«Scrivere del male è angelico. Ma ci sono fatti, come Auschwitz, per i quali la parola non pareggia il male. Le distruzioni dell’Isis? In Italia non siamo terroristi, ma non vedo che devastazioni, a cominciare dalla nostra lingua. La bellezza bussa alla porta ed è come se in casa non ci fosse nessuno».
Alla soglia dei novant’anni, Guido Ceronetti resta la più anticonformista voce critica e poetica del nostro Paese. È scrittore, traduttore, poeta e drammaturgo; «e marionettista», come tiene a precisare. Non ci tiene per niente, invece, e da sempre, ad apparire politicamente corretto, come testimoniano le polemiche destate dai suoi articoli su «La Stampa», «la Repubblica» e il «Corriere della Sera», come quando si schierò a favore della scarcerazione di Erich Priebke, l’ufficiale nazista che organizzò l’eccidio delle Fosse Ardeatine, colpevole della «miseria di non essere un santo» e di aver ecceduto nell’obbedienza agli ordini; oppure, più recentemente, quando ha osato prendere le distanze dall’esaltazione collettiva e dalla retorica mediatica che hanno accompagnato il soggiorno nello spazio dell’astronauta Samantha Cristoforetti.
I suoi articoli, talora nati da esperienze di viaggio, spaziano da profili di Giacomo Leopardi (magari confrontato con Kafka) o santa Teresa d’Avila all’Italsider o alla chiusura degli ospedali psichiatrici dopo la legge Basaglia e sono raccolti in libri come La vita apparente (Adelphi) o Albergo Italia (Einaudi), un ritratto quest’ultimo, del nostro Paese negli anni Ottanta. Del 2011 è In un amore felice. Romanzo in lingua italiana ancora pubblicato da Adelphi, come il «diario» Per le strade della Vergine (segno zodiacale dell’autore) da poco in libreria. Sono fragile sparo poesia è la sua più recente raccolta di versi, edita da Einaudi.
Quest’uomo che ha esteso i suoi studi alla biblistica e alla traduzione dei classici, dei poeti del ’900, dell’Ecclesiaste e del Cantico dei cantici, ha più volte esplorato le zone d’ombra dell’essere umano. Ciò non gli impedisce di amare la luce d’estate e di contemplare la bellezza di un verso o di un’opera d’arte, né di scoprire che Goya, l’artista capace di evocare la sensualità delle majas o l’incubo delle «Pitture nere», può fare rima con gioia.
Lo incontriamo a Torino, la sua città (cui ha dedicato pagine sempre in bilico tra il disincanto e l’amore, la nostalgia e l’ironia), anche se da tempo vive a Cetona, nel senese.
Guido Ceronetti, i musei traboccano di pubblico, le città d’arte e non tradizionalmente «d’arte» (come la postindustriale Torino) sono travolte dal turismo, si producono mostre a getto continuo. C’è un’inflazione di bellezza, eppure il genere umano non sembra giovarsene. Perché, al contrario di quanto diceva Dostoevskij, la bellezza non salva il mondo?
Perché è vicina a Dio. Se Dio non può farcela e non vuole farcela, neanche la bellezza può salvare il mondo.
C’è il rischio di un’assuefazione alla bellezza, di una visione meramente «cartolinesca» delle opere e delle città d’arte?
Non è detto che mostre siano sinonimo di bellezza e tanta arte non vale il viaggio. Purtroppo ce n’è tanta che il viaggio lo varrebbe eccome, ma che non sono riuscito a vedere. Per fortuna visitai la mostra di Cézanne al Grand Palais di Parigi nel 1995, ma non riuscii, nel 2006, a vedere quelle organizzate per il quarto centenario della nascita di Rembrandt. Sempre a Parigi, il Musée du quai Branly può essere considerato una mostra permanente allestita così bene da definirla un’offerta di bellezza.
Che però, si diceva, non sembra avere effetti positivi.
L’uomo è degenerato. La bellezza gli bussa alla porta ma è come se in casa non ci fosse nessuno. Martin Heidegger, nella sua ultima intervista, dice che solo un dio può salvarci. Ma questo dio potrebbe anche infischiarsene. Ammesso che le sorti del mondo siano in mani divine, se si trattasse di un dio coranico avremmo più di un motivo per dubitare di essere in buone mani. Sono mani che minacciano.
L’Isis distrugge Palmira per iconoclastia religiosa o è un puro e semplice sfregio alla nostra cultura, alla bellezza così com’è stata concepita nell’Occidente classico?
Questa è una buona domanda, che potrebbe essere estesa anche alla distruzione dei Buddha di Bamiyan da parte dei talebani. Forse il movente sono tutte e due le cose che lei ipotizza. Ma non dimentichiamo l’abissale ignoranza di costoro. Non c’è bisogno di andare tanto lontano. L’editore Enzo Crea mi ha raccontato che cosa rispose un sindaco della Sardegna quando gli si fece notare quanto fossero deturpanti le costruzioni che lui aveva autorizzato. Disse: «C’è mancata la cultura». Solo che noi in Italia ne abbiamo così poca, di cultura, in alto e in basso. Non siamo talebani, ma sento e leggo che la devastazione di questo Paese è continua. Qui la gente qualche settimana fa non sapeva neanche del referendum sulle trivellazioni petrolifere. Sia l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sia l’attuale presidente del Consiglio Matteo Renzi hanno fatto capire che non era poi così necessario andare a votare. Il voto referendario è un’istituzione di Stato, ma gli stessi rappresentanti dello Stato, come aveva già fatto Berlusconi, invitano i cittadini a non andare a votare e ad andare al mare. Il mare è una pattumiera dove si va per non votare. Ma per restare al tema della cultura, abbiamo una lingua che non è più protetta. Oggi viene richiesto l’inglese, e va bene, ma ormai certi insegnamenti scientifici nelle università vengono impartiti in inglese. È un’enorme fuga dalla nostra stessa lingua madre.
L’arte contemporanea non produce necessariamente bellezza, ma si occupa sovente di politica. Così «Guernica» è sempre più un’icona…
Io amo, mi commuove il Picasso blu e rosa. Ma «Guernica» è un falso, è un quadro che raffigura la morte del toro, storicamente e biograficamente, che Picasso ha cinicamente «venduto» come un’opera sul bombardamento di Guernica, ma di Guernica non c’è proprio niente. Legga che cosa scriveva Buñuel, che di spagnolerie se ne intendeva, nelle sue memorie: di «Guernica» parla come di cosa decisamente brutta. Certo che di quel quadro, aiutato anche da una straordinaria fortuna ideologica, oggi non si può dir male.
Al contrario, lei non ha mai nascosto il suo amore per Mario Sironi, neanche quand’era considerato solo un pittore di regime.
Nell’opera di Sironi ci sono tante frange di regime ma c’è sempre del genio. E poi è uno dei pochi grandi pittori delle montagne. Le sue Dolomiti scoprono l’anima della montagna. Le pare si possa dire lo stesso delle Alpi di Segantini? E chissà se Sironi sarebbe stato ispirato dalle tranquille Alpi svizzere. Lo ispirarono invece le Dolomiti, luoghi di combattimento, dove lui ha anche combattuto. Sono quadri molto malinconici, dove si concentra un’anima in tormento.
Alla disperazione di Sironi dopo il suicidio della figlia lei ha dedicato una delle poesie del libro «Le ballate dell’angelo ferito». Sono versi dai quali trasudano dolore e male, temi molto frequenti nei suoi scritti. Forse perché raccontare il male vuol dire esorcizzarlo?
Non c’è nulla di più angelico che parlare del male; quindi mi considero un angelo. Ma ci sono fatti nei quali il male è oltre il dicibile, la parola non pareggia Auschwitz. Le storie vere raccontate nel libro che lei cita mi hanno tutte sedotto. Ho potuto scrivere sul delitto di Novi Ligure perché s’imparenta col mito greco tragico. In compagnia di un’attrice ho letto «Le ballate dell’«Angelo ferito» in un carcere di Spoleto. Davanti a me erano quasi tutti ergastolani. Avevano delle forti reazioni; specialmente per la ragazza di Novi Ligure non c’era pietà; nel loro applauso al termine della lettura leggevo la loro condanna per l’uccisione così gratuita di una madre e di un fratello. Io sono tutt’ora in corrispondenza, per quanto non così regolare, con un uxoricida che in carcere si è laureato in filosofia con una tesi sul suicidio, un gesto non vissuto astrattamente, perché lui lo ha tentato più di una volta dopo avere ucciso la moglie. Finché ha incontrato una signora che insegnava in carcere e ne è uscito sotto la sua ala. Non so se un giorno potrebbe ritentare la cosa, ma i giudici secondo me hanno avuto ragione. Quei gesti non si ripetono e una volta che si è espiata la pena è inutile infierire.
Il male raccontato dal suo angelo ha diverse facce…
Sono contento di aver sottratto alla polvere degli archivi il caso di Rosa Vercesi (una donna torinese che nel 1930 uccise un’amica, la cui vicenda è ripercorsa da Ceronetti anche in un libro edito da Einaudi, Ndr). C’è il caso di Michele Bonaglia, un pugile che durante una guerra civile commetteva atti di oscena ignoranza dei principi umani. Ma è vero, il male ha diverse facce. Il bombardamento di Dresda fu un’azione malvagia, a guerra ormai vinta. E lo stesso si può dire dell’aviazione italiana, inglese e francese che dopo Vittorio Veneto inseguono l’esercito austriaco in fuga, mitragliando a bassa quota dei poveracci che morivano di fame e tornavano a casa: «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza». Lo conoscevamo a memoria, il bollettino della vittoria. Anche in guerra, che pure è male, senti la presenza di un altro male.
Che cosa le ha lasciato la conoscenza diretta di Emil Cioran?
Un senso molto forte del male dell’uomo e dell’uomo come malattia del pianeta. Ho aderito alla sua filosofia sin dal primo incontro.
E che cosa l’ha avvicinata agli spettacoli di marionette con cui insieme a sua moglie, Erica Tedeschi, animò il Teatro dei Sensibili?
Nel 1970 mia moglie e io volevamo fare domanda per un’adozione. Il nostro scopo era dimostrare alle assistenti sociali che per il nostro ipotetico bambino avremmo allestito degli spettacoli di marionette anziché darlo in pasto a un televisore. Non l’avessimo mai detto! Facemmo una pessima impressione: in una coppia che nega al proprio figlio la televisione c’è qualcosa che non va! Comunque abbiamo continuato con il nostro teatrino, prima in casa e poi fuori, sempre con un bel pubblico. In fondo adesso me ne compiaccio, mi sono sempre ritenuto un marionettista, anche se dal ’91 non è più vero. Ora però sto pensando a una «shakespearata» in marionette; ho messo in scena per tanti anni «Macbeth», ne ho fatte tante versioni. Ma ora non mi chiama più nessuno, mi danno già per morto.
Heinrich von Kleist sosteneva che il sapere e la riflessione determinino nell’uomo una perdita dell’innocenza e della grazia, mentre l’inconsapevolezza della marionetta ha qualcosa di divino.
Molti anni dopo aver creato il teatrino in appartamento, ho pensato alla quarta elegia duinese di Rilke, laddove il poeta spiega come l’attore, una volta terminato lo spettacolo, si spoglia del suo costume, torna a casa e va a dormire. Invece la marionetta anche a scena vuota fa accadere qualcosa.
Il libro «Il silenzio del corpo» è il suo maggiore successo editoriale. Perché oggi prestiamo tanta attenzione al nostro corpo, al nostro benessere fisico, all’apparire?
Abbiamo perso il senso del divino, dell’ultrafanico, del non visibile: così tutto si è concentrato sul corpo. In tal senso, non ci è riuscita neppure l’ultima grande era messianica, quella che per me rimane il 1789, la Rivoluzione Francese fino al Terrore. Degli imbecilli hanno rovinato tutto, perché quella era un’era messianica. Poi è venuto un messia armato, che infatti aveva in sé anche qualcosa del mondo di là. Napoleone Bonaparte non era un Hitler o uno Stalin… Ma concentrava in sé tutto il bene e il male della Rivoluzione. E il male della rivoluzione è tutto dal ’92, dall’era repubblicana, purtroppo. Però in quell’epoca c’erano personaggi illuminati, un grande mistico come Louis-Claude de Saint-Martin. Lo stesso William Blake è un artista messianico. Ma c’erano degli illuminati anche nella tragica Rivoluzione russa. Sa che durante la Rivoluzione francese accadde un episodio commovente che riguarda il teatro di marionette?
No, di che cosa si tratta?
Al Palais Royal c’era un famoso teatro d’ombre. Un giorno vi si recò Fouquier-Tinville, il temuto pubblico accusatore del tribunale della Rivoluzione durante il Terrore. All’uscita dallo spettacolo, due bambine e una donna gli si gettarono ai piedi, chiedendogli di avere pietà del padre e del marito, ormai destinato, come si diceva, alla «carretta», e quindi alla ghigliottina. Ebbene, il grande, terrificante accusatore, intenerito dallo spettacolo, concedette la grazia. La marionetta ha un effetto etico. In teatro non riusciamo più a crearlo… Però con gli attori del Teatro dei Sensibili forse ci siamo riusciti, nel 2014, al Piccolo di Milano, in tre sole recite che hanno ottenuto un grande successo. Abbiamo messo in scena «Quando il tiro si alza. Il sangue d’Europa, 1914-1918», ispirato a un episodio della prima guerra mondiale. Lì producemmo un effetto etico, che sarebbe piaciuto a Sironi e a Céline… Ora sarebbe arrivato il momento della mia passeggiata pomeridiana, ma prima vorrei donare a lei e ai suoi lettori un bel pensiero, proprio di Céline.
Grazie.
In un’intervista, poco prima di morire, disse: «Je ne suis pas un artiste, mais j’ai la mémoire des fleurs». È una frase che ci lascia nel dubbio: la «memoria dei fiori» è ricordare i fiori, ma forse Céline vuole dirci che possiede la memoria che può avere un fiore.
Tratto da: Franco Fanelli, Il Giornale dell’Arte numero 366, luglio 2016