Rousseau

QUINTA PASSEGGIATA

Di tutti i luoghi in cui ho vissuto (e alcuni sono stati davvero incantevoli) nessuno mi ha reso così pienamente felice e mi ha lasciato così dolci rimpianti come l’isola di Saint-Pierre in mezzo al lago di Bienne. Quest’isoletta che a Neuchâtel chiamano isola di La Motte è ben poco conosciuta anche in Svizzera. Nessun viaggiatore, per quanto ne so, la nomina. E tuttavia è molto piacevole e, per la sua posizione, particolarmente adatta a rendere felice un uomo che ama isolarsi; e, per quanto probabilmente io sia il solo al mondo a cui il destino ha imposto la solitudine come legge, tuttavia non posso credere di essere l’unico ad avere un desiderio così naturale, anche se non l’ho mai potuto constatare in altri.

Le rive del lago di Bienne sono più selvagge e romantiche di quelle del lago di Ginevra poiché qui rocce e boschi sorgono più a ridosso dell’acqua; ma non sono perciò meno ridenti. Se ci sono meno campi coltivati e vigneti, meno villaggi e case, più ricca è però la vegetazione spontanea, più numerosi i prati e le radure protette dall’ombra dei boschetti, più frequenti i contrasti e maggiore la varietà. Dal momento che su queste felici rive non ci sono strade ampie adatte alle vetture, il paese è poco frequentato dai viaggiatori; ma è di grande attrattiva per gli spiriti solitari portati alla contemplazione che amano inebriarsi delle bellezze della natura e rifugiarsi in silenzio turbato solo dal grido delle aquile, dal rumore dei rami spezzati dagli uccelli e dallo scrosciare delle acque dei torrenti che precipitano dalla montagna.

Questo bel bacino di forma quasi circolare racchiude nel mezzo due piccole isole, una abitata e coltivata che misura circa mezza lega di circonferenza e l’altra, più piccola, deserta e incolta, destinata progressivamente a scomparire a causa dei continui prelievi di terra fatti per riparare ai danni che le ondate e le tempeste provocano alla grande. Come sempre le risorse del più debole vengono usate a vantaggio del potente.

Nell’isola c’è un’unica casa, ma grande, piacevole e comoda, che come l’isola stessa appartiene all’ospedale di Berna; vi alloggia un ricevitore con la sua famiglia e i domestici. Vi sono annessi un ricco pollaio, una voliera e vivai per i pesci. L’isola, per quanto piccolissima, ha terreni così diversi ed è così varia nell’aspetto da offrire ogni genere di paesaggio e adattarsi a tutti i tipi di coltura. Ci sono campi, vigne, boschi, frutteti, ricchi pascoli circondati da boschetti ombrosi e bordati da arbusti di tutte le specie che la vicinanza dell’acqua mantiene sempre freschi. Un’alta terrazza con due file di alberi delimita l’isola nel senso della lunghezza e nel centro di questa terrazza è stato costruito un accogliente salone dove gli abitanti delle rive vicine si radunano a ballare la domenica nel periodo della vendemmia.

Proprio in quest’isola venni a rifugiarmi dopo la lapidazione di Motiers. Soggiornarvi mi sembrò così affascinante e la vita che vi conducevo così in sintonia con il mio stato d’animo che, deciso a finir lì i miei giorni, non avevo altra preoccupazione se non quella che mi si permettesse di realizzare un tal progetto, che mal si accordava con quello di trascinarmi in Inghilterra e di cui già sentivo i primi effetti. Nello stato di inquietudine carica di cattivi presentimenti in cui mi trovavo, avrei voluto fare di questo rifugio una prigione perpetua; che mi avessero confinato lì per tutta la durata della mia vita e che togliendomi ogni possibilità e speranza di uscirne, mi avessero vietato persino di comunicare con la terra ferma in modo che, ignorando tutto ciò che si faceva nel mondo, ne potessi dimenticare anche l’esistenza così come gli altri avrebbero dimenticato la mia.

Non mi fu consentito di passare in quell’isola più di due mesi, ma avrei potuto rimanervi due anni, due secoli, e tutta l’eternità senza annoiarmi un solo momento, per quanto io e la mia compagna non avessimo altra compagnia se non quella del ricevitore, di sua moglie e dei loro domestici, tutte ottime persone ma niente di più; ma era precisamente questo ciò di cui avevo bisogno. Considero quei due mesi come il periodo più felice della mia esistenza, così felice che avrebbe potuto protrarsi per tutta la vita senza che nel mio animo si manifestasse per un solo istante il desiderio di una condizione diversa.

Di che natura fosse questa felicità e in che cosa consistesse il godimento che ne traevo lascio che a indovinarlo siano gli uomini di questo secolo, in base alla descrizione della vita che conducevo.

Il prezioso far niente fu il primo e principale piacere che io volli gustare in tutta la sua dolcezza; in effetti durante il mio soggiorno non mi dedicai ad altro se non alle occupazioni deliziose e necessarie a un uomo che si è completamente votato all’ozio. La speranza che non avrebbero desiderato altro che di lasciarmi in quel luogo isolato dove mi ero andato a cacciare da solo, da cui mi era impossibile uscire senza un aiuto esterno e senza che ne fossero avvertiti, dove non potevo comunicare o tenere una corrispondenza se non tramite le persone che mi circondavano, questa speranza – dico – faceva nascere l’altra di finir lì i miei giorni più tranquillamente di quanto non li avessi trascorsi in precedenza, e l’idea che avrei avuto il tempo per sistemarmi con comodità fece sì che io rimandassi ogni sistemazione. Trasportato là improvvisamente solo e nudo, mi feci raggiungere successivamente dalla mia governante, dai miei libri e dal mio piccolo bagaglio da cui ebbi il piacere di non togliere nulla lasciando casse e bauli così come erano arrivati e vivendo nella casa in cui contavo di finire i miei giorni come se fossi stato in un albergo da cui dovevo ripartire il giorno dopo. Le cose così come stavano andavano talmente bene che volerle sistemare meglio equivaleva a rovinarle. Uno dei piaceri più grandi era proprio quello di lasciare i miei libri ben chiusi e di non avere il necessario per scrivere. Quando proprio ero costretto a rispondere a qualche disgraziata lettera, ricorrevo brontolando al calamaio del ricevitore, e mi affrettavo poi a restituirlo nella vana speranza di non averne più bisogno. Invece di tutte queste tristi scartoffie e mucchi di vecchi libri, mi riempivo la camera di fiori e erbe; ero infatti allora all’inizio del mio entusiasmo per la botanica, scienza per la quale il dottor d’Invernois aveva fatto sorgere in me un tale interesse che presto divenne una passione vera e propria. Non volendo più dedicarmi a un vero lavoro, avevo bisogno di un’occupazione che mi piacesse e non mi impegnasse più di quanto ami esserlo una persona pigra. Iniziai a comporre la Flora petrinsularis e mi impegnai a descrivere tutte le piante dell’isola senza trascurarne nessuna, con un’attenzione ai particolari tale da tenermi occupato per il resto dei miei giorni. Si racconta che un tedesco abbia scritto un intero libro su una buccia di limone, io ne avrei scritto uno per ogni erba dei prati, per ogni muschio dei boschi, per ogni lichene che copre le rocce; non un filo d’erba, neppure il più minuscolo dei vegetali doveva rimanere privo di una esauriente descrizione.

Per realizzare questo entusiasmante progetto ogni mattina dopo la colazione che facevamo tutti insieme, andavo, lente in mano e Systema naturæ sotto il braccio, a esplorare un angolo dell’isola che avevo a questo scopo divisa in piccoli settori con l’intenzione di percorrerli uno dopo l’altro e nelle diverse stagioni. Niente era più singolare dei trasporti e delle estasi che provavo a ogni osservazione che facevo sulla struttura e l’organizzazione vegetale, sul ruolo e la funzione degli organi sessuali nella fruttificazione, il cui sistema era allora del tutto nuovo per me. L’enorme diversificazione dei caratteri generici, di cui non avevo avuto sino allora la minima idea, mi incantava già mentre la verificavo nelle specie comuni, in attesa che me ne capitassero di più rare.

La biforcazione dei due lunghi stami della brunella, la robustezza di quelli dell’ortica e della parietaria, l’esplosione del frutto della balsamina e della capsula del bosso, i mille piccoli artifici della fruttificazione che io osservavo per la prima volta mi riempivano di gioia e io andavo chiedendo in giro a tutti se avevano osservato i corni della brunella proprio come La Fontaine domandava se avevano letto Habacuc.

Dopo due o tre ore ritornavo carico di un ricco bottino, una grande riserva di divertimento per il pomeriggio in casa se per caso avesse piovuto. Il resto della mattinata lo occupavo andando con il ricevitore, sua moglie e Teresa a vedere gli operai e assistere alla loro raccolta; la maggior parte delle volte mi mettevo a lavorare con loro e spesso i bernesi che venivano a trovarmi mi hanno sorpreso appollaiato su un’altra pianta, con legato alla vita un sacco che riempivo di frutta e poi calavo a terra con una corda. L’esercizio fatto durante la mattina e il buon umore che inevitabilmente ne conseguiva mi rendevano particolarmente piacevole la sosta del pranzo; ma quando questa si prolungava troppo e la bella giornata mi invitava non potevo aspettare e mentre gli altri ancora si attardavano a tavola me la svignavo per andare a gettarmi tutto solo su una barchetta che, quando l’acqua era calma, facevo scivolare sino in mezzo al lago e là, lungo e disteso sul fondo, gli occhi rivolti verso il cielo, mi lasciavo trasportare alla deriva lentamente dove la corrente mi portava, talvolta per ore, immerso in mille pensieri confusi ma deliziosi che, pur non avendo alcun oggetto ben definito e fisso erano però per me cento volte preferibili a tutto ciò che avevo provato di più dolce in quelli che son considerati i piaceri della vita.

Molto spesso, quando l’altezza del sole sull’orizzonte mi avvertiva che era l’ora di tornare, mi ritrovavo così lontano dall’isola che ero costretto a remare con tutte le mie forze per riuscire a rientrare prima che fosse notte fonda. Altre volte, invece di spingermi al largo, mi divertivo a costeggiare le rive verdeggianti dell’isola le cui limpide acque e fresche ombre mi hanno spesso invitato a fare il bagno. Ma una delle mie navigazioni più frequenti consisteva nell’andare dall’isola grande alla piccola, di sbarcarvi e passarvi il pomeriggio talvolta facendo brevi passeggiate in mezzo ai salici, agli ontani, alle persicarie e a cespugli di tutti i tipi, tal’altra invece fermandomi su un poggio sabbioso coperto di erbetta, timo, fiori e persino di lupinella e trifoglio […]

Quando il lago agitato non mi permetteva di andare in barca passavo il pomeriggio a erborizzare percorrendo l’isola a destra e a sinistra, sedendomi talvolta negli angoli più ridenti e solitari per fantasticare in piena libertà o fermandomi su poggi o altri luoghi rilevati per cogliere con lo sguardo il superbo e affascinante panorama del lago e delle sue rive incorniciate da un lato dalle vicine montagne e, dall’altro, degradanti in ricche e fertili pianure dove lo sguardo poteva spaziare sino ai monti azzurrognoli più lontani.

Quando la sera si avvicinava scendevo dalle alture dell’isola e andavo con piacere a sedermi in riva al lago, sulla spiaggia, in qualche rifugio nascosto; là il rumore delle onde e il movimento delle acque concentrando tutta la mia attenzione e cacciando dal mio animo qualsiasi altra agitazione, lo immergevano in un delizioso fantasticare tanto che spesso ero sorpreso dalla notte che sopraggiungeva senza che me ne accorgessi. Il fluire e rifluire dell’acqua, il suo rumore continuo ma a tratti più intenso, colpendo senza sosta le mie orecchie e i miei occhi suppliva ai movimenti interni che il fantasticare attenuava in me e bastava a rendermi piacevolmente consapevole della mia esistenza, senza la fatica di pensare.

Di tanto in tanto nasceva in me qualche debole e breve riflessione sulla instabilità delle cose del mondo di cui la superficie delle acque mi offriva l’immagine: ma ben presto queste impressioni leggere si cancellavano nell’uniformità del movimento incessante che mi cullava e che, senza nessuna partecipazione attiva da parte mia mi legava a sé al punto che, richiamato dall’ora e dal segnale convenuto, a stento riuscivo a staccarmi di là. […]

tratto da Jean-Jacques Rousseau, Passeggiate, trad. it. Laura Cabria, Milano 1986.

Titolo originale Les rêveries du promeneur solitaire; prima edizione 1782.