ALLA BAIA
I
Mattina, molto di buon’ora. Il sole non era ancora spuntato e tutta la Baia di Crescent era nascosta sotto una foschia bianca che veniva dal mare. Dietro, le grandi colline boscose trasparivano appena: non si vedeva dove finissero, né dove cominciassero i prati e i bungalow. La strada sabbiosa era svanita, e così pure i prati e i bungalow sul lato opposto; più in là, le bianche dune ricoperte d’erba rossiccia non c’erano più; niente segnava più il confine tra mare e spiaggia. Era caduta una pesante rugiada. L’erba era azzurra, e grosse gocce pendevano dai cespugli, erano lì lì per cadere; il toi-toi argenteo e lanuginoso era fiacco sul suo lungo stelo, e tutte le calendule e i garofani dei giardini s’inchinavano fino a terra sotto il peso dell’umidità. Le fredde fucsie erano inzuppate, rotonde perle di rugiada indugiavano sulle foglie piatte dei nasturzi. Sembrava che il mare fosse avanzato furtivamente nell’oscurità, che un’unica immensa ondata fosse salita gorgogliando – fino a dove? Forse, se ti fossi svegliato nel mezzo della notte avresti potuto vedere un grosso pesce guizzare per un attimo davanti alla finestra…
Ah-aah! faceva il mare assonnato. E dai cespugli veniva il rumore dei ruscelletti che scorrevano rapidi e leggeri, scivolando tra le pietre lisce, inondando le conche di felci e uscendone di nuovo; si sentivano i goccioloni che si spiaccicavano sulle foglie larghe, e qualcos’altro – che cos’era? – un lieve agitarsi e scuotere, lo schiocco di un ramoscello che si spezza e poi un silenzio tale da credere che qualcuno ascoltasse.
Dal capo estremo della Baia di Crescent, tra gli ammassi di pietre, arrivò trotterellando un gregge di pecore. Erano tutte pigiate, una piccola massa sballottata e lanosa, e si muovevano in fretta sulle gambette sottili come bastoncini quasi che il freddo e il silenzio le avessero spaventate. Dietro, un vecchio cane da pastore con le zampe fradice e sporche di sabbia correva fiutando il terreno, ma distrattamente, come se pensasse ad altro. E poi anche il pastore apparve nell’apertura tra le rocce. Era un vecchio magro, diritto, con una giacca di bigello ricoperta di una ragnatela di goccioline, un paio di calzoni di velluto allacciati sotto il ginocchio e un largo cappello floscio con un fazzoletto blu legato intorno. Aveva una mano infilata nella cintura, e nell’altra stringeva un bastone giallo, ben levigato. E mentre camminava senza fretta, fischiava piano una canzoncina, come la voce remota di un flauto che risuonava triste e tenera. Il vecchio cane fece un paio delle sue solite capriole e poi si ricompose di scatto, vergognoso della propria spensieratezza, e per qualche passo camminò dignitosamente al fianco del padrone. Le pecore procedevano a piccoli balzi precipitosi; poi cominciarono a belare, e spettrali greggi lontani fecero eco dal profondo del mare: «Bee! Bee!». Per un bel po’, fu come fossero sempre allo stesso punto. Davanti a loro si stendeva la strada sabbiosa cosparsa di pozzanghere; di qua e di là gli stessi cespugli fradici e gli stessi steccati indistinti. Poi apparve qualcosa di immenso, un enorme gigante con la capigliatura sconvolta e le braccia protese. Era il grande albero della gomma davanti al negozio di Mrs. Stubb e il gregge fu avvolto da una folata che sapeva di eucalipto. Adesso nella foschia scintillavano larghe chiazze di luce. Il pastore smise di fischiare, si strofinò il naso rosso e la barba bagnata sulla manica bagnata e, aguzzando gli occhi, guardò verso il mare. Stava sorgendo il sole. Straordinaria era la rapidità con cui la bruma si diradava, correva via, si dissolveva sulla pianura bassa, levandosi a onde dai cespugli e scomparendo come avesse gran fretta di fuggire; grossi riccioli e volute si scontravano e s’incalzavano sotto l’avanzata dei raggi argentei. Il cielo lontano, di un azzurro puro e luminoso, si rifletteva nelle pozzanghere, e le gocce che scivolavano lungo i pali del telegrafo si trasformavano in punti luminosi. Ora il luccichio del mare saltellante era così forte che faceva male agli occhi. […]
VI
Su una poltrona di vimini, sotto un manuka che cresceva in mezzo al praticello davanti a casa, Linda Burnell passava la mattinata a sognare. Non faceva nulla. Guardava le fitte foglie scure e secche del manuka e gli squarci d’azzurro in mezzo alle foglie, e ogni tanto un minuscolo fiore giallo le cadeva addosso. Grazioso – sì, se tenevi uno di quei fiori nel palmo della mano e lo guardavi da vicino era proprio un piccolo capolavoro. Ognuno dei petali, di un giallo pallido, splendeva come se fosse stato la diligente opera di una mano amorosa. La minuscola linguetta nel centro gli dava la forma di una campana. E, al rovescio, era di un colore bronzo cupo. Ma, appena fioriti, quelli cadevano e si sparpagliavano dappertutto. Mentre chiaccheravi te li dovevi togliere via dal vestito; quei noiosi ti si impigliavano perfino nei capelli. Ma allora perché fiorire? Chi si prende la pena – o la gioia – di creare tutte queste cose sprecate… così? Era un mistero.
Sull’erba accanto a lei, steso tra due cuscini, c’era il bambino. Dormiva profondamente, con la testa rivolta dall’altra parte. I fini capelli scuri sembravano più un’ombra che capelli veri, ma l’orecchio era di un vivido rosso corallo. Linda intrecciò le mani sopra la testa e incrociò le gambe. Era bello sapere che i bungalow erano vuoti, che tutti erano giù alla spiaggia, lontani dagli occhi e dagli orecchi. Aveva il giardino tutto per sé; era sola.
Il bianco dei garofani era abbagliante, le calendule dagli occhi d’oro rilucevano, i nasturzi inghirlandavano i pilastri della veranda di fiamme verdi e dorate. Se soltanto si avesse il tempo di guardare quei fiori a lungo, il tempo di superare la meraviglia per la loro singolarità, di conoscerli davvero! Ma appena ci si soffermava a separarne i petali, a scoprire il rovescio della foglia, ecco che sopraggiungeva la Vita e ti portava via. Sdraiata sulla sua poltrona di vimini Linda si sentiva leggera leggera; si sentiva come una foglia. Ed ecco la Vita, come un vento che la afferrava e la scrollava; doveva andare. Oh, Dio, sarebbe stato sempre così? Non c’era scampo.
… Ora sedeva sulla veranda della sua casa in Tasmania, appoggiata alle ginocchia del padre. E lui le prometteva: «Appena tu e io saremo più vecchi, Linny, ce ne andremo via, scapperemo insieme. Come due ragazzi. Credo che mi piacerebbe risalire un fiume in Cina». E Linda vedeva quel fiume largo, largo, coperto di zattere e barche. Vedeva i cappelli gialli dei barcaioli e udiva le loro voci sottili e acute…
«Si, papà».
[…]
VII
Bassa marea; la spiaggia era deserta, il mare caldo si trascinava pigramente. Il sole ardeva, si abbatteva infuocato sulla spiaggia fine e arroventava i ciottoli grigi e azzurri e neri e venati di bianco. Succhiava le goccioline nascoste nella cavità delle conchiglie, schiariva i convolvoli rosa che serpeggiavano sulle dune. Sembrava che nulla si muovesse tranne le cavallette della sabbia. Pit-pit-pit! Non stavano mai ferme.
Laggiù, sugli scogli coperti di alghe che con la bassa marea sembravano animali villosi scesi ad abbeverarsi, la luce del sole pareva roteare come una moneta d’argento dentro ognuna delle piccole pozze nella roccia. Danzavano, tremavano, e minuscole onde lambivano i bordi porosi. Se guardavi giù, se ti piegavi sopra, ogni pozza era come un lago con casette rosa e azzurre assiepate intorno; e che meraviglia la vasta regione montagnosa dietro le case – i precipizi, le gole, le insenature e i pericolosi greti e sentieri che scendevano a riva. Sott’acqua ondeggiava la foresta marina; esilissimi alberi rosa, anemoni di velluto e alghe arancioni chiazzate di piccole bacche. Ora una pietra sul fondo si muoveva, oscillava, e s’intravedeva un tentacolo nero; ora una creatura filiforme passava fluttuando e spariva. Qualcosa stava accadendo agli alberi rosa e ondeggianti; diventavano di un freddo azzurro lunare. E ora si udiva un debole «plop». Chi faceva quel rumore? Che cosa succedeva laggiù? E che odore forte, umido, emanavano le alghe sotto il sole ardente…
Nei bungalow della colonia estiva le imposte verdi erano abbassate. Sulle verande, distesi sul prato o gettati sulle siepi, c’erano costumi da bagno dall’aria esausta e ruvidi asciugamani a strisce. Sul retro, ogni finestra aveva un paio di sandali sul davanzale, o dei frammenti di scoglio, o un secchiello, o una collezione di conchiglie. La boscaglia tremava in una foschia di calore; la strada sabbiosa era deserta; in mezzo, disteso, c’era soltanto Snooker, il cane dei Trout. Aveva gli occhi azzurri rivolti al cielo e le gambe allungate e rigide, e ogni tanto emetteva un gran sospiro desolato, come per dire che non ne poteva più, che aveva deciso di farla finita e che aspettava soltanto il passaggio di qualche carro.
«Che cosa guardi, nonna? Perché stai sempre ferma a fissare il muro?».
Kezia e la nonna facevano la siesta insieme. La bambina, in camiciola e mutandine, con le braccia e le gambe nude, era sdraiata su uno dei cuscini rigonfi del letto della nonna, e la vecchia, in una vestaglia bianca increspata, sedeva accanto alla finestra su una sedia a dondolo, con un lavoro a maglia di lana rosa in grembo. La camera che dividevano aveva, come tutte le altre stanze del bungalow, le pareti di legno chiaro e il pavimento nudo. I mobili erano semplici e miseri. […] Sul tavolo c’erano un vaso di garofani di mare, così pigiati da sembrare un puntaspilli di velluto, una conchiglia speciale che Kezia aveva regalato alla nonna perché le servisse da portaforcine, e un’altra ancora più strana che le era parsa l’ideale per tenerci dentro un orologio.
«Dimmelo, nonna» disse Kezia.
La vecchia sospirò, arrotolò due volte la lana intorno al pollice e c’infilò il ferro d’osso. Stava avviando le maglie.
«Pensavo allo zio William, cara» disse sommessamente.
«Lo zio William australiano?» domandò Kezia.
Ne aveva un altro.
«Sì, certo».
«Quello che non ho mai visto?».
«Proprio quello».
«Be’, che gli è successo?». Kezia lo sapeva benissimo, ma voleva che la nonna glielo raccontasse un’altra volta.
«È andato alle miniere, ha preso un colpo di sole ed è morto» disse la vecchia Mrs. Fairfield.
Kezia sbatté le palpebre e rivide l’immagine: un ometto che cadeva come un soldatino di piombo accanto a un grande buco nero.
«Diventi triste se ci pensi, nonna?». Non voleva che la nonna fosse triste.
La nonna rifletté. La rattristava? Guardare indietro, indietro, riandare agli anni passati come Kezia l’aveva vista fare. Custodirli come fa una donna, dopo tanto tempo che erano scomparsi. La rattristava? No, era la vita.
«No, Kezia».
«Ma perché?» domandò Kezia. Sollevò un braccino nudo e fece dei disegni nell’aria. «Perché lo zio William è morto? Non era mica vecchio».
Mrs. Fairfield cominciò a contare le maglie a tre a tre. «È andata così» disse con voce assorta.
«Ma tutti devono morire?» domandò Kezia.
«Tutti!».
«Anch’io?». Kezia sembrava terribilmente incredula.
«Si, un giorno, mia cara».
«Ma nonna!». Kezia agitò la gamba sinistra e mosse le dita del piede. Erano piene di sabbia.
«E se non voglio?».
La vecchia sospirò di nuovo e srotolò un lungo filo di lana dal gomitolo.
«Nessuno chiede il nostro parere, Kezia» disse con tristezza. «Prima o poi capita a tutti».
Kezia rimase immobile e rifletté. Non voleva morire. Morire significava dover andare via di lì, andare via da tutto, per sempre, lasciare… lasciare la sua nonna. Si girò di scatto.
«Nonna» disse con una voce piena di paura.
«Che cosa, cara?».
«Tu non devi morire». Kezia aveva un tono molto deciso.
«Ah, Kezia…». La nonna alzò gli occhi, sorrise e scosse la testa. «Non parliamo di questo».
«Ma tu non devi morire. Non puoi lasciarmi. Non puoi non essere qui». Era terribile. «Promettimi che non lo farai mai, nonna» supplicò. La vecchia continuava a lavorare.
«Promettimelo! Dì mai!».
Ma la nonna taceva.
Kezia rotolò fuori dal letto; non poteva più sopportare quella tensione. Saltò sulle ginocchia della nonna, le gettò le braccia al collo e cominciò a baciarla, sotto il mento, dietro l’orecchio, e le soffiò giù per il collo.
«Dì mai… dì mai… dì mai» ansimava tra i baci, e poi, piano, con dolcezza, cominciò a farle il solletico.
«Kezia!». La vecchia lasciò cadere il lavoro. Si buttò indietro sulla sedia e cominciò a farle il solletico anche lei. «Dì mai… dì mai… dì mai» gorgogliava Kezia, e tutt’e due ridevano, abbracciate. «Su, ora basta, scoiattolino! Basta, mio cavallino selvaggio!» disse la vecchia Mrs. Fairfield, raddrizzandosi la cuffia. «Raccoglimi il lavoro».
Entrambe avevano dimenticato a che cosa si riferisse quel «mai». […]
tratto da: Katherine Mansfield, The Garden-Party, trad. it. Floriana Bossi, Milano 1978.
Titolo originale The Garden-Party and Other Stories; prima edizione 1922.
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