mai a salire all’Olimpo; si accoppia, ma non si sposa mai; fa musica, ma le Muse sono con Apollo.
Per afferrare Pan come natura dobbiamo prima essere afferrati dalla natura, sia ‘là fuori’ in una campagna deserta che parla con suoni e non con parole, sia ‘dentro di noi’, in una reazione improvvisa. (Questo Pan è stato ricreato, meglio che da ogni altro, da D.H. Lawrence). Inquietante come l’occhio del capro, la natura ci raggiunge nelle esperienze istintuali che Pan personifica. Ma parlare di ‘personificazione’ è ingiusto verso il Dio, giacché implica che l’uomo fa gli Dei e che la natura è un impersonale e astratto campo di forze, così come la concepisce il pensiero. Laddove la forma demoniaca di Pan trasforma il concetto ‘natura’ in un immediato choc psichico.
La tradizione filosofica occidentale, fin dai suoi inizi nei presocratici e nell’Antico Testamento, ha mantenuto un pregiudizio contro le immagini (phantasia) preferendo loro le astrazioni de pensiero. Nel periodo che ha inizio con Cartesio e l’Illuminismo, durante il quale la concettualizzazione mantenne il predominio, la tendenza della psiche a personificare venne sdegnosamente respinta come antropomorfismo. Uno dei principali argomenti contro il modo mitico di pensiero sosteneva che esso procede per immagini, che sono soggettive, personali, sensuose. Ciò va evitato soprattutto nell’epistemologia, nelle descrizioni della natura. Personificare voleva dire pensare animisticamente, primitivamente, pre-logicamente. I sensi ingannano; immagini che vogliano ritrasmettere la verità sul mondo debbono essere purificate dei loro elementi antropomorfici; le sole persone dell’universo sono le persone umane. Nondimeno l’esperienza di Dei, eroi, ninfe, demoni, angeli e potenze, di luoghi e cose sacri, come persone precede in realtà il concetto di personificazione. Non siamo noi che personifichiamo, sono le epifanie che giungono a noi come persone.
Precisamente questo impariamo da Roscher, a dispetto di lui stesso. Roscher, come i suoi contemporanei (per esempio Ameling a proposito della personificazione), tendeva a concepire Pan come un’espressione composita delle qualità grezze e paurose della natura, proprio come le sue affascinanti ninfe erano visioni della delicata, leggiadra e lirica seduttività della natura. Ma il quadro concettuale di Roscher, mutuato dalla psicologia empirica associazionista (le idee sono fasci di percezioni sensoriali), non si accorda con ciò che egli scoprì nelle effettive descrizioni empiriche dei demoni dell’incubo. Questi non sono un ri-montaggio di qualità terrorizzanti, personificazioni post hoc di sensazioni provocate dalle coperte del letto. Sono persone vividamente reali.
Dilthey insistette che la personificazione era essenziale per la comprensione umanistica a differenza della spiegazione scientifica, il cui metodo richiede concettualizzazione e definizione. Lou Andreas Salomé, seguendo Dilthey, sollecitò Freud a mantenere questo procedimento che è essenziale per il progresso della psicanalisi come psicologia umanistica invece che scientifica. Jung fondò la sua psicologia sugli archetipi che, sebbene descrivibili concettualmente, sono sperimentali e persino chiamati come persone. Jung, infine, andò contro la tendenza del suo tempo difendendo le immagini quali dati primari della psiche e quindi prendendo queste immagini al loro sensuoso livello emotivo, per quei fenomeni empirici che esse sono, e non per delle personificazioni di idee astratte. Il linguaggio onirico (come dimostra l’incubo), il linguaggio delirante e allucinatorio, il linguaggio popolare – parlano in termini di persone. Lo stesso deve fare una psicologia che voglia parlare della psiche in quello che è il suo vero discorso. Il movimento di Jung, che tende a un allontanamento dai concetti astratti e a un accostarsi alla persona sensibile, corrisponde, come abbiamo visto più indietro, al movimento dall’intelletto all’immaginazione, che è popolata di tangibili immagini sensoriali. Perciò la monografia di Roscher, mettendo in rilievo la persona di Pan, contribuisce in un altro modo ancora a quella riscoperta dell’immaginale che prese il nome di psicologia dell’inconscio, e una delle cui essenziali deviazioni metodologiche dalla filosofia e dalla scienza è data dal suo linguaggio basato sulla personificazione.
Un grido percorse la tarda antichità: « Pan, il grande, è morto! » narra Plutarco nel Tramonto degli oracoli; tuttavia il detto è divenuto esso stesso oracolare, fino a significare molte cose per molte persone in molti tempi. Una cosa fu annunciata: la natura era stata privata della sua voce creativa. Essa non era più una forza indipendente e vivente di generatività. Ciò che aveva avuto anima, la perdette; o andò perduta la connessione psichica con la natura. Morto Pan, anche Eco morì; non potremmo più catturare coscienza riflettendo entro i nostri istinti. Questi avevano perduto la loro luce e caddero facilmente nell’ascetismo, seguendo come un gregge senza ribellione istintuale il loro nuovo pastore, Cristo, con i suoi nuovi mezzi di direzione. La natura cessò di parlarci – oppure non fummo più capaci di udirla. La persona di Pan il mediatore, come un etere che avviluppava invisibile tutte le cose naturali di significato personale, di lucentezza era scomparsa. Le pietre divennero soltanto pietre – gli alberi, alberi; le cose, i luoghi e gli animali non erano più questo Dio o quello, ma diventarono ‘simboli’ o si disse che appartenevano a questo o a quel Dio. Quando Pan è vivo allora anche la natura lo è, ed è colma di Dei, talché lo strido della civetta è Atena e il mollusco sulla riva è Afrodite. Questi pezzi di natura non sono semplicemente attributi o proprietà. Sono gli Dei nelle loro forme biologiche. E dove trovare gli Dei meglio che nelle cose, nei luoghi e negli animali che essi abitano, e come partecipare ad essi meglio che attraverso le loro concrete rappresentazioni naturali? Ogni cosa che veniva mangiata, odorata, calpestata o spiata era una presenza sensuale dotata di rilevanza archetipica. Una volta che Pan è morto, la natura può essere controllata dalla volontà del nuovo Dio, l’uomo, modellato ad immagine di Prometeo o Ercole, che crea da essa e l’inquina senza alcun turbamento morale. (Ercole, che per primo ripulì il mondo naturale di Pan, combinando l’istinto con la propria forza di volontà, non si fermò per togliere di mezzo le carcasse smembrate lasciate a putrefarsi dopo le sue civilizzatrici imprese creative. Lui si avvia a grandi passi verso la prossima impresa, e verso la pazzia che lo aspetta alla fine). Quando l’umano perde la connessione personale con la natura personificata e l’istinto personificato, l’immagine di Pan e l’immagine del Diavolo si mescolano. Pan non morì mai, dicono molti commentatori di Plutarco, egli venne rimosso. Perciò, come è stato affermato più indietro, Pan ancora vive, e non soltanto nell’immaginazione letteraria. Egli vive nel rimosso che ritorna, nelle psicopatologie dell’istinto che si fanno avanti, come indica Roscher, innanzitutto nell’incubo e nelle qualità erotiche, demoniache e paniche ad esso associate.
L’incubo quindi offre veramente la chiave per riavvicinare la natura per noi perduta e morta. Nell’incubo la natura rimossa ritorna, così vicina, così reale che non possiamo non reagire ad essa naturalmente, divenendo cioè interamente fisici, posseduti da Pan, gridando per avere luce, conforto, contatto. La reazione immediata è l’emozione demoniaca. Siamo ricondotti all’istinto dall’istinto.
tratto da: James Hillman, Saggio su Pan, trad. it. Aldo Giuliani, Milano 2013.
Titolo originale An Essay on Pan, © James Hillman 1972.
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