In Messico, vicino a Oaxaca, c’è un albero che si dice abbia duemila anni d’età. È noto come «l’albero del Tule». Avvicinandomi, sceso da un torpedone di turisti, prima ancora che l’occhio distingua, è come una sensazione minacciosa che mi prende: come se da quella nuvola o montagna vegetale che si profila nel mio campo visivo venisse l’avvertimento che qui la natura, a lenti passi silenziosi, è intenta a mandare avanti un suo piano che non ha nulla a che fare con le proporzioni e dimensioni umane.
Sto già per dare un’esclamazione di meraviglia confrontando la mia visione col concetto d’albero che finora mi è servito a unificare tutti gli alberi empirici che ho incontrato, quando m’accorgo che quello che sto guardando non è l’albero famoso ma un altro della sua stessa schiatta cresciuto non lontano, certo un po’ più giovane e un po’ meno mastodontico, dato che la guida non ne parla. Mi volto: l’albero del Tule propriamente detto me lo vedo lì all’improvviso come fosse spuntato in quel momento. Ed è un’impressione tutta diversa da quella che m’andavo preparando. L’estensione quasi sferica della chioma che sovrasta la spropositata ampiezza del tronco fa apparire l’albero quasi tozzo. La mole s’impone all’occhio prima che l’altezza.
«L’albero del Tule» misura quaranta metri d’altezza, dice la guida, quarantadue metri di perimetro. Il suo nome botanico è Taxodium distichum, il nome messicano sabino.
Appartiene alla famiglia dei cipressi ma non somiglia affatto ad un cipresso; è un po’ come una sequoia, se questo può servire a dare un’idea. L’albero sovrasta una chiesa dell’epoca coloniale, Santa Maria del Tule, bianca con fregi geometrici rossi e blu, come in un disegno infantile. Le fondamenta della chiesa rischiano d’essere sgretolate dalle radici dell’albero.
Visitando il Messico ci si trova ogni giorno a interrogare rovine e statue e bassorilievi preispanici, testimonianze d’un inimmaginabile «prima», d’un mondo irreducibilmente «altro» dal nostro. Ed ecco, qui c’è un testimonio che ancora vive e che già viveva prima della Conquista, anzi prima ancora che si succedessero sugli altipiani olmechi e zapotechi e mixtechi e aztechi.
Al Jardin des Plantes di Parigi ho sempre guardato con meraviglia lo spaccato d’un tronco di sequoia pressapoco della stessa età, esposto come un compendio della storia universale: i grandi fatti storici da duemila anni a questa parte sono segnati su piccole placche in rame inchiodate ai cerchi concentrici del legno databili alle epoche corrispondenti. Ma mentre quello è il relitto d’una pianta morta, questo, l’albero del Tule, è un essere vivo, che appena dà segno di fatica nel trasportare linfa alle foglie. (Per supplire all’aridità della terra, lo alimentano con iniezioni d’acqua alle radici.) Certo è il più vecchio essere vivente che mi sia capitato d’incontrare.
Scanso i turisti giapponesi che camminando a ritroso o rannicchiandosi cercano di far entrare il colosso nei loro obiettivi, m’avvicino al tronco, gli giro intorno per scoprire il segreto d’una forma vivente che resista al tempo. E la mia prima sensazione è quella d’un’assenza di forma: è un mostro che cresce – si direbbe – senz’alcun piano, il tronco è uno e molteplice, come fasciato da colonne d’altri tronchi minori che sporgono addossati al mastodontico fusto centrale o se ne distaccano quasi volessero farsi credere radici aeree calate giù dai rami come ancore per ritrovare la terra, mentre invece sono proliferazioni delle radici terrestri cresciute verso l’alto. Il tronco sembra unificare nel suo perimetro attuale una lunga storia d’incertezze, geminazioni, deviazioni. Come scafi che non riescono a prendere il largo, sporgono dal tronco travature orizzontali mozzate mille anni fa mentre stavano dando vita a una biforcazione della pianta e che hanno perso ogni memoria di quella loro prima intenzione, per diventare corte protuberanze gibbose. Da gomiti e ginocchi di rami sopravvissuti al crollo in epoche remote, continuano a staccarsi rami secondari anchilosati in una scomoda gesticolazione. Nodi e ferite hanno continuato a dilatarsi proliferando gli uni in bitorzoli e concrezioni, protendendo le altre i loro margini lacerati, imponendo la loro singolarità come il sole attorno al quale s’irradiano le generazioni delle cellule. E sopra tutto questo, inspessita, incallita, cresciuta su se stessa, la continuità della scorza che rivela tutta la sua stanchezza di pelle decrepita e insieme l’eternità di ciò che ha raggiunto una condizione così poco vivente da non poter più morire.
Vuol dire che il segreto del durare è la ridondanza? Certo è ripetendo innumerevoli volte i propri messaggi che l’albero si garantisce contro il continuo incombere d’accidenti mortali sulle singole sue parti, e così riesce a imporre e a perpetuare la sua struttura essenziale, l’interdipendenza di radici e tronco e chioma. Ma qui siamo oltre la ridondanza: ciò che mi preoccupa mentre giro intorno all’albero del Tule è la disponibilità della morfologia a cambiare i propri ruoli, è lo sconvolgimento della sintassi vegetale: radici che salgono verso l’alto, segmenti di rami diventati tronco, segmenti di tronco nati dalla gemma d’un ramo. Eppure il risultato, visto a distanza, è sempre ancora un albero, – un super-albero – con radici tronco chioma al posto giusto – super-radici, super-tronco, super-chioma –, come se la sintassi sconvolta si ristabilisse a un livello superiore.
È attraverso un caotico spreco di materia e di forme che l’albero riesce a darsi una forma e a mantenerla? Vuol dire che la trasmissione d’un senso s’assicura nella smoderatezza del manifestarsi, nella profusione dell’esprimere se stessi, nel buttar fuori, vada come vada? Per temperamento ed educazione sono sempre stato convinto che solo conta e resiste ciò che è concentrato verso un fine. Ora l’albero del Tule mi smentisce, vuol convincermi del contrario.
L’intervista all’albero è ora che dovrebbe cominciare, ma già i turisti giapponesi hanno scattato i loro vani fotogrammi e hanno smesso di formicolare intorno al gigante. Anch’io devo riprendere il mio posto nel torpedone che riparte per le rovine mixteche di Mitla.
Tratto da: Italo Calvino, Collezione di sabbia, Mondadori
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