La ricerca verso l’Individuo Assoluto, che contraddistingue parte del pensiero di Evola, lo porta ben presto vicino alle culture orientali, studiando a fondo, ad esempio, i tantra. Possiamo dunque individuare nell’interesse verso questa particolare branca della filosofia indiana il primo momento di contatto tra l’erudito italiano e la cultura orientale. Il cosiddetto sdoganamento di Evola da parte della intellighenzia “ufficiale” è un fatto ancora piuttosto mal digerito dalla maggior parte dei cosiddetti ben pensanti del progresso. In realtà, la circospezione e il pregiudizio con cui Evola è stato spesso visto da alcuni intellettuali dichiaratamente di sinistra ha fatto da contraltare all’entusiasmo, sovente scarsamente cosciente, di gruppi di giovani e meno giovani di destra, trasformando sfortunatamente Evola in una icona reazionaria, cercando soprattutto di enfatizzarne la connotazione politica, svalutandone in tal modo lo spessore di studioso poliedrico e geniale, di attento osservatore e “premonitore” dei destini d’Occidente, quanto d’Oriente.
In questo nostro intervento, vorremmo ragionare sul modo, a dire il vero il più delle volte assai illuminato, in cui Evola ha individuato alcuni elementi di grande importanza nella cultura del Giappone, che ne decretano una superiorità morale su di un Occidente secolarizzato, socialista e tecnocrate. Lo faremo, analizzando principalmente alcuni suoi articoli e saggi brevi, che egli ha dedicato a questo paese. Dunque, l’Oriente è per Evola uno “specchio” per stigmatizzare il decadimento occidentale. Cionondimeno, egli afferma che nella nostra storia abbiamo anche noi avuto momenti di purezza, ragion per cui “l’esempio asiatico” diventa uno stimolo per ritrovare la Tradizione occidentale. Un altro aspetto sul quale vorremmo gettare luce riguarda la definizione di Evola come orientalista. Esoterista, filosofo, artista, tante definizioni gli sono state attribuite, ma raramente quella di orientalista. Malgrado il poco spazio a disposizione, vorremmo dimostrare come specialmente le sue osservazioni sul Giappone ne decretino la natura di orientalista a tutti gli effetti. Certo, come sempre nel suo caso, egli era un autodidatta. Tuttavia, siamo convinti che i suoi scritti possano contribuire allo studio delle culture orientali anche per gli specialisti e non solo per gli studiosi della Tradizione. Silvio Vita, noto per le sue ricerche sulle religioni orientali, ha lasciato intendere nel suo saggio introduttivo al Tao Te Ching (antico testo cinese, scritto non prima del 250 a.C), curato proprio da Evola, che quest’ultimo era un orientalista-non-orientalista, che suppliva alla mancanza di specializzazione, con la cultura, l’intuito, la sensibilità per gli argomenti, nonché la conoscenza della Tradizione, dicendo talvolta cose più importanti dei puri specialisti.
Per cominciare, vogliamo evidenziare come Evola avesse compreso bene la natura intrinseca del Buddhismo in quanto filosofia. Egli vedeva nella volontà di autentica distruzione dello stato di necessità, che è alla base di questa dottrina, una via per affrancare l’essere umano; come afferma Paolo Andrian: “Il buddhismo, in quanto Via dello Spirito, è la scienza della rimozione del velo che copre la realtà”. Per Evola, il Buddhismo è una via per il raggiungimento della felicità, nel senso della piena comprensione di quella che è la condizione umana, dunque della realtà. Dobbiamo inoltre ricordare come il filosofo sosteneva la inesistenza di una netta separazione tra mondo vero e non vero2. Evola era tuttavia decisamente critico verso la evoluzione in forma di religione dogmatica presa da questa disciplina e riconosceva nella corrente giapponese chiamata Zen un ritorno a una primigenia purezza. Proprio lo Zen e il suo fondamentale ruolo nella cultura tradizionale nipponica saranno spesso al centro della pubblicistica evoliana dedicata al Giappone.
Più e più volte, Evola associa i concetti base della dottrina buddhista originaria sia alle regole morali della cavalleria medievale occidentaleche al mondo romano. Questa “tendenza comparatistica”dell’intellettuale italiano è presente in molte sue opere, segnatamente negli articoli dove ritorna spesso questa sua idea di una visione abbastanza simile del mondo tra una Tradizione occidentale ormai perduta da tempo e la antica sapienza orientale. Inoltre, nello studio dello Zen egli ama riproporre uno dei concetti filosofici a lui più cari,ovvero l’autodeterminazione dell’Io: “Trovare in sé il proprio signore”4, accomunando dunque la pratica zen dei samurai a quella degli stoici. Questo concetto è sorprendentemente simile alla idea che è alla base del celeberrimo Hagakure, in cui si predica per l’appunto l’uccisione dell’Io, quale unica via per una autentica libertà. Nel suo continuo paragonare la Tradizione giapponese a quella occidentale, Evola ammette una qualche connessione tra il Bushi e i cavalieri medievali, malgrado riconosca come la nostra cultura tenda a confondere la figura del guerriero, con quella meno nobile del militare, cosa che chiaramente non avviene nella Tradizione nipponica. Egli identifica inoltre nella sacralizzazione della esistenza guerriera del popolo del Sol Levante, in voga fino alla sconfitta della II Guerra Mondiale, una tensione metafisica, proveniente dall’alto, dunque da una sorgente divina, più precisamente dal Tennō (“l’Imperatore”).
Nel suo articolo Dal buddhismo fino allo Zen7, Evola afferma con convinzione il fatto che lo Zen abbia rappresentato una riscoperta degli autentici valori del Buddhismo, corrottosi quando si è trasformato in una religione, con i suoi dogmi. Sempre in questo scritto, il filosofo affronta il concetto di impermanenza, tipico di questa dottrina, confrontandolo con la sua personalissima negazione della esistenza diun ‘“aldiquà” come di un “aldilà”: come detto, nella concezioneevoliana della vita, è spesso presente questo ragionamento sullainesistenza di una separazione netta tra mondo “vero” e “falso”.Interessante è anche la sua introduzione a un testo di Suzuki Daisetsu Teitarō (1870 – 1966)8: una autorità negli studi buddhistici, dove palesa un chiaro dissenso sulla visione eccessivamente semplificata che questo celebre studioso ha dato nel suo libro del Buddhismo. Evola imputa infatti a Suzuki la responsabilità di aver celato i lati più radicali di questa disciplina ed esaltato, viceversa, quelli più mansueti, per avvicinare questa filosofia e religione agli occidentali, arrivando a definirlo: “un Orientale che sa troppo della cultura occidentale”9. In questo testo, il discorso evoliano sull’Oriente ripropone tematiche esistenziali legate al concetto di individuo assoluto: “[…] ogni eventuale incontro presuppone, in un Occidentale, […] la capacità di quella metanoia, di quel rivolgimento interno […]. Queste sue parole sulla difficoltà di far propria tale dottrina ammoniscono anche sul tentativo di creare un Buddhismo “semplice”, facile da seguire per la blanda morale occidentale e che nei nostri giorni si ritrova nella setta chiamata Sōka Gakkai .
Oltre a essere un sofisticato, quanto originale studioso, delle dottrine orientali, Evola è stato anche un acutissimo anticipatore della corruzione della Tradizione dei popoli asiatici, quando sono entrati in contatto con la moderna cultura occidentale, intrisa com’è di falsi ideali, quali il profitto e la tecnologia. Egli porta avanti questa sua analisi, concentrando la propria attenzione sul paese orientale che più e prima di chiunque altro ha fatto propri i valori dell’Occidente, per l’appunto il Giappone. Difatti, Evola affronta in varie occasioni il lungo e, in alcuni casi, drammatico processo di occidentalizzazione di questo paese, cheegli definisce come: “[…] una insipida americanizzazione”12. La sua arguzia intellettuale lo porta subito al nocciolo della questione, ovvero capisce che fin dalla I Guerra Mondiale la ricerca della modernità per i giapponesi non è stato altro che il desiderio di copiare e adattare la cultura americana; dunque per Evola è più corretto parlare di unGiappone “americanizzato”, che “occidentalizzato”. Ovviamente, egli percepisce il pericolo di uno sradicamento della Tradizione di questa complessa civiltà, che investe tutti i campi, persino le arti marziali, e tra tutte, ci sentiamo di affermare in qualità di praticanti, il karate: “[…] al massimo sport senz’anima fatto più per rafforzare che non per alleviare l’indurimento e la chiusura dell”Io fisico dell’uomo moderno”.
Nell’articolo intitolato: Kali-yuga: l’età oscura, Evola definisce il processo di occidentalizzazione in atto in Asia, come una colonizzazione europea del mondo, la quale diffonderà il virus del materialismo nelle antiche civiltà orientali, distruggendo in tal modo le loro tradizioni. Non sorprende dunque che egli si trovi anni dopo a scrivere, seppur brevemente, del suicidio del grande scrittore Mishima Yukio , dimostrando non solo di aver compreso perfettamente il senso più profondo del suo gesto estremo, ma di aver capito per giunta che il peggior aspetto della occidentalizzazione del paese del Sol Levante fosse proprio quella americanizzazione a cui abbiamo appena accennato e che vide nell’ultimo Mishima un fiero oppositore.
Il filosofo italiano dimostra il giusto distacco intellettuale, caratteristica di ogni studioso degno di questo nome, nei confronti della cultura estremo orientale, inclusa ovviamente quella giapponese. In Ora tocca all’Asia. Il tramonto dell’Oriente16, egli come suo solito continua la critica alla moderna società occidentale, evidenziando la crisi della razza bianca, la quale non è mai stata superiore, dal punto di vista morale e spirituale, a quella asiatica, ma solo tecnicamente. Qui, troviamo un Evola sorprendentemente anti-razzista, intento ad affermare che non conta il colore della pelle e che alla fine i bianchi di oggi, differentemente dai Romani del passato, non sono migliori degli altri, anzi, parla addirittura di “violenza dei bianchi”. Evola anticipa profeticamente non solo l’avvento della potenza nipponica, ma anche, in parte, della Cina, affermando che tanto i popoli asiatici ci batteranno sul nostro stesso campo, la tecnologia, ma saranno superiori, poiché possiedono una devozione verso il gruppo e uno scarso attaccamento alla vita, dunque sono disposti a sacrifici per noi inimmaginabili. Evola conclude, comunque, che questo sistema economicistico fallirà, ragion per cui, per ristabilire il primato dell’Occidente, è auspicabile che le nostre società collassino prima di quelle asiatiche, per promuovere l’avvento di una palingenesi.
Tornando più nel dettaglio al Giappone, per Evola questo è il paese della Tradizione: “Il Giappone è, senza dubbio, uno fra gli Stati moderni chein maggior misura hanno [sic] conservato un aspetto «tradizionale»”17, da lui considerato come una autentico baluardo contro il comunismo. Egli individua nel Kojiki18 il testo sacro nel quale è possibile trovare la prova non solo della divina ascendenza della famiglia imperiale nipponica, ma anche del fatto che per l’appunto tale discendenza fa del Giappone un paese dove il sovrano non è eletto dal popolo, bensì ha una investitura celeste, dunque immune alla razionalizzazione materialistica tipica del socialismo reale. Malgrado la sua natura fortemente collettiva, quella giapponese non è certo una cultura assimilabile a una qualsiasi società di stampo socialista, in virtù della sua forte gerarchizzazione confuciana e principalmente per la presenza di quello che lo stesso Evola definisce “ideale eroico”19. La nazione viene concepita come una unica famiglia, di cui quella imperiale ne costituisce il centro, il ceppo dinastico del popolo nipponico. Questo si inserisce in quella concezione politico-nazionale, lo yamato-damashii, la quale, grazie alla sua natura divina, funge da antidoto contro la penetrazione del bolscevismo. Chiaramente, questo, come altri suoi articoli, risale agli anni ’30 del secolo scorso, dunque Evola non poteva ancora immaginarsi la nascita nel II Dopoguerra di un movimento marxista nell’Arcipelago; il quale, tuttavia, proprio in virtù di quella naturale predisposizione, a cui ha più volte accennato il filosofo, a non essere influenzato da questo tipo di ideologia, non riuscì mai ad attecchire nella popolazione giapponese, come accadde, per esempio, da noi in Italia.
Il mantenimento di una Tradizione integra ha permesso al Giappone, differentemente da quello che è cominciato ad avvenire in Occidente sin dalla fine del XIX secolo, di arginare quello che Evola giudicava come il pericolo di una contaminazione comunista. Oltre al sopracitatoyamato-damashii, egli parla di un altro elemento che caratterizza una visione sacra della politica in Giappone. Infatti, grazie all’antico concetto del matsurigoto, che sta a indicare sia l’atto di governare in senso stretto, ma che può anche richiamare, per via di una assonanza, l’esercizio delle cose religiose, Evola identifica una incrollabile sacralità nel governo dell’Imperatore, proponendo un suggestivo parallelismo con l’Occidente antico, segnatamente con la figura divinizzata dell’imperatore romano.
Nell’articolo Sulla dottrina nipponica dell’impero (1939), malgrado in alcuni passaggi presenti una scrittura meno chiara di quella che troviamo solitamente nelle riflessioni che l’intellettuale italiano ha dedicato all’Estremo Oriente, si percepisce lo stesso una sua profonda consapevolezza del passato e, cosa ancora più sorprendente, del futuro del Giappone. Differentemente dagli articoli apparsi anni prima, Evola qui intravede un possibile elemento positivo nella modernizzazione di questo paese. Sarebbe a dire che, giudicando i popoli orientali per loro stessa natura antimoderni, e i giapponesi come i più tradizionalisti dell’Asia, Evola auspicava che l’avvento nel paese del Sol Levante della tecnologia occidentale potesse essere contenuto proprio dal sacro ruolo che la Tradizione ancora aveva nella società nipponica della epoca. Ciò malgrado, la storia ha dimostrato come tali intuizioni non siano state niente più che dei semplici auspici, poiché è davanti ai nostri occhi come da decenni ormai il Giappone viva quasi con diffidenza il proprio passato e, come del resto quasi tutti gli altri popoli asiatici, non sia altro che un miscuglio tra la chiusura mentale tipica degli orientali e lamancanza di valori del moderno Occidente. Dunque, quel “cavallo di Troia”, in tal modo Evola chiama la penetrazione della tecnologia occidentale in Giappone, è risultato essere alla fine proprio la testa di ponte per la intrusione di tutti quei non-valori generati dalla modernità in Occidente e apertamente in contrasto con quelli della Tradizione nipponica.
Negli anni della guerra, Evola pubblica ‘La religione del Samurai’ (1942) . La sua riflessione sul Giappone perde una parte di lucidità, indulgendo in alcune affermazioni dai toni eccessivamente perentori e semplicistici, probabilmente nel tentativo di esaltare l’alleato nipponico. Tuttavia, anche in questo scritto egli porta avanti la sua incisiva analisi, tornando sull’argomento religioso, ovvero lo Zen, riproponendo inoltre quella tendenza a mettere a confronto il mondo ario-romano e il suo misticismo e Tradizione, con quelli del popolo del Sol Levante. Sempre in questo articolo, Evola anticipa in modo sorprendente quelle che saranno le conclusioni estetico-morali a cui giungerà proprio Mishima Yukio; ovvero la netta supremazia del corpo sulla mente e della azione sulla riflessione, Evola scrive infatti: “La «religione del Samurai» […] non vuole saperne di speculazioni, di scritture, di testi”. Il Giappone degli anni ’30, grazie alla profonda unità fra religione e politica, può essere per Evola da esempio per un Occidente secolarizzato e, specialmente, “despiritualizzato”, ove si è perso quelretaggio tradizionale che è invece ancora presente nella società nipponica di quel periodo. Evola capisce bene come, malgrado le derive del fanatismo militarista, la volontà dei governanti nipponici era quella di prendere solo il necessario dalla modernità, mantenendosi fedeli alla propria spiritualità tradizionale. Questo intento andrà completamente perso nel dopoguerra, quando gli americani imporranno con forza non solo il loro modello di civiltà basato sulla economia, ma anche i propri valori, corrompendo l’anima stessa del popolo giapponese.
In definitiva, lo yamato-damashii è quella caratteristica senza la quale i giapponesi non sarebbero tali e che alla fine resiste ancora nei meandri più remoti della loro cultura. Basti vedere la grande prova di dignità che hanno dato al mondo nel caso della catastrofe naturale che ha colpito ilTōhoku, nel marzo 2011. Tuttavia, oggigiorno questo concetto vienevisto dai più, persino nello stesso Giappone, con estrema diffidenza. IlPremio Nobel per la letteratura, Ōe Kenzaburō, ha detto che nel suo paese ormai quando si accenna al cosiddetto “spirito giapponese” lagente si inquieta e perde la proverbiale calma che da sempre la caratterizza26. Ōe ha tuttavia affermato che sarebbe invece il caso di recuperare il senso originario di questo concetto che, come del resto pensava lo stesso Evola, prevede principalmente un forte senso di appartenenza alla propria comunità nazionale; in modo però diverso dal nostro patriottismo e che purtroppo sarebbe troppo lungo e complesso da spiegare in questa sede. Possiamo qui solo accennare al fatto che, mentre il nazionalismo di stampo occidentale prevede quasi sempre una opposizione verso altri popoli, il senso di appartenenza nipponico si concentra solo sulla propria comunità, un qualcosa che è bene evidenziato dalla parola kizuna( ): “legame emotivo”, entrataprepotentemente nel linguaggio comune dell’Arcipelago, al seguito della tragedia dello tsunami di Fukushima. Dunque lo Yamato-damashii altronon è che il “sentire comune” del popolo giapponese. Avvicinandosi alle conclusioni, vogliamo brevemente analizzare la intrigante lettura che Evola propone del rapporto tra la ideologia fascista e la tradizione orientale. Ovviamente siamo sempre nel periodo prebellico. Egli individua nel fascismo un fondamentale contributo di“mediazione” con i popoli orientali, alla insegna di una riscoperta dellaloro tradizione, grazie a una rinata romanità: Peraltro, il fascismo […] manifesta la funzione di una mediazione in senso superiore presentando appunto un esempio «classico», cioè un esempio di equilibrio positivo, di ordine, di pace non in senso rinunciatario e imbelle, ma nel senso romano di superamento di ogni insana agitazione, di forza perfettamente dominata, di capacità ad elevarsi virilmente ad una dignità superiore e ad un livello di vera universalità . Per il filosofo italiano, il Giappone altro non è che un paese/popolo, in cui è presente una unità assoluta tra morale, politica e religione, dove la fedeltà è la caratteristica principale di una civiltà che Evola non stenta adefinire dalla “personalità eroica”. Aspetti, questi, che non erano affattosconosciuti alla Roma imperiale. Vogliamo concludere con lo scritto breve che forse meglio sintetizza la grande visione anticipatrice dell’intellettuale italiano sull’Oriente: il suo intervento al convegno asiatico di Roma: ‘Oriente e Occidente’ . In questo contributo – che da orientalisti non imbevuti di modernità riteniamo essere una riflessione profetica sul rapporto tra queste due culture e sulla involuzione dell’Asia – Evola riassume il succo del suo pensiero su tale argomento. Egli inoltre loda proprio Benito Mussolini e la sua intelligente lettura di quello che potrebbe essere un sano rapportotra questi due continenti, alla insegna: “dell’idea fascista quale idea spirituale universale”. Evola non solo stigmatizza l’avvento in Asia delmaterialismo capitalistico-bolscevico, descrivendolo come: “oro senza patria”, ma anche lo sfruttamento da parte dell’Occidente di questi antichi popoli. Come in altri suoi scritti, egli spiega che tale desacralizzazione della civiltà ricadrà su di noi, in forma di un Oriente occidentalizzato, il quale ci batterà sul nostro stesso terreno della tecnologia. Per quanto concerne il nostro studio, vogliamo far notare come il filosofo veda sempre nel Giappone l’artefice di questa“vendetta” per un inquinamento spirituale della Tradizione asiatica aopera di una modernità di stampo occidentale. Ecco un chiaro esempio per cui egli non solo debba essere considerato anche un orientalista, ma per giunta di primissimo livello e dal grande intuito. Difatti, Evola ha non soltanto predetto con precisione l’avvento del colosso industriale nipponico degli anni ’60 – ’80 del Novecento, ma ha persino anticipato la rinascita del Dragone Cinese. Per quanto il Giappone dalla Restaurazione Meiji (1868) in poi abbia avuto un rapporto conflittuale con l’Occidente, culminato con la II Guerra Mondiale, questa millenaria civiltà è sempre stata divisa tra fascinazione e diffidenza verso di noi. Al contrario, la occidentalizzazione cinese degli ultimi anni presenta solo una voglia di riscatto e supremazia da parte della Cina, palesando la ricerca per una egemonia globale. Ben diversa è stata la situazione in Giappone, un paese che ci ha regalato figure artistiche e intellettuali di primissimo livello, sempre in bilico tra amore e rigetto dell’Occidente,come Tanizaki Jun’ichirō30 e, specialmente, Mishima Yukio.
Evola non conosceva il giapponese, ciononostante egli cercò lo stesso di avere un accesso “diretto” alle fonti originali, attraverso le traduzioni occidentali di importanti autori nipponici . Questo atteggiamento era tipico di Evola: egli in parte rifiutava le interpretazioni occidentali delle dottrine d’Oriente. Le rifiutava non solo poiché aveva capito come gli studiosi moderni siano soliti distorcere i concetti più basilari della Tradizione asiatica, ma principalmente per il fatto che sapeva quanto delle menti abituate alla cultura del tangibile non sarebbero mai state capaci di comprendere, figuriamoci poi di spiegare, quella sacra e spirituale visione del mondo che caratterizza da sempre buona parte dei popoli d’Asia e che, proprio come afferma l’orientalista italiano, li rende moralmente superiori a una razza bianca che riconosce nel denaro e nella tecnologia i suoi unici Dei.
Tratto da: Riccardo Rosati, Julius Evola e la Tradizione nipponica
Join the Discussion