New York “Ma come si dice, Mishìma o Mìshima?”. “Mìshima. Accento tonico sulla prima i. Anche lui non capiva perché in Europa lo chiamassero Mishìma”. Donald Keene sorride, ha un gesto come per dire: non ha importanza. Siamo nella sua casa di Riverside Drive, a Manhattan, che si affaccia sul fiume Hudson e su un panorama dei più limpidi della città. Keene, che insegna Letteratura giapponese alla Columbia University, è il massimo esperto americano delle opere di Mishima, del quale ha anche tradotto alcuni libri. Sta per partire per Napoli. “Ci conoscemmo nel 1954, a Tokyo”, dice Keene, “e non ci perdemmo più di vista. Io abitavo a Kyoto, a quell’ epoca. Andai a vedere un suo lavoro teatrale, una cosa tratta da una pièce del sedicesimo secolo, e volli conoscerlo. Poi sono andato spesso a casa sua, dove c’ erano sua moglie e i figli. Aveva due figli, una femmina, nata prima, e un maschio. Era una casa incredibile, di stile spagnolo, una di quelle case che oggi si trovano in Costa Rica. Non c’ era un solo oggetto giapponese in nessuna stanza. Aveva perfino un tavolo di marmo con pietre dure incastonate, opera di uno scultore italiano”. Era veramente così occidentalizzato come si dice? “Sì e no. Era attento alla cultura occidentale. Conosceva il tedesco e l’ inglese; il tedesco meglio dell’ inglese, che aveva imparato nella versione colloquiale. A volte si infatuava di un’ espressione e la usava dappertutto. Una parola che gli piaceva era monumental. Diceva monumental di ogni cosa. Ma leggeva anche il francese. Questo però non significa che fosse veramente occidentalizzato. A mio parere rimase sempre profondamente giapponese”. Non sentiva nessuna influenza particolare? “Non gli piacevano i francesi. Mauriac, per esempio, lo trovava troppo in gamba. Aveva più affinità con i tedeschi, Thomas Mann in particolare. La sua ultima opera, la tetralogia, Hojo no umi (Il mare della fertilità), ha il respiro de La montagna incantata. Però, avendo il gusto della lingua, traduceva, o meglio rivedeva certe traduzioni dal francese. Ripulì anche un lavoro in francese di D’ Annunzio, Le martyre de Saint Sebastien. E una cosa di Racine. Naturalmente conosceva Bataille, e per un poco prestò attenzione a Oscar Wilde. Qualcosa dell’ Europa, sì, filtrava anche nei suoi scritti”. Ma non nel teatro. “No, per il teatro si rifaceva alla tradizione giapponese. Al teatro dei pupazzi. E ovviamente i suoi Noh sono ricavati da riflessioni sul passato.
Mishima aveva questi due canali che gli davano ispirazione: il palcoscenico classico e la cronaca contemporanea. Uno dei suoi primi viaggi negli Stati Uniti fu l’ indomani della pubblicazione di cinque suoi Noh. Sembrava che si dovessero realizzare; poi mancarono i quattrini e Mishima ripartì”. Perché ha menzionato la cronaca? “Perché i suoi romanzi e racconti partono da fatti accaduti e riportati dalla cronaca. Gogo no eigo (Il sapore della gloria) sappiamo subito come va a finire. E così gli altri. Anche il primo romanzo”. Era ugualmente attratto dal teatro e dalla narrativa fin dall’ inizio? “Direi di sì. Il teatro forse racchiudeva le sue prime speranze, ma a 19 anni gli pubblicarono il primo libro, e poco dopo abbandonò l’ idea di diventare avvocato (era laureato in legge) e decise che avrebbe fatto soltanto lo scrittore. Una volta mi disse che per lui la letteratura era la moglie, il teatro era l’ amante.
Quando in Germania misero in scena il suo Madame de Sade, provò una delle più grandi soddisfazioni”. La sua opera maggiore è teatrale? “No. Mishima è al suo massimo in Kinkakuji (Il padiglione d’ oro). E’ un libro coraggioso. Non è facile sottopporre il lettore moderno a un’ apparente divagazione sulla filosofia Zen e non perderlo. Mishima ci riesce perché la materia fa parte della sua concezione di romanzo.
E’ forse il suo libro più colto; e anche quello in cui il vento dell’ Occidente si fa più sentire (Freud, per esempio). Ma rimane romanzo – un romanzo di Mishima, che è come dire qualcosa che va con la tradizione e insieme l’ avversa”. E’ per questo che non sopportava Dazai? “Osamu Dazai era il suo nemico. Sospetto che in parte fosse perché erano molto simili, ma Mishima diceva che era perché Dazai scriveva troppo di se stesso. Non bisogna scrivere di se stessi, diceva. Naturalmente, era una maschera. Mishima amava nascondersi”.
In Kinkakuji non si nasconde troppo. Non trova che la distruzione del tempio avvenga perché altrimenti il tempo ne sciupa la bellezza – che è il leit motif della sua vita? “Esatto. Il tempio è parallelo al suo corpo. Mishima, come sappiamo, aveva la massima cura del suo corpo.
Faceva esercizi, si irrobustiva i muscoli. Era un continuo. In piscina, ricordo, non entrava mai nell’ acqua: gli bastava farsi vedere in costume da bagno”. E’ così che si spiega la sua morte? “Mishima non voleva invecchiare, forse per la stessa ragione che lo addolorava il pensiero di un tempio che va in rovina. Non voleva che il suo corpo andasse in rovina. Gli dicevamo: ‘Ma da vecchio assapori altre cose. Forse scrivi tutto quello che non puoi scrivere da giovane’ . Non ci dava ascolto. Aveva deciso: sarebbe morto giovane”.
Non le sembra che, almeno da un punto di vista occidentale, questo indica una mente distorta? “Sì, ma non possiamo dimenticare che fin da ragazzo Mishima si nutriva di storie di samurai. Che cosa c’ è al centro di questa tradizione? Il samurai parte per vendicare l’ offesa subita dal suo signore, ma quando l’ ha vendicata (e non importa quanto tempo gli occorre, la vendica sempre) non ha altro da fare: fa hara-kiri. Mishima non aveva nessuna onta da lavare, però aveva in mente di scrivere un certo numero di libri (ne scrisse per 36 volumi), dopodiché era certo che si sarebbe dato la morte”. Lei non dà quindi molto peso all’ elemento politico? “Quasi nessun peso. La Società dello Scudo era composta di cento persone che avevano deciso di suicidarsi. Ma non erano una forza politica. Non erano niente. La sera prima della sua morte ero con Mishima. In tassì passammo davanti all’ edificio dove stavano discutendo il rinnovo del trattato di sicurezza Usa-Giappone. Mishima si aspettava una folla di protestatari. Ma non c’ era nessuno. Nessuno! Solo qualche poliziotto annoiato. Gli parve un affronto”. Lei non ebbe il presentimento che il giorno dopo… “No, tranne che per una cosa. Mishima andò a dormire a mezzanotte. Ci salutammo. Il mio aereo partiva alle 7 del giorno dopo. Mishima si alzò alle 6 e venne all’ aeroporto a vedermi partire. Era trasandato, non si era rasato. Se ebbi il presentimento della fine, fu allora: era venuto a salutarmi per l’ ultima volta”.
Era deluso? “No. Nel 1968 si aspettava il Nobel e lo dettero a Kawabata, e questo forse lo avvilì. Ma nel 1970 aveva deciso. Mi dette da leggere il quarto volume di Hojo no umi e io non volevo leggerlo perché non avevo letto i primi tre. Lui insisté. Era inferiore agli altri, scritto in fretta; ma era evidentemente il suo punto d’ arrivo. Mishima non sopportava di non poter dire nient’ altro”. Del resto l’ idea della morte dietro la maschera c’ è anche in un altro libro. “Sì, Kamen non kokuhaku (Confessioni di una maschera). Ma tutto il suo comportamento diceva morte. Nell’ estate del 1970 portò me e un altro amico a mangiare aragosta. Ordinò un pranzo per nove persone: come se ci volesse dare tutta l’ aragosta che poteva perché non aveva più molto tempo. E il giorno che venne a salutarmi (ho saputo dopo) entrò in un bar e disse ad alta voce: ‘Io non credo che si debba avere una morte stupida!, e se ne andò’ “. La sua opera reggerà al tempo? “Penso di sì. Ci fu un momento dopo la sua morte, almeno in America, in cui la sua politica lo mise in ombra. Ma oggi la gente lo legge di nuovo. La politica è stata sfrondata, e quello che rimane è un fior di scrittore. Avrei voluto dirlo al suo funerale. Mi dissero di non farlo. Ma è una cosa di cui mi pento. Forse lo dico a Napoli”.
“UN INCONTRO A NAPOLI E UNO SPETTACOLO A ROMA “Tra ironia e tragedia: ipotesi su Mishima Yukio”, è il titolo di un convegno organizzato dall’ Istituto Orientale di Napoli che si terrà lunedì prossimo, 28 aprile, a Palazzo Corigliano. Mishima, pseudonimo di Hiraoka Kimitake (Tokyo, 1925-‘ 70), si suicidò nella maniera tradizionale giapponese, il seppuku. Oltre a Donald Keene, intervistato in questa pagina, del controverso autore parleranno Bettina Knapp, docente della City University of New York, Giorgio Amitrano, della Sapienza di Roma, Franco Mazzei e Emanuele Ciccarella, dell’ Istituto Orientale di Napoli. Coordinerà i lavori Paolo Calvetti, che all’ Orientale insegna Lingua e letteratura giapponese. Tra i titoli più noti di Mishima: La foresta in fiore e La voce delle onde (Feltrinelli), Lo specchio degli inganni e Il tempio dell’ alba (Bompiani). Alla figura ambigua e affascinante dello scrittore Marguerite Yourcenar ha dedicato un saggio dal titolo Mishima o la visione del vuoto (Bompiani). Di Mishima è inoltre in programma questa sera al Teatro Vascello di Roma la prima messinscena italiana di Il mio amico Hitler, per la regia di Tito Piscitelli.”
Tratto da: Romano Giachetti,
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