Quando trovo il nome di William Hogarth, sento subito che la cosa mi riguarda. In questi richiami misteriosi bisogna vedere il lavoro di una superiore necessità che mette a contatto al momento giusto le nature affini o destinate ad agire in qualche modo le une sulle altre, pronta ad irritarsi se le sue disposizioni non vengano osservate.
Aperto il volume Il Simbolismo del Tempo, appena sgusciato dall’uovo cosmico presso il Centro internazionale di Studi umanistici (regìa dotta e arte ostetrica di Enrico Castelli), ecco il nome di Hogarth, in un saggio di Hans Sedlmayr intitolato La Morte del Tempo. Mi fermo qui, invitato da Hogarth e dal suo cane Trump all’apertura di un simpatico testamento.
Grazie al suo Testamento del Tempo, Hogarth sale su un’eminenza metafisica grossa almeno quanto una delle mostruose parrucche dei suoi giudici o il lombo di bue sbarcato da buona nave inglese che un frate ingordo tocca col dito estatico nella Porta di Calais. E la metafisica hogartiana è in armonia con tutto il resto: il razzo finale di una serie di scoppi spietati all’interno dei mores di una civiltà complicatissima.
La casa che crolla, sfrollata dall’alcool come ogni frammento d’uomo, nel Vicolo del Gin, è il piedestallo adeguato del suo sistema, che trova analogie in tutto quello che non tiene, che casca subito: gridolini di vergini e foie di seduttori, matrimoni ben combinati, parlamenti, tribunali, ospedali, prediche, candidature, eroismi, carriere mondane, ore del giorno, furori e fiamme della notte… tutto quel che sta al fisso come le mutande di un obeso al bacino di uno scheletro. Hogartianamente, il meglio della tenuta è ascrivibile alla corda per impiccare a Tyburn.
Poco prima di scomparire, in una nube di onori, opere buone, quattrini e crudeltà figurate, sotto una pietra del cimitero della parrocchia di Chiswick, Hogarth sigilla il suo lavoro di pittore e incisore con una visione escatologica, in cui il Tempo, esalando l’ultimo respiro, nomina suo esecutore testamentario unico il Caos, testimoni invisibili dell’atto le tre Parche. Sul foglio arrotolato che gli scivola dalla mano, prima di Chaos, il Tempo moribondo aveva scritto God. Ma Dio è cancellato da un tratto di penna senza pentimenti. Unico Executor, giusto ripensamento, è dichiarato il Caos. Non si sa se God sia stato scritto distrattamente, per pigra abitudine, e subito corretto da un lampo successivo, o se l’altalena Dio-Caos riveli una suprema lacerazione del cuore agonizzante del Tempo. Nella scelta finale hogartiana, è indicata e prevista la scelta finale dell’uomo: non Dio, Caos.
Ma il Caos di un vero artista non è il tòhu-vabòhu, l’informe, il collassato, il buio e il vacuo del secondo versetto della Genesi: il Caos illustrabile (poeticamente abitabile) è sempre una disposizione armoniosa, un progetto dell’architetto di Dio, la Sapienza, che anche la negazione caotica e qualunque altra voragine o sprofondamento vuole rappresentati secondo le proprie leggi. La moderata anticipazione del Caos che si vede nell’ultima acquaforte di Hogarth non presenta, tra le moltissime cose rotte e cadenti che la compongono, nessuna rottura dei piani sapienziali.
Il gioco, in apparenza, è liberissimo. Il Tempo è un vecchio profondamente incivile e antipatico, bocca contratta in una smorfia cattiva, che appoggia a una rovina la schiena alata, sfinita. Ha appena tirato un’ultima boccata di pipa (la pipa è spezzata) e sul lurido del fumo che gli esce di bocca come un rantolo si legge la parola superflua Finis. Intorno rottami, squarci, crepe: campane, clessidre, scope, bottiglie, tavolozze (l’addio di Hogarth al suo vecchio mestiere), scarpe, corde, campanili, ossature di case scarnificate. Il carro del Sole è fulminato da apoplessia. Un’insegna di osteria, Alla Fine del Mondo, che ha per emblema il globo terrestre che va a fuoco, pende da una forca inclinata. Anche la forca, ultima Dea, è sradicata. In lontananza, un’altra forca con un penduto, una nave naufragata, alberi spettrali.
Un atto giudiziario con un grosso sigillo, ai piedi di una pietra sepolcrale (quella dove Hogarth sta per trasferirsi in solitudine, dopo aver testato in favore della moglie, non del Caos) ha un titolo che a noi, malinconici filosofi del pervertimento ambientale e della sua inesorabile fatalità, suona familiarissimo: Bancarotta della Natura. Certamente Miles, Rattray Taylor, Commoner hanno letto quell’atto. Era il 1764: il Tamigi era gonfio di bottino tropicale (trionfo della Natura e Natura trionfata); i segni di questa grandiosa bancarotta, un crack veramente memorabile, se lasciasse dietro di sé qualche memoria viva, non erano ancora apparsi. Il profetico reverendo Malthus, la cui nascita era fissata vent’anni più tardi, non aveva ancora cominciato a fare ai nostri spermatozoi sordastri la sua inutile predica.
Sedlmayr rileva giustamente l’attualità di quel sigillo escatologico, Nature Bankrupt. Sotto le enormi quantità di rifiuti che non possiamo più smaltire, c’è il respiro del Tempo che muore. Bastano pochi gradi in più di temperatura media terrestre perché il globo incendiato dell’insegna diventi il riscaldamento del nostro ultimo inverno. Dal momento che tutti lavorano (oh santità del lavoro!) per ammazzare il tempo, è naturale che tanto lavoro culmini nel definitivo ammazzamento del Tempo. Non avremo più timore di perderlo, finalmente.
Ma va rilevata anche la grande bontà di questa morte hogartiana del Tempo. La scritta Exeunt omnes (Hogarth ha la mania delle scritte) è un brivido leggero. (A Pompei si legge: conticuere – tacquero). Una clessidra rotta non spaventa nessuno… Sappiamo ora che il Caos può avere la faccia di un ovulo trapiantato, di un gene modificato, di un esperimento sulla vita che si spinga oltre certi limiti invisibili, mentre bottiglie e clessidre restano intatte. In questo senso, l’acquaforte di Hogarth è inattuale, prigioniera della luce. La vera tenebra è al di là di questo.
L’ultimo è sempre presente nell’occhio di un vero visionario. Ma anche senza l’escatologia del Tempo, l’autore del Vicolo del Gin (ultimo traguardo dell’alcool) e delle Quattro tappe della Crudeltà (il castigo dei crudeli) andrebbe messo ugualmente in questa onorevole banda.
Una testa di morto scolpita in un calcolo biliare: l’Hogarth profondo somiglia un poco a questo grazioso ritratto di Georges Clemenceau. Il suo rigore morale è persecutorio; malvagi e peccatori non li abbandona che morti, o peggio che morti, tra i pazzi di Bedlam; le sue storie che continuano da una tela all’altra, da una stampa all’altra, sono una marcia implacabile verso epiloghi sinistri, in cui il suo gusto dell’infarcire si abbandona (tutto finisce in Caos, sempre, a ininterrotti incastri di piccole e grandi atrocità, nell’amorevole certezza che una vita umana sia essenzialmente e senza eccezioni Disastro: il vecchio padre ruba l’anello alla dama suicida col laudano, dopo l’impiccagione dell’amante uccisore del marito; un cane divora visceri di cattivo, tirati giù dalla sua pancia aperta; il trionfo elettorale di un candidato è un baccanale rissoso, tra bestie spaventate. L’onesta fine dei drammi figurativi hogartiani è inevitabilmente il Caos erede di tutto, manicomi, salotti, botteghe, bordelli, bische. Si direbbe che il Caos non abbia aspettato il legato del Tempo per impadronirsi del mondo.
Il titolo inglese dell’incisione è The Bathos. Allude al procedimento, non al soggetto: bathos è l’arte di abbassare, per scopi satirici, il sublime poetico. Quando Giovenale introduce in una satira un verso di Virgilio, fa del bathos. Venere con un caprone o un coniglio, invece di colombe bianche, è bathos, così il Tempo rantolante tra forche e cimiteri. Qui, però, dov’è il bathos? Il titolo sembra antifrastico. Può il miserabile tempo umano godere di una sublime morte? Ha diritto a una fine solenne? Concedendogli un sublime degradato, Hogarth si dimostra fin troppo generoso. (Il grande artista non può essere che così).
Il Testamento del Tempo (meglio chiamarlo così) mi sembra meno deprimente delle pitture morali, perché la fine del tempo è la liquefazione dei mores e delle iniquità umane: meglio l’ultima boccata di quella pipa, che la prima. L’assurdo e il volgare, che Sedlmayr ci vede, non sono che le ombre hogartiane consuete, venute al suo letto di morte: tutto Hogarth sarebbe assurdo e volgare, se lo fosse The Bathos. Invece la sua arte è un lungo sogno di ipocondriaco, e il Tempo che muore è l’ultimo rictus hogartiano, che si polverizza nel mortaio del raffinato gioco del bathos. Moralista fedele alle sue indignate ossessioni, lima in eterno, come stregato, il proprio scontento. Dopo aver frugato a fondo nelle case e nei vicoli di Londra, là dove Blake sentiva stridere in tutto le manette forgiate dalla mente, scopre una luttuosa Londra affabulata da crolli umani incessanti, versa la sua bile sulla Sodoma-mondo che abitano, moribondi, Tempo, Sole e Natura. Alle taverne, agli arrotati, ai libertini imbarcati tra i pazzi, subentra un sole che non illumina più.
Dicono gli astrofisici che il sole agonizza da molto tempo e che la nostra vita è legata alla lunghissima agonia di quest’astro. Ogni aurora sulla terra è un pezzo di sera del sole. E il carro solare fulminato di Hogarth serve ad avvicinare gli increduli, con la scrittura del mito, a questa verità lontana di un sole fermo, emiplegico, sfinito e rotto come il tempo, le pipe, i campanili.
Tratto da: Guido Ceronetti, La Carta è stanca, Adelphi
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