La canapicoltura nel napoletano

Speranza e opportunità, tra terreni avvelenati e crisi occupazionale

Sosio Capasso nel suo libro “Canapicoltura e sviluppo nei comuni atellani” (Istituto di Studi atellani, 1994) riferisce della difficoltà di individuare l’origine della coltivazione della canapa. Poiché il processo di lavorazione della canapa è legato all’acqua, sicuramente la sua origine va ricercata là dove c’era un fiume o a un lago. Erodoto ci narra che nella lontana terra degli Sciti oltre il Mar Nero si trovava la canapa, un materiale molto simile al lino che i Traci coltivavano per realizzare vestiti. In Cina era conosciuta nel 500 a.C., ed è citata nello Shu-King , un classico della storiografia cinese. Gli Sciti la portarono in Europa intorno al 1500 a.C., spingendosi verso la foce del Danubio. In seguito si diffuse tra germani, i greci e i romani che la portarono in Gallia. Ai tempi dei romani importanti lavoratori di canapa erano i Miseni. Allora la canapa fu utilizzata soprattutto come cordigliera per la flotta imperiale. Dopo la distruzione di Miseno da parte dei Saraceni i cittadini del luogo si rifugiarono nell’entroterra e fondarono Fratta, l’odierna Frattamaggiore. La città è stata il cuore della produzione e della trasformazione della canapa. Con questo materiale si produssero corde e tessuti fino alla fine degli anni ’50 del ‘900. Fu allora, ben prima della crisi, che in questi comuni si sviluppò un’intensa attività legata alla canapa: talmente diffusa era la lavorazione della canapa che garage, villette e ogni tipo di edificio disponibile fu trasformato in un laboratorio.     La città è unita a Frattaminore, Grumo Nevano, Arzano, Casandrino Cardito, Caivano e Crispano da un’identità storica che risale molto indietro nel tempo: tutti questi comuni furono loci romani e poi casali medioevali, che sorsero sui resti dell’antica città osca di Atella, distrutta nel VII secolo. L’economia della canapa stimolò a tal punto gli abitati di allora che questi centri si configurano oggi come una’unica realtà urbana di circa 280.000 abitanti, su una superficie di 52,3 kmq, e con una densità media 3.977 ab/kmq. In quest’area, dunque, l’economia della canapa è un’attività millenaria che è stata capace di caratterizzare e trasformare il paesaggio.

Qui, l’elemento naturale di riferimento è l’antico fiume Clanio. È un fiume che aveva una caratteristica particolare: la portata decresceva durante l’inverno e aumentava alla fonte nei mesi estivi provocando nel mese di agosto delle piene che avvenivano proprio nel periodo della macerazione. Non solo, quindi, l’organizzazione della lavorazione della canapa lungo il fiume disponeva delle risorse necessarie a fini produttivi, ma era anche adatta alla bonifica del territorio. Infatti, il corso del fiume era costituito da margini irregolari con meandri e fiumiciattoli che s’impaludavano rendendo l’ambiente malsano e difficile agli insediamenti umani sin dall’antichità. Le erbacce che crescevano sul fondo e il crollo dei margini creava acquitrini malsani e infetti che obbligavano a una manutenzione continua. Nel 1312 un editto di Roberto d’Angiò ordinava alle popolazioni residenti in loco di eseguire a proprie spese i necessari lavori di sistemazione e di pulizia. I viceré spagnoli affidarono i primi lavori di bonifica all’architetto Giulio Cesare Fontana che realizzò un nuovo alveo e rettificò le sponde con l’aggiunta di piccoli corsi detti lagnuoli creando così un sistema di canali che da quel momento fu denominato “Regi Lagni”. All’inizio dell’ottocento furono effettuate nuove opere di bonifica con Murat, e in seguito, nel 1838, dopo particolari studi che riguardavano tutti i terreni malsani di Terra di Lavoro, furono eseguiti lavori di canalizzazione tra i Regi Lagni e il Lago di Patria sotto la direzione dell’ing. Vincenzo Antonio Rossi. Ai tempi dei Borboni il fiume era limpido e pescoso e una sua deviazione verso nord in direzione della reggia di Caserta era utilizzata per la navigazione. In seguito la deviazione che portava alla Reggia di Caserta fu interrata e divenne l’attuale viale Carlo III. Ciò che rimane dell’antico fiume Clanio oggi scorre sotterraneo e confluisce ancora nel Lago di Patria.

Un tempo, in questo territorio e nelle sue immediate vicinanze le acque del fiume venivano utilizzate per la macerazione di un altro prodotto tessile, il lino, che era coltivato anche nelle aree pedemontane della Collina dei Camaldolesi. Oggi i Regi Lagni sono stati largamente cementificati. I canali di cemento sono finalizzati alla raccolta delle acque piovane per l’irrigazione dei campi, ma raccolgono anche gli scarichi di acque reflue e di peggiore fattura e le convogliano a mare senza depurazione.
L’attività della coltivazione e lavorazione della canapa si sviluppò in modo particolare a partire dall’ottocento, quando furono realizzati maceri di varie grandezze, anche a notevole distanza dal Lagno, che erano connessi ad esso con apposite canalizzazioni. I maceri più piccoli sono collocati vicino alle case rurali. Qui, nei cicli di riposo dalla coltivazione di canapa, erano puliti e venivano utilizzati per l’allevamento di oche e anatre, oltre ad essere adibiti a peschiere dove si allevavano pesci tra quali tinche e carpe, che garantivano la purezza delle acque liberandole dagli insetti, in particolare dalle zanzare. Fu quello un periodo di trasformazione delle case rurali in vere e proprie aziende agricole: la loro estensione crebbe per accogliere gli operai e si realizzarono depositi per piante raccolte e lavorate. L’attività febbrile sarebbe proseguita per buona parte del ’900 fino all’inizio degli anni ’50 quando nei comuni atellani garage, villette e abitazioni di varie tipologie si andavano trasformando in laboratori senza nessun controllo urbanistico.

Nel recente passato l’Italia è stata la seconda nazione al mondo, dopo la Russia, per la produzione della canapa. Nel primo decennio del novecento si producevano 795.000 quintali annui su una superficie investita pari a 79.477 ettari contro i 3.440.570 quintali su 686.197 ettari della Russia. Alla produzione italiana contribuiva il napoletano con 89.000 quintali e la provincia di Caserta con 157.000 quintale; il resto era prodotto tra le provincie di Ferrara e di Bologna. Poi quest’industria fiorente cominciò a declinare. Negli anni settanta la produzione fu di soli 10.080 quintali su una superficie investita di 899 ettari. Il declino continuò inesorabile. La crisi comportò una forte disoccupazione, nel solo casertano vi furono coinvolti ben 40 comuni e, in particolare, nel napoletano, Frattamaggiore che era stata storicamente il cuore della produzione della canapa. All’origine del declino ci furono cause sicuramente legate all’introduzione sul mercato di fibre sintetiche e la rinuncia degli imprenditori di investire in nuove tecnologie; ma una parte della responsabilità va attribuita all’endemica disattenzione e miopia dei programmi di sviluppo del governo centrale e locale. A questa va aggiunta l’incapacità (o opportunità?) di distinguere nella lavorazione della canapa la sostanza che si coltiva a fini di produzione tessile e industriale da quella che si coltiva come sostanza stupefacente, di cui si ritrovano testimonianze dell’uso in questa forma fin dai tempi più remoti. Infatti, nel 1961 il governo italiano sottoscrisse la convenzione internazionale detta “Convenzione unica sulle sostanze stupefacenti”, a cui seguirono quelle del 1971 e del 1988, con l’obiettivo di far scomparire la canapa dal mondo (entro 25 anni dall’entrata in vigore delle convenzioni). In realtà si è creò allora una totale confusione tra “Cannabis sativa” da cui si ricavano le fibre e la “Cannabis indica” dalla quale si ottengono marijuana, hashish e altre droghe. La confusione creò danni enormi alla produzione della cannabis sativa e all’economia ad essa legata. Infatti in quegli anni, era il 1966, la società inglese “ Techical Association of the Pulp and Paper Industry” raccomandava la coltivazione della canapa per la fabbricazione della carta. Le cartiere italiane avrebbero potuto assorbire 500.000 quintali di produzione su una superficie pari a 22.000 ettari: uno sviluppo economico importante (soprattutto per le province di Napoli e Caserta), se si considera che oggi l’Italia spende intorno ai 2.000 milioni di euro annui per importare pasta di legno per fabbricare carta. Contemporaneamente, negli anni delle convenzioni che si andavano a sottoscrivere, in Italia si fecero ricerche per ricavare la carta dalla canapa. Ricerche che nel 1977 ottennero a tal fine un contributo dalla Comunità Europea. È stato infatti dimostrato come dalla canapa si ottiene una carta migliore perché i trattamenti chimici necessari sono meno aggressivi. Inoltre, rispetto alla produzione ottenuta con gli alberi, la canapa contiene un 33 per cento in più di cellulosa degli alberi e impiega 120 giorni a ricrescere rispetto ai 50 anni degli alberi. Un ritorno alla produzione di canapa presenta altri aspetti positivi. Oggi la coltivazione della canapa è strategica per il nostro territorio, la storica “Terra di Lavoro”. Essa permette di “depurare” a basso costo i terreni dai metalli pesanti che costituiscono i principali elementi che hanno avvelenato questa terra tra il casertano e il napoletano e in particolar modo lungo quella fascia che corre lungo i Regi Lagni. Le ricerche sulle proprietà della canapa hanno dimostrato, per esempio, che radici, fusto e foglie succhiano anche lo zinco rilasciato nell’ambiente dalla presenza di concerie e acciaierie.  Dalla raccolta si possono ottenere prodotti d’indirizzo energetico come, per esempio, la produzione di etanolo. Inoltre, attraverso il nuovissimo processo Pro.e.satm. – una tecnologia il cui primo prototipo è stato realizzato in Piemonte dalla Mossi & Ghisolfi, multinazionale della chimica tutta italiana che negli ultimi anni ha deciso di investire in ricerca – è possibile produrre carburante verde di nuova generazione in alternativa alle biomasse alimentari come zucchero di canna o mais, evitando così il loro aumento di prezzo sul mercato. La fibra è anche utilizzabile in edilizia nella realizzazione di panelli per l’isolamento energetico e di pannelli fonoassorbenti. E qui siamo entrati in un altro tema importante qual è quello del risparmio energetico. Per ora, data l’attuale scarsità di fibra di canapa, essa è mescolata con altre fibre naturali di importazione che provengono dai paesi in via di sviluppo, come il kenaf e la iuta.La coltivazione della canapa ha una filiera lunga. Oltre alla carta, all’uso nei processi di decontaminazione dell’ambiente, al carburante verde, alle applicazioni in edilizia, la canapa si trasforma in fibre per corde, tessuti, legno e geotessili a uso forestale per le applicazioni d’ingegneria naturalistica e la produzione di bioplastiche riciclabili in sostituzione dei derivati del petrolio.  Intanto le ricerche vanno avanti e la diffusione della produzione di canapa, oltre che a vantaggi economici in termini di uso industriale, commercializzazione e creazione di lavoro porterà certamente a nuove applicazioni e nuove prospettive.

 

 

di Antonio Guarino | Feb 2013

 

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