Ho incontrato Claudio Magris nel posto migliore dove si possa incontrare Claudio Magris: a Trieste. La città che attraversa il suo lavoro, il suo pensiero e il suo intero essere. E che lui ricambia amandola profondamente. Era novembre, c’era la bora, ma soffiava a una velocità per educande: «solo» centotrenta chilometri all’ora. A me naturalmente sembravano trecento, ma tutti i triestini a cui chiedevo come facevano a vivere con quel vento mi rispondevano facendo spallucce: «Questo è niente». Sarà, ma in piazza Italia pensavo che la bora mi portasse via.
Inseguivo questa intervista da mesi, anzi da un annetto buono. E quando finalmente il professore mi ha detto sì, il giornale stava mettendo in cantiere l’idea di queste doppie pagine domenicali: così la serie degli «Autografi» è stata degnamente inaugurata.
Ci siamo incontrati al Caffè San Marco, un luogo meraviglioso, dove Magris lavora. Ma è stata l’ultima volta che ho fatto un’intervista in un bar; insieme alle parole del professore il registratore ha preso nota anche di mille rumori di fondo: i clienti, la macchina del caffè, le posate, i piatti, un cane chiacchierone. Per sbobinare tutto ho impiegato ore, nonostante i tecnici del giornale avessero ripulito l’audio. Poi il professore mi ha portato a pranzo nel «suo» ristorante, esperienza che ha confermato la fama della buona cucina triestina.
In tre ore di conversazione abbiamo parlato di molte cose. Quella che più ha lasciato il segno, anche perché è ritornata in molte delle interviste successive, è la triste consapevolezza che il sapere non è più un valore. Nell’ansia della velocità, della fretta, della quantità non c’è più spazio né per lo studio, né per la lettura. Senza idee come può esserci progresso?
Da segnalare anche che sul treno che da Trieste mi riportava a Milano ho partorito la criminale idea di usare gli «Autografi» per fare pubblicità occulta ai libri che amo. Idea che mi ha portato via moltissimo tempo, nel tentativo di trovare per ciascuno una citazione adatta e che non ho mai confessato al direttore. Però è stata anche l’occasione per riprendere in mano libri bellissimi e, come si vedrà, alcuni autori, come Proust, ricorrono più volte.
A un certo punto, in una pagina di Dalla parte di Swann, Proust scrive: «Le stazioni sono quei luoghi speciali che, sebbene in pratica non facciano corpo con la città, contengono l’essenza della sua personalità così come ne portano il nome su un cartello segnaletico». Arrivi a Trieste e sai subito che è vero: scendi dal treno e capisci che sarà complicato entrare in confidenza, avventurarsi nel vento – questo vento, velocissimo e freddo – non sarà affatto una passeggiata. È quasi tutto chiuso per lavori perché il progetto Grandi stazioni non è ultimato: cosa resta di un’identità di confine nel mondo globalizzato? Una possibile risposta si presenta nella vetrina di una cartoleria dove incroci, assieme alla guida della città in diverse lingue, un libro di Claudio Magris. E siccome L’infinito viaggiare ti porta spesso a visitare Microcosmi, eccoci al Caffè San Marco, «situato in un’ottima posizione per chi vuole sgranchirsi le gambe e fare un piccolo giro del mondo». Il professor Magris qui riceve la posta e lavora.
«Mi concentro più che a casa. Là ci sono tanti libri, molto più interessanti di quelli che potrei scrivere io. È un formidabile antidoto a quel piccolo delirio di onnipotenza che ti prende quando scrivi un libro e pensi di mettere a posto il mondo: vedi gente che se ne frega e allora ti passa la grandeur. A volte porto anche il mio cane, Jackson.»
La passione per le cose americane e soprattutto per l’abolizione della schiavitù risale a tanto tempo fa: «All’età di undici anni ho chiesto a mio padre di anticipare di un giorno i festeggiamenti del mio compleanno che è il 10 aprile, perché il 9 aprile 1865 la battaglia di Appomattox, in Virginia, segna di fatto la fine della guerra civile americana e quindi la liberazione dei neri». Dunque, cominciamo dal luogo in cui ci troviamo.
Professore, lei ha scritto che i caffè sono anche «una specie di ospizio per gli indigenti del cuore». E «un’accademia platonica».
È così! Vittorio Emanuele II, per sapere le novità politiche, chiedeva: «Cosa si dice da Fiorio?», un caffè che ho frequentato negli anni torinesi. Tanto che Massimo Mila mi diceva: «Claudio, quando non sei al caffè ti si trova al ristorante». Mi è dispiaciuto lasciare Trieste, ma ero felice di andare a Torino. Guido Davico Bonino ha dato di me una definizione perfetta, «un torinese di Trieste». A Trieste si respirava una libertà gipsy, zingaresca. Torino era la frontiera dell’immigrazione, l’Italia che cambiava, ma insieme era la culla di tutto, della Resistenza, dall’antifascismo, dell’editoria. Una città correggeva l’altra, ero felicemente bigamo.
Come sta l’Italia dalle finestre del Caffè San Marco?
Gli sguardi a livello preconscio dicono che va tutto sempre peggio. Sono convinto che gli intellettuali non siano per forza buoni analisti. Anzi, spesso chi coltiva un certo tipo di cultura si è dimostrato incapace di capire. Penso a tanti bravi scrittori del secolo scorso, che sono stati fascisti, nazisti o stalinisti, da Pirandello a Hamsun, ai francesi che andavano devotamente a Mosca ad assistere alle impiccagioni staliniane dei loro compagni. Céline è un genio, ma forse la sua governante capiva la politica meglio di lui.
Sul Corriere ha scritto che la borghesia «pronta e incline a ogni indecenza ha perso il diritto di definirsi borghese, parola che per Mann, Croce, Einaudi e tanti altri significa tutt’altra cosa. Una borghesia che diventa anche politicamente il contrario di se stessa, ossia populismo, democrazia per acclamazione di caudillos».
Marx parlava di Lumpenproletariat, proletariato intellettualmente e moralmente pezzente, disponibile a qualsiasi manipolazione politica, contrapponendolo al proletariato consapevole. Usò questa parola, lumpen, anche Sandro Pertini a proposito dei brigatisti. Oggi la società italiana è sempre più una pappa gelatinosa, una specie di Lumpenbourgeoisie, di borghesia intellettualmente pezzente anche quando è benestante, che non ha nulla a che vedere con la borghesia classica. Una classe colloidale in cui anche virtù e vizi borghesi sono scomparsi: non c’è più nemmeno quel modo benpensante, che era comunque l’omaggio del vizio alla virtù.
Che danni ha causato la scomparsa della borghesia?
Improvvisamente certe cose, che prima erano date per scontate, non lo sono più state. Se ora mi metto le dita nel naso, lei si offende giusto? Non è un delitto, ma non è educato. Qualcosa sul piano civilmente più superficiale è cambiato. Fare le corna dietro la testa di un ministro, come ha fatto Berlusconi, non è immorale. Ma ci immaginiamo De Gasperi alla Conferenza di pace di Parigi che – mentre dice: «Sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me» – fa le corna? Sembra un dettaglio folkloristico, in realtà è una premessa per l’ignoranza. Un male terribile che ci affligge, perché se non sappiamo metter in ordine una frase e distinguere tra nominativo e accusativo, non distinguiamo chi ruba e chi viene derubato.
Cosa ha sbagliato la sinistra?
Quando ero adolescente, avevamo una domestica, siora Maria, che era stata condannata a vent’anni di carcere per attività antifascista. Era scappata dall’Italia e poi era tornata. Aveva fatto la seconda elementare, era di un’intelligenza stupefacente. Era una comunista convinta. Tra i nostri conoscenti c’era una famiglia indifferente al mondo e chiusa in quel che da noi si dice «far casetta», per riferirsi al finto perbenismo del focolare. Un giorno a pranzo Maria discuteva con mio padre, che era stato azionista e poi repubblicano: era la vigilia delle elezioni del ’53, io le chiesi per chi, secondo lei, avrebbe votato questa famiglia di nostri vicini. Lei mi rispose: «Non ha nessuna importanza per chi votano». Io rimasi entusiasta di questa risposta aristocratica, che è tragicamente sbagliata, perché si tratta di milioni di persone, una palude prepolitica, che i vecchi partiti non consideravano e che ci si limitava tutt’al più a controllare. Poi è arrivato Berlusconi e ha detto: io sono come voi, voi siete soggetti. Li ha resi protagonisti, in una melassa indistinta il cui unico valore è il successo. Cento anni fa Il piccolo alpino di Salvator Gotta vendeva più copie delle poesie di Saba, ma nessuno si sognava di pensare che interpretava meglio il suo tempo perché vendeva di più. Oggi a chi non ha successo viene negato il predicato di esistenza. A me non chiedono mai perché non ho letto l’uno o l’altro libro di Dostoevskij o di Dumas, ma perché non ho letto Dan Brown, come se fosse un obbligo. Non è che non ho voluto leggere l’uno o l’altro libro, ma semplicemente non si può leggere tutto. A questo clima però hanno collaborato molti. Anche la sinistra, con quella disastrosa idea egualitarista, con l’università del trenta politico.
Lei che faceva in quegli anni?
Durante il Sessantotto io ero professore di Letteratura tedesca, prima a Trieste poi a Torino, dove ho visto anche la violenza del Settantasette. Al Sessantotto non aderii, forse perché capivo Eugène Ionesco quando, come ricorda Davico Bonino, ai ragazzi del maggio francese in corteo diceva: «Tra dieci anni sarete tutti notai». E in parte è successo. La colpa della sinistra è stata di non voler più distinguere l’inevitabile gerarchia tra i gradi del sapere dalla falsità e dall’ingiustizia dell’accesso alla cultura. Il problema non è che non bisogna leggere Tolstoj perché è una lettura d’élite, il problema è che tutti, se ne hanno voglia, devono poterlo leggere.
Questo cosa ha prodotto?
Che quasi più nessuno legge Tolstoj. Però non dobbiamo demonizzare quegli anni. Se i miei studenti non volevano venire a lezione, liberissimi: io facevo altro. Ma se si presentavano, era chiaro che in quell’ora si parlava di letteratura tedesca e non di politica. Al massimo se ne parlava al caffè, dopo.
È iniziato allora il decadimento delle istituzioni scolastiche?
Nelle vecchie università c’erano ingiustizie baronali assurde. In quegli anni si sono portate avanti istanze sacrosante, bisogna premetterlo. La cosa paradossale è stata che quel movimento eversivo ha prodotto da un lato un potenziamento delle individualità, poi ha creato una sorta di mistica assembleare che ha soffocato le individualità. La parabola successiva è stata un altro paradosso, una sorta di tecnicizzazione del sapere, in cui i titoli scientifici si valutano a peso. Se Kant fosse stato costretto a scrivere una scemenza ogni due mesi, non avrebbe mai scritto La critica della ragion pura. Il vecchio sistema scolastico italiano, che tutto sommato funzionava, è stato americanizzato. Pensate sia un bene? Nella mia personale esperienza no, se su trentanove graduate a cui ho tenuto un corso negli Stati Uniti, sette non avevano mai sentito nominare Stalin. Io penso che si possa non sapere chi era Amilcare, il padre di Annibale. Ma Annibale bisogna sapere chi è, sennò non capisci nemmeno tutto il resto.
Ricordo quando Luigi Berlinguer, da ministro, predicava: «Gli studenti sono clienti». Una volta gli dissi: «No, perché il cliente per definizione ha sempre ragione». Se io vado al ristorante e sui maccheroni al posto del formaggio chiedo lo zucchero, il cameriere me lo porterà. Ma se uno studente mi dice che Dante ha scritto I promessi sposi, mica posso dirgli: «In genere no, ma per te sì». Il sistema dei crediti è una sciocchezza che ha distrutto l’università italiana. Una volta a uno studente che mi spiegava che non veniva a un seminario, che pure gli interessava, perché non dava crediti, ho chiesto: «Hai mai baciato gratis una ragazza?» Investire non vuol dire guadagnare ma spendere. L’idea che ogni cosa che uno fa deve essere tradotta in un vantaggio distrugge la libertà e la creatività.
Perché sapere non è più un valore?
Intanto c’è una specie di horror vacui verso tutto ciò che riguarda il passato. Un giovanotto di recente mi ha detto che non voleva vedere un film perché era degli anni Ottanta, figuriamoci uno dei decenni precedenti. Una cosa orrenda, vuol dire che quel ragazzo non vedrà mai un capolavoro come Les enfants du paradis. Guai a identificare l’intelligenza con la cultura, ma guai a dire che la cultura non serve a niente. Serve anche a giocare meglio a poker, a capire le relazioni, a stare nel mondo.
Conseguenza di tutto ciò è l’evidente decadenza della classe dirigente.
La difesa della cultura – e degli aoristi greci – ha senso solo a patto di sapere che cultura non è conoscere Platone, ma avere un rapporto critico con il sapere. Voglio dire che il letterato che sforna libri sta in una catena di montaggio esattamente come l’operaio. Le classi dirigenti sono in gran parte formate da persone pochissimo preparate. Una volta ognuno faceva il suo mestiere. Intendo: la Mondadori apparteneva al signor Arnoldo Mondadori, di professione editore; l’Einaudi al signor Giulio Einaudi, il Corriere della Sera ai fratelli Crespi. Adesso tutti fanno altro, a cominciare dai politici. Che non sanno fare le leggi, perché mancano anche di preparazione giuridica, ma non solo. In La cultura si mangia, Bruno Arpaia e Pietro Greco ricordano le interviste di «cultura generale» ad alcuni deputati e senatori trasmesse da Le Iene. Una parlamentare del Pd, alla domanda cos’è una sinagoga, risponde: «È il luogo che le donne musulmane frequentano per pregare il loro Dio, Maometto oppure Allah». Parliamo di una signora dalla quale dipende se i miei figli avranno o no la pensione, come se il pilota del volo sul quale viaggiamo ignorasse cos’è un aereo.
Non è sconvolgente che questi signori si sottopongano volentieri a umiliazioni pur di essere in televisione, sapendo che faranno una figuraccia?
Ma certo! Il concetto di decenza è cambiato: se uno va in tv a dire sciocchezze, sa che non perde nulla. Anche per i politici il giorno ha ventiquattro ore e loro fanno tutto fuorché politica per la maggior parte del tempo. O inaugurano qualcosa o sono a un convegno o vanno in televisione. Il cardinale Richelieu se faceva politica otto ore, erano otto ore di politica, non di rappresentazione della politica. O di «rappresentanza». Io non credo che i politici siano fannulloni, credo che per lo più facciano cose assai faticose, ma spesso inutili.
Che ricordi ha dei suoi anni in Parlamento?
Hanno coinciso con un periodo difficilissimo della mia vita. Avevo fatto, accettando la candidatura, una scelta contro la mia natura. La mia natura non è di rappresentare, che significa anche una combinazione di convenienze e autenticità. Mi costava una fatica enorme, contro ogni principio di piacere. Come un omosessuale che faccia l’amore con una donna per contribuire all’incremento delle nascite: nobile sacrificio, ma pur sempre sacrificio.
Cosa l’ha convinta?
Berlusconi era «sceso in campo», e io in quel momento ho avuto la sensazione, sbagliata, di non potermi sottrarre. C’era un’alleanza, che andava dai vecchi liberali all’estrema sinistra, che sosteneva la mia candidatura; insieme costituirono un movimento e alla fine fui eletto in Senato. La destra si era spaccata in due qui a Trieste, e così ho vinto. Non ho fatto campagna elettorale, forse ho vinto perché non si sono potuti accorgere della mia inettitudine. Ricordo un confronto televisivo disastroso, in cui ero dimesso, per nulla convincente. Mi sono riscattato alla vigilia del voto, in un incontro pubblico con tutti i candidati. Qualcuno aveva pesantemente insultato Margherita Hack, con commenti sul suo aspetto fisico. Io presi la parola: «Vi ringrazio, fino a ora ho fatto una pessima figura davanti ai cittadini. Ma adesso al cospetto di cotante nullità, mi sento qualcuno. Chiederò l’abolizione del suffragio universale: chi, anziché contestare le idee, insulta le persone, non può decidere le sorti del Paese». E poi anche quando ho incontrato Cesare Previti. Lui era ministro della Difesa, c’era una commemorazione a Redipuglia. Al momento dei saluti mi è venuta l’idea goliardica, nata dal desiderio di non stringergli la mano, di chiedergli l’ora: lui ha guardato il polso e ha abbassato la mano destra. Niente stretta di mano.
La nostra Carta fondamentale dice che chi esercita funzioni pubbliche deve farlo con dignità e onore. Più che un dettato costituzionale, sembra diventato un dettaglio.
Non esiste più nessuna sanzione sociale. Spaventa il rifiuto crescente dell’idea di Stato. Quello che in Germania ha copiato la tesi di dottorato, si dimette appena lo scoprono. Una cosa disdicevole, ma non gravissima. Il guaio è oggettivo: non è che i tedeschi siano migliori di noi, è che là è necessario. In Italia nessuno perde più la faccia. Se io fossi antisemita, ma non osassi rivelare le mie convinzioni, sarebbe un pessimo sintomo per me, ma un ottimo segno per la società in cui vivo. Viviamo in un mondo che è l’opposto del vecchio Impero asburgico, dove spesso un genio veniva preso per un cretino ma mai il contrario. Abbiamo collaborato anche demonizzando Berlusconi.
Mai facendo la legge sul conflitto d’interessi.
Una responsabilità enorme, ingiustificabile.
Per cui nessuno ha pagato però.
Di volta in volta ci siamo turati il naso, sempre per «non far vincere Berlusconi». Questo non ha favorito il rinnovo dei partiti antagonisti al centrodestra, ma siamo stati tutti complici. Io credo molto al principio di responsabilità. La demonizzazione di Berlusconi ha giovato ai suoi avversari: quella sinistra, in una situazione normale, sarebbe stata spazzata via.
Le larghe intese sono frutto di un tradimento elettorale?
È scandaloso non aver fatto una nuova legge elettorale. Monti ne avrebbe avuto il tempo, e anche Letta a questo punto. La parabola di Monti è incredibile, ridotto così con le grandi possibilità che aveva. Che errore Scelta Civica, oggi sarebbe presidente della Repubblica. Sulle larghe intese, in quel momento credo inevitabili, l’unica soluzione decente sarebbe fare una legge elettorale e andare alle urne. Sono grottesche, ma c’è un conflitto tra l’etica della convinzione e il principio di responsabilità. Se il governo Letta, seppur con gravissimo ritardo, facesse la legge elettorale sarebbe un merito.
Dicono che la legge elettorale non si può fare senza la riforma della forma di governo.
La riforma costituzionale, in questo modo e in questo momento, è impossibile. La Costituzione non è intoccabile, nonostante nei suoi fondamenti vi sia la base del nostro vivere civile. Anche nella Torah si vieta di fare un idolo perfino della parola di Dio. Ma ripeto: non è questo il modo né il momento di cambiare la Costituzione.
17 novembre 2013
Tratto da: Silvia Truzzi, Un paese ci vuole, Sedici grandi italiani si raccontano, ed. Longanesi
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