Viaggio nel napoletano attraverso l’antica economia della pasta
A Torre Annunziata un modello produttivo e industriale frutto di un’antica cultura che aveva il suo punto di forza nelle risorse ambientali locali e le trasformava in ricchezza. Quella della pasta è un’attività produttiva che è espressione delle caratteristiche paesaggistiche e delle risorse del luogo. Elabora la cultura millenaria dei cereali e dei suoi trasformati, presente nella storia del Mediterraneo, e la trasforma in qualcosa che non è solo un semplice prodotto agroalimentare ma un atto creativo che coinvolge tutto un popolo.
Furono gli arabi a inventare la pasta secca. Essi escogitarono la tecnica dell’essiccazione dopo l’impasto per rifornirsi di scorte alimentari durante gli spostamenti lungo il deserto (“pasta” in lingua araba si dice “makkaroni”). Nella Sicilia araba del XII secolo il geografo Derisi parla di una fabbrica a Trabia, vicino a Palermo, che esportava pasta nei paesi cristiani e mussulmani.
La pasta secca è popolare: è un modo comodo di conservare derrate non solo durante i viaggi ma anche in caso di tempi difficili. I mercanti genovesi diffusero la pasta secca siciliana nel nord del Mediterraneo e aprirono la produzione anche in altri luoghi.
Per le sue caratteristiche tecniche produttive e nutrizionali la pasta divenne ben presto un alimento moderno, tale da diffondersi tra la seconda meta dell’ottocento e il novecento in tutto il mondo.
In epoche più recenti, la qualità della pasta è migliorata, grazie al ritorno alla produzione con farine “storiche”. Il segreto sta nella combinazione della giusta quantità di granaglie pugliesi con quelle proveniente dalla Crimea, il Taganrog. Un grano duro che gli antichi romani chiamavano triticum durum e da cui ricavavano una farina, detta simila, che Vespasiano aveva importato dalla Crimea e che in antichità era coltivata in Siria e in Palestina.
I mercanti importarono questo tipo di grano facendolo arrivare nei porti di Genova e Napoli e consentendo così di elaborare prodotti alimentari di grande qualità. È a partire dal XVI secolo che lungo la costa napoletana, ai piedi del Vesuvio tra Portici e Gragnano, si sviluppa un’intensa produzione di pasta secca.
In seguito alle disgrazie di Amalfi, città produttrice di pasta, prima conquistata dai Normanni e poi saccheggiata dai pisani fra il 1135 e il 1137, nelle guerre in cui furono a lungo coinvolte le repubbliche marinare, e poi distrutta da un maremoto nel 1343, i suoi abitanti s’insediarono lungo la costa intorno all’attuale Torre Annunziata e Gragnano dove ripresero l’attività di pastai.
In questi luoghi le acque provenienti dai Monti Lattari e raccolte dal corso del fiume Sarno permettevano la realizzazione di mulini idraulici per macinazione delle semole.
A Gragnano fu sviluppata la pratica di essiccazione che consisteva nel portare i maccheroni appena trafilati prima nelle grotte a zero gradi e poi al sole di mezzogiorno. Un’escursione termica che consentiva alla pasta una lunga conservazione.
Quello che rende straordinaria l’impresa dei pastai, in particolare a Torre Annunziata, è che in essa sono coinvolti l’intera città e tutta la cittadinanza.
La forma stessa delle strade e delle case si adatta a questo lavoro collettivo, quasi a plasmarsi e fondersi in un tutt’uno con esso. Infatti, quando nel ‘500 fu tracciato il canale del Conte dal famoso architetto Fontana, che raccoglieva le acque dal bacino del fiume Sarno e le trasportava fino a Torre Annunziata, lungo il percorso furono realizzati i mulini idraulici. Questo consentì la produzione delle farine necessarie in prossimità della città.
Dopo la foggiatura, che veniva fatta attraverso la trafilatura oppure a mano, arrivava la fase dell’essicazione della pasta. Questa era un’arte raffinata che doveva essere ben controllata nei salti di temperatura da caldo a freddo. C’è un senso quasi di magia alchemica in quello che insegnavano i maestri pastai quando esortavano i loro allievi a imparare bene l’arte quando dicevano che: “La pasta si fabbrica con lo scirocco e si asciuga con la tramontana”. Torre Annunziata era caratterizzata dall’avere venti caldi provenienti dal Vesuvio e venti freschi provenienti dal mare; condizioni microclimatiche particolari che cambiavano quattro volte a giorno; e un sole straordinario, com’è quello meridionale.
La città di Torre Annunziata nasce e si sviluppa, quindi, interpretando e potenziando queste qualità ambientali in funzione economica e produttiva: punta cioè sulle sue caratteristiche climatiche e meteorologiche e ambientali e le trasforma, attraverso l’impasto sapiente di semole di grano, in una ricca varietà di paste di forme e grandezze diverse e perfino sorprendenti. Nei cataloghi di fine ‘ottocento si contano oltre 200 varietà di pasta. Si distinguono paste fini, come fidelini, vermicelli, acini di pepe, e paste doppie tra cui maccaroni, lavagnette e ricci di foretana.
I vicoli si dispongono per accogliere i venti, così come le aperture dei depositi e dei cortili e i terrazzi e i marciapiedi si dispongono per accogliere il sole. L’impianto medievale, costituito da edifici bassi con fondachi e vicoli organizzati per la produzione della paste, si trasforma in architetture e sistemazioni urbane in cui gli edifici e le strade sono pensate anche per accogliere e favorire il forte sviluppo produttivo legato alla produzione della pasta. Le strade sono larghe, con ampi marciapiedi esposti a sud, gli slarghi e le piazze sono disegnati per accogliere il sole e i venti. Gli spazi sono realizzati per il processo di prosciugamento e per le attività commerciali. I palazzi sono costituiti da tre piani, con ampi androni e scale cui si collegano abitazioni, terrazze e ballatoi per stendere la pasta.
La città è un pullulare di ruoli professionali: capipastaio (ù ‘mpastatore), insaccatori, tiracanne, sfilacanne, appenditori, asciugatori, impastapasta, tutti addetti al ciclo strettamente produttivo che consiste nell’impasto delle farine, nella trafilatura e in generale nella formatura e nella fase di essicazione dove la pasta era appoggiata alle canne le quali erano poi condotte nei luoghi dell’essicazione.
Innumerevoli erano in città le figure professionali che partecipavano a questa grande impresa: commercianti, mugnai meccanici addetti alle riparazioni delle macchine, falegnami, facchini, marinai. Il mare, con il suo porto, consentiva l’arrivo delle materie prime e l’esportazione dei lavorati. Nel 1883 erano presenti in città ben 73 pastifici distribuiti prevalentemente nel centro abitato sia lungo la costa, sia lungo le pendici del Vesuvio.
Lo sviluppo degli opifici pastai è il risultato della crescente domanda e dei rapidi e sostanziali cambiamenti della tecnologia. Dalle forme primitive della lavorazione basata sulla forza umana, si passa alle macchine idrauliche e a quelle a vapore con motori a pistone. Interessante è ripercorrere alcuni modelli di macchine impiegate nelle diverse fasi di produzione della pasta: il torchio di legno detto ‘o ‘gegno, le gramole a rullo con movimento a mano, il taglia penne a mano e a motore, l’impastatrice a mano e a motore, la raffinatrice e la laminatrice. Frutto, tutto ciò, dell’ingegno umano che si espresse durante la rivoluzione industriale. Con l’avvento dei mulini a motore, sia vapore che a gas, essi entreranno in città e verranno collocati vicino alle fabbriche. Un processo produttivo straordinario in cui, tuttavia, sono presenti tutte le contraddizioni sociali dell’epoca.
Le condizioni lavorative, però, sono difficili: la manodopera è a bassissimo costo, dilaga il lavoro infantile, le condizioni igieniche sanitarie sono oltre i limiti della tolleranza.
A Torre Annunziata si sviluppa allora un movimento operaio che si organizza prima, nel 1883, con la Società del Mutuo Soccorso, e dopo, nel 1891, con la Camera del Lavoro. Organizzata in quegli anni in quattro leghe – metallurgici, pastai, mugnai e falegnami -, la Camera del Lavoro divenne in quegli anni una vera roccaforte delle lotte operaie.
Nuovo impulso venne alla produzione della pasta in seguito all’immigrazione italiana di fine ottocento, quando con il nuovo secolo la pasta si diffuse in particolare negli Stati Uniti d’America. La pasta contribuì a creare, dopo l’unità d’Italia realizzata qualche decennio prima, l’identità nazionale e l’immagine dell’italianità nel mondo.
Dalla fine del settecento alla prima metà del novecento la produzione della pasta è migliorata e si è adattata alle condizioni del mercato e alle nuove tecnologie. Tra mille difficoltà. L’industria pastaia ha dovuto superare una prima crisi, quando nel 1917 era pressoché scomparso il Tangaron, che veniva consumato esclusivamente nelle lontane terre della Russia, colpita da una forte carestia che era arrivata a cancellare completamente la coltivazione del prezioso cereale. Si è adattata al processo difficile del passaggio dalle lavorazioni manuali a quelle idrauliche e a vapore. È riuscita a sopravvivere ai limiti commerciali e di produzione imposti dal governo fascista.
Ma ciò che mise veramente in ginocchio questa grande avventura economica e umana fu l’invenzione di una macchina continua che consentiva tutte le fasi di produzione, in qualsiasi luogo e in qualsiasi situazione ambientale. Tale radicale mutamento tecnologico colpì a morte l’anima di quest’attività.
Tutta la magia di un prodotto che aveva radici profonde ed era diventato parte costitutiva di un paesaggio esclusivo e particolare scomparve. Vennero a mancare così dal paesaggio urbano tutti quegli elementi costitutivi della economia di un prodotto che dall’ambiente di cui era parte prendeva proprio quell’acqua, quel sole, quei venti e quel mare.
Il modello produttivo e industriale che aveva il suo punto di forza nelle risorse ambientali locali – acqua, sole, vento – e trasformava in ricchezza questi elementi naturali rispettandoli e valorizzandoli, lasciò il posto a una visione economica che, prescindendo dai caratteri locali, ha trasformato il territorio senza rispettarlo, considerandolo come un dis-valore, come elemento altro, come luogo da saccheggiare e avvelenare.
di Antonio Guarino | Maggio 2013