Dopo che Waa’ku-ni ebbe creato la Terra, tracciò dieci solchi con le sue dita e seminò i dieci suoni delle parole. Quando venne la primavera, in ogni solco crebbero fiori rossi e blu e gialli e bianchi e neri e Waa’ku-ni li chiamò Ta-wa-tè. Ma fra un solco e l’altro Waa’ku-ni vide piccoli steli nudi senza fiori e senza foglie. Egli sapeva di non averli seminati e capì che erano i fiori del silenzio.
Mandò sulla Terra suo figlio Wo’ke e gli disse: «Va’ a coltivare i Ta-wa-tè». Wo’ke bagnò i fiori con la pioggia del suo sudore e i Ta-wa-tè crebbero alti e forti e portarono molti germogli. Ma anche le piante fra i solchi crebbero più numerose e un giorno Wo’ke, per paura che finissero per invadere i solchi dei Ta-wa-tè, decise di sradicarle. Ma per ogni fior di silenzio che strappò dalla terra, un Ta-wa-tè perse il suo colore.
«Che devo fare?» chiese a suo padre Wo’ke. «Lasciali stare» disse Waa’ku-ni «perché ogni fior di suono deve aver accanto un fior di silenzio».
Quando i fiori furono grandi come un uomo, Waa’ku-ni disse a Wo’ke: «Ora fai tanti mazzi di Ta-wa-tè quanti sono gli uomini e le donne della Terra e ne darai uno a ciascuno e dirai loro di fare le parole. E poi farai tanti mazzi di fiori del silenzio e ne darai uno a ciascuno e dirai loro di farne i silenzi». Wo’ke così fece e gli uomini e le donne poterono parlare insieme.
Gli indios Patonà della sponda sud del Rio de las Almas raccontano una leggenda che fu raccolta da Randolph Reich e riportata nella sua Botanical Psychogenesis6.
«In un folto bosco di larici su un’isola del delta del Rio, viveva una cattivissima volpe bianca che si chiamava Sipa. Perché non mangiasse le loro galline, gli indiani avevano piantato, sotto i sacri larici, un paletto, al quale legavano, ogni sera, un tucano. Ogni notte la volpe si portò via il tucano.
«Una mattina il tucano era ancora là, legato al paletto e la volpe non apparve. Gli indiani, credendo che la volpe fosse morta, attesero ancora un giorno e poi misero in libertà l’uccello. Ma, quando vollero levare il paletto, non ci riuscirono in nessun modo. Ne parlarono con lo sciamano del villaggio e questi disse: “Lasciate stare il paletto che contiene la vita della volpe Sipa”.
«Una notte un cacciatore, passando vicino al bosco, sentì dei lamenti. Si avvicinò e scoprì che era il paletto che piangeva. Allora lo sciamano radunò la gente del villaggio che si sedette intorno al paletto piangente e invocò l’anima della volpe morta. A poco a poco il paletto cominciò a emettere germogli e altre escrescenze dure come il legno, e ogni volta che ne spuntava una, smetteva di piangere. Quando fu tutto coperto di germogli e di bitorzoli e di escrescenze, il paletto smise di piangere del tutto.
«Da allora ogni anno gli indios portano un tucano morto al paletto, e quello durante la notte se lo mangia».
L’isola di Taokee è un gran sasso tondo, piatto e calvo che galleggia in mezzo alle altre isole dell’arcipelago delle Baratonga, situato nel Pacifico alla latitudine 19° S e alla longitudine 161° O. Nelle poche crepe vi è una polvere grigia finissima ma pesante, che neanche il vento di marzo riesce a sollevare. Quando il mare è in burrasca, gli spruzzi d’acqua s’impastano con la polvere formando uno stucco plumbeo che a poco a poco riempie le crepe. Fra pochi decenni l’isola non avrà neppure un poro.
Una volta un passero del tipo Espak, probabilmente smarrito da un veliero che costeggiava lungo le isole, volò sopra l’isola, ma non vi si posò. Dal cielo lasciò cadere alcune gocce dei suoi escrementi verdi. Hermann von Bockensteil, l’unico esploratore che osò mettere piede su Taokee alla fine del secolo scorso, descrisse le piccole macchie come un lichene Klapaname – il solo segno di vita sull’isola.
Per gli indigeni che abitano le isole vicine, gli Antonà, Taokee è tabù. Non avvicinano le loro canoe anche se sanno che sotto il grande sasso galleggiante trovano rifugio enormi quantità di piccole trementidi che, per il sapore dolce della loro carne, sono molto ricercate dai pescatori dell’arcipelago.
La leggenda che spiega il tabù fu narrata da Samuel Doncett, quell’estroso ma coscienzioso cronista ed elatologo inglese che nell’estate del 1907 visitò tutte le Baratonga. Egli aveva sentito la storia da un indigeno della vicina isola Tsa-wa, Sep’a-nok. Il racconto che qui riportiamo, fu tradotto dal manoscritto di Doncett, che si trova nella biblioteca dell’Università di Hawaii.
«Sep’a-nok appoggiò le labbra al grande sasso che si erge nella piazza del villaggio di Tsa-wa. Gli Antonà compiono questo gesto per significare l’assoluta verità di quel che stanno per raccontare. Questa specie di bacio-giuramento viene effettuato in posizione d’inchino. Vi è, infatti, a un metro e venti da terra, una concavità liscia nella pietra, che porta la muta testimonianza di migliaia di racconti fatti da molte generazioni d’indigeni. (La pietra, che gli Antonà chiamano Tā, si trova ora al Museo Antropologico di Honolulu) (TAV. XXX).
«Ed ecco quel che mi disse Sep’a-nok.
«“Il gran disco O, padre di tutti gli esseri viventi, lanciò nel mare 18 manate di terra. Così nacquero le 18 isole Baratonga. Con l’argilla che gli era rimasta fra le dita O fece una forma piatta e tonda come un pat-la e la lanciò più lontana e questa è l’isola di Taokee. Ma la terra di Taokee era lo sporco della mano del Gran Disco e perciò era più fertile di quella delle altre isole del gruppo e così da essa crebbero molti erbaggi e molti alberi.
«Un giorno ci fu un gran maremoto e Taokee si capovolse. Le piante rimasero appese a testa in giù e le radici coprivano la terra e presto morirono. Anche le formiche e gli uccelli cercarono invano di camminare sott’acqua con le gambe all’insù, ma morirono anch’essi, affogati. Quando O vide tutto questo disse: “Ak se tikonà” e le radici morte caddero in polvere. Poi disse: “A’se naré!” e la pioggia venne e la polvere si trasformò in pietra. Poi disse ancora: “Se-na nuaròa!” e da un buco che era rimasto nel mezzo dell’isola cominciò a crescere una pianta. Era un fusto vigoroso ma con tutti gli sforzi che fece non riuscì a crescere il pur minimo germoglio. Si mise a piangere e il Gran Disco ascoltò il pianto e disse: “Sua nè poa!” e la pianta si addormentò. Fece uno strano sogno. Sognò di essere circondata da se stessa e di essere così numerosa da coprire tutta l’isola. Quando O vide il sogno disse: “Chi sveglierà il fiore dal suo sogno sarà divorato dal drago He-Kà”. E così, per non svegliare la pianta, l’isola fu tabù e nessuno vi ha mai più messo piede”.
«Quando ebbe finito il racconto, additai la lontana isola deserta e chiesi a Sep’a-nok: “Ma allora tu pensi che nel mezzo dell’isola vi sia quella pianta?” L’indigeno mi guardò meravigliato e disse: “Ma non vedi che l’isola è tutta coperta da piante invisibili?”
«Oggi gli indigeni di Tsa-wa qualche volta fermano la loro Chevrolet vicino al posto dove una volta si ergeva Tā, la pietra della verità, e dove ora si trova un semaforo; baciano la colonnina di ferro e raccontano ai loro figli la leggenda della solea di Taokee».
Tratto da: Leo Lionni, La botanica parallela, Roma 2012. Prima edizione 1976