La sera scende sulle colline

La sera del 19 giugno (sera per modo di dire, essendo il cielo chiarissimo e il sole ancora fisso a mezzo il mare, con uno sguardo intento), presi un tram della linea 3, che percorre tutta la Riviera di Chiaia e termina a Mergellina, sedetti in un angolo, vicino a una donna senza naso, che portava in grembo una grossa pianta, e mi misi a pensare con quali parole avrei giustificato la mia visita a Luigi Compagnone, impiegato all’Ufficio Prosa di Radio Napoli, che non vedevo da molto tempo, e dal quale appunto stavo andando. Avevo bisogno di alcune informazioni sui quattro o cinque scrittori giovani di Napoli, Prisco, Rea, Incoronato e La Capria (che aveva il suo primo romanzo in via di stampa presso un editore del Nord); non escludevo Pratolini, benché l’autore di Cronache di poveri amanti non potesse dirsi napoletano, né alle prime armi, ma avevo saputo ch’era sul punto, se già non lo aveva fatto, di lasciare definitivamente la città. Dal Compagnone, che per un certo tempo in casa li aveva avuti tutti, speravo qualche notizia più particolare, maliziosa, di quelle che sollevano tanto il tono di un articolo. Che cosa fanno i giovani scrittori di Napoli era il titolo del mio articolo, destinato a un settimanale illustrato.

Non si poteva dire che quel tram corresse. Andava con un ritmo così lento, benché a piazza Vittoria, quando ero salita, si potesse dire normale, da favorire il sospetto che il conducente si fosse addormentato, oppure, con un mezzo occhio aperto, giacesse ferito sul suo seggiolino. In realtà, quell’uomo dalla giubba sbiadita e priva di bottoni sedeva regolarmente alla guida, ma rallentava sempre più l’andatura, a causa delle cattive condizioni della strada che appariva addirittura sconvolta.

Sporgendomi dal finestrino, vidi, per l’estensione di un chilometro e più, quanto è lunga la Riviera di Chiaia, un vero formicolio di uomini seminudi, grigio il dorso, grigi i calzoncini, grigia la testa e le mani con cui lavoravano a rompere le pietre. I basoli della strada erano tutti smossi, conferendole l’aspetto di un torrente in piena, le torbide acque, precipitose e oblique, improvvisamente drizzate e pietrificate. Molte strade, quando certi lavori sono in corso, assumono questa espressione agitata e squallida. Ma qui si avvertiva qualcosa di diverso, che in breve costringeva a rifiutare, per una definizione, i due aggettivi nominati. No, non si poteva parlare né di agitato né di squallido; questa strada, piuttosto, rimaneva ridente e terribile, come appunto l’espressione d’intelligenza e bontà che appare talora sul viso ai defunti. Era una strada defunta, così almeno la definii nel mio cuore, sperando poterle trovare in seguito un attributo meno intenso ed irrazionale, cosa che invece non fu possibile.

Ritrovavo a destra del percorso le medesime case dell’Ottocento e i palazzi del Sei-Settecento, che un tempo si erano sostituiti lentamente alle povere case dei pescatori, numerose, due secoli fa, in quella zona urtata direttamente dal mare. Nulla di più grazioso e ridente, anche dopo i selvaggi anni ’40-45: la pioggia di forellini che aveva macchiato le facciate dopo i mitragliamenti, e le grandi e solenni lacerazioni aperte dalle bombe, avevano per qualche tempo conferito una certa animazione a quelle mura, in perfetto accordo con gli elementi umani formicolanti alla base. Quel qualcosa di nero e colorato, quell’interminabile nastro di plebe che si agitava perennemente alla radice delle case, aveva emesso, per la prima volta, in quegli anni successivi alla tempesta, un rumore nuovo, imprevedibile, incantato, pari al fruscio della risacca sulla rena, dopo l’uragano. Vi era dell’inquietudine, e soprattutto della speranza, in quel sordo continuo rumore. Ecco perché i vetri delle case avevano brillato, e le facciate rosa e gialle erano parse battute da un altro sole, vivide, rinnovate. A distanza di qualche anno (era tanto che mancavo da Napoli), la famosa Riviera di Chiaia appariva un’altra. Una patina, misterioso intruglio di piogge, polvere e soprattutto di noia, si era distesa sulle facciate, velandone le ferite, e riconducendo il paesaggio a quella immobilità rarefatta, a quell’espressivo equivoco sorriso che appare in volto ai defunti. Forse, ove fosse mancata l’eterna folla di Napoli, semovente come un serpe folgorato dal sole, ma non ancora ucciso, tra quelle distinte apparenze di un’età remota, quel paesaggio non sarebbe apparso spettrale. Ma quegli uomini e donne e bambini seminudi, e cani e gatti ed uccelli, tutte forme nere, sfiancate, svuotate, tutte gole che emettono appena un suono arido, tutti occhi pieni di una luce ossessiva, di una supplica inespressa – tutti quei viventi che si trascinavano in un moto continuo, pari all’attività di un febbricitante, a quella smania tutta nervosa che s’impadronisce di certi esseri prima di morire, per un gesto che gli sembra necessario, e non è mai il definitivo – quella grande folla di larve che cucinava all’aperto, o si pettinava, o trafficava, o amava, o dormiva, ma mai veramente dormiva, era sempre agitata, turbava la calma arcaica del paesaggio, e mescolando la decadenza umana alla immutata decenza delle cose, ne traeva quel sorriso equivoco, quel senso di una morte in atto, di vita su un piano diverso dalla vita, scaturita unicamente dalla corruzione.

Il sole brillò un momento sulla lastra di un finestrino, e per un attimo macchiò di rosso le ginocchia della mia vicina. Essa stava guardando, attraverso i vetri, la strada e quella folla silenziosa di operai e di miserabili che l’animavano; un sorriso leggerissimo, compiaciuto, vagava nei suoi occhi neri al disopra della cicatrice. Con la familiarità di questa gente, per cui gli altri non esistono se non come motivo di colloquio, e questo colloquio è più che altro un monologo senza freni, mi disse che per l’8 settembre, festa di Piedigrotta, i lavori sarebbero stati ultimati, e la strada pronta per l’impianto delle luminarie, che quest’anno, col nuovo sindaco, si annunciavano straordinarie. Un uomo magro e dall’aspetto seriamente ammalato, che sedeva di fronte a noi, annuì col capo. Disse sottovoce queste parole, che riferisco più per la stranezza del loro suono, su quelle labbra, che per la loro importanza: «Lassa fa’ a Dio». Poco dopo la vettura, che aveva rallentato, fin quasi a fermarsi, a causa di un gruppo più folto di operai, riprese la sua andatura normale, e, intanto, il sole era calato.

Per qualche momento potei osservare, alla sinistra del percorso, le macchie scure degli alberi della Villa Comunale, che fronteggia Chiaia per quasi tutta la sua lunghezza, separandola dal mare. Questo parco, che nei primi anni del Settecento consisté solo di un doppio filare di alberi e di tredici fontane fatte sistemare sulla spiaggia dal duca di Medina, alla fine del secolo fu convertito in giardino da Ferdinando IV, e da allora costituì una delle zone più decantate di Napoli. Sul lato verso via Caracciolo possiede un lungo galoppatoio, frequentato tuttora dall’aristocrazia, mentre i viali centrali sono continuamente affollati da bambini e bambine della borghesia, che vi portano le loro biciclette e i monopattini. I giovani della plebe, invece, esseri dai cinque ai quindici anni, ne invadono volentieri i punti più ombrosi: vi si recano a fare i loro bisogni, oppure a torturare degli animali; o seggono pensando cose d’amore, ruffianerie, canti; i tisici vi sono condotti dai parenti per consiglio del medico, e si vedono consumarsi su quelle pietre come bianche ali di farfalla. Benché il Circolo della Stampa, con la sua lussuosa palazzina, gli conferisca certo decoro formale, la notte quel luogo, attraversato da militari statunitensi e da giovani napoletani, non è affatto sicuro.

Neppure in quel momento che gli ultimi raggi del sole sfioravano i rami più alti dei lecci, delle palme, delle araucarie, indorando pallidamente le statue e i busti decapitati, mostrava un aspetto sicuro. Via via che se ne accostava l’ultimo limite, quel giardino diveniva più cupo. A un tratto, vidi questo. Cinque ragazzi di età indefinibile erano seduti su un muretto, aspettando con volti assolutamente inespressivi che la vettura passasse. Quando questa fu alla loro altezza, uno di loro si alzò in piedi, e rapidamente, imitato dagli altri, si sbottonò il davanti dei calzoni. Poi, tenendo il sesso tra le dita, come un fiore, si misero a correre sul muro, tentando di seguire il tram, con richiami striduli, dolenti, appassionati, che volevano attrarre la nostra attenzione su tutto quanto essi possedevano.

Non una delle persone ch’erano sedute da quel lato della vettura, e avevano visto, discusse la cosa, e neppure sorrise. Il conducente, che si era alzato un momento in piedi, temendo di mettere sotto qualcuno, tornò a sedersi, sospirando di noia, e affrettò l’andatura, così che presto i cinque infelici disparvero.

Ma ne apparivano degli altri, sempre con le stesse facce pallide e intente, e si temeva di capire i motivi di quella malata intensità. Due avevano impiccato una bestiola a un ramo, altri erano intenti a trafiggere una farfalla. Qualcuno orinava qua e là. Non avevano occupazioni ragionevoli. Una pazzia tenera li sollevava. C’era perfino chi levava qualche breve inno alla Vergine.

La donna senza naso mi guardava ora quietamente, e guardava la strada, e guardando me e la strada insieme, doveva aver pensato qualche cosa intorno a quello che io potevo pensare, perché il sorriso con cui aveva accennato ai festeggiamenti era scomparso, per lasciar posto a un breve scintillio sospettoso, raccolto. Infine, mi accorsi che essa aveva smesso di pensare, e guardava attentamente nel centro del mio volto. In questo guardare, essa non metteva alcun pensiero, eppure la sua intensità e curiosità mi causavano un vero malessere. Anche l’uomo, ora, guardava nel mezzo del mio volto, poi guardava le mie mani, i piedi. Non poteva suscitare nessuna collera, perché sembrava moribondo, e tuttavia procurava un certo fastidio. Così non aspettai l’ultima fermata, scesi nella piazza Principe di Napoli. La vettura riprese a correre senza di me, e per un poco, aspettando di attraversare, vidi ancora quelle due macchie – macchie di cristiani, appoggiate ai vetri – seguirmi con lo sguardo, meccanicamente, pensierose.

La casa del Compagnone era in viale Elena, la seconda delle tre strade che partono da piazza Principe di Napoli, e sono: via Caracciolo (proseguimento), viale Regina Elena e la forbice via Mergellina-Piedigrotta. Mentre la via Piedigrotta piega verso quella piazza Piedigrotta, dove sorge la chiesa omonima, sede degli annuali festeggiamenti, l’altro gruppo sfocia in piazza Sannazzaro, vicino alla nota darsena di Mergellina. Da questo porticciuolo, chiamato in origine Mergoglino, sempre pieno di barche colorate, immerso in una luce e un silenzio superiori ai colori, ai gridi, al tonfo dei remi che fendono l’acqua chiarissima, parte la Via Nuova di Posillipo, che segue tutta la collina. E qui si può dire finisca la Napoli plebea (ch’è tutta Napoli) e cominci quella sezione civile e borghese, che per dimora non usa case o casupole, ma solo ville circondate da grandi e scuri giardini, con spiaggia propria. In realtà, la divisione non è così netta, trovandosi dovunque, per Napoli, palazzi bellissimi, cinti da folti giardini, con saloni e scale di marmo, oltre i quali non è possibile immaginare l’oscurità e il fetore dei vicoli. Dove però, in Napoli, le zone di bellezza e di gioia sono isole, a cominciare da viale Elena, isole, o eccezioni, sono la bruttezza e lo stento. Cominciano da Mergellina, poi, quelle alte pareti di tufo giallo, alte come il più alto dei cieli, dove si annidano le tombe di Leopardi e Virgilio, e che difendono i giardini di Posillipo da quei Campi Flegrei, che continuano dietro l’altro versante, disseminati di vulcani spenti e di zolfatare, intorno ai centri abitati o fatti deserti, di Bagnoli, Pozzuoli e Cuma.

Il Compagnone abitava in viale Elena da vari anni, e non ricordo se ne fosse mai compiaciuto. Lo disgustava soprattutto, poiché occupava un ammezzato, la vista della gente che gli appariva mentre stava seduto al suo tavolo, certe facce lerce provenienti dalla vicina Mergellina, che altamente contrastavano con la dignità della zona, e il sentire quasi ogni sera gli spari in onore di questo o quel patrono, e vedere sul terrazzino cadere i fuochi. Ma, in seguito, non vi aveva fatto più tanto caso. Era un giovane alto, distinto, con una piccola testa dai lineamenti classici, coperta di capelli castani. Gli occhi, dal taglio delicato, erano di un azzurro purissimo, velati da lunghe ciglia. Ugualmente delicati, e si può dire greci nella fattura, erano il naso e la bocca dalle labbra finemente unite, e solo di quando in quando piegate all’angolo da un sorriso torbido. Vi era qualcosa, in quel volto, tra l’estrema gioventù e la vecchiaia, e, da anni, si era fatta sempre più evidente una lotta tra certa nobiltà e gentilezza ch’erano in lui, e una disperazione e perfidia che erano ugualmente in lui, e poco alla volta, specialmente per chi lo rivedeva dopo un po’ di tempo, quella parte inferiore di lui, come un male nascosto, era avanzata. Non di molto, e si poteva anche non avvedersene.

Attraversai la piazza Principe di Napoli ed entrai in via Mergellina, pensando di raggiungere viale Elena da via Galiani, che taglia queste due parallele, e passa proprio davanti alla casa del Compagnone. Ero a pochi passi dal Caffè Fontana, quando mi parve di vederlo. Veniva avanti dal marciapiede opposto, con la sua andatura un po’ stanca di claudicante, senza fretta. Il viso era leggermente pallido, come di chi ha freddo, e gli occhi guardavano intorno senza gioia, anzi con una rabbia muta, greve. Stavo per salutarlo, quando mi accorsi di averlo soltanto ricordato.

Mi accorsi anche di un’altra cosa: che la tranquillità con cui mi ero disposta a recarmi dal Compagnone, quasi fosse, come finora lo avevo pensato, un semplice funzionario della Radio, quella tranquillità era sparita. Esitai, prima di entrare in via Galiani, quasi che il suolo sotto i miei piedi si muovesse leggermente. Anche le case mi parvero leggermente torte, e che qua e là si affacciassero figure inquiete, molto pallide, piene di rassegnazione e di collera.

Fatti, in tale stato d’animo, tra stupito e oppresso, pochi passi, scorsi subito, in fondo, l’asfalto di viale Elena, poi il proseguimento della via Galiani, poi ancora l’asfalto di via Caracciolo, illuminato dal chiarore celeste del mare. La casa del funzionario era situata su quell’ultimo tratto della via Galiani, in un palazzo d’angolo tra questa e viale Elena. Vidi il cancello e il terrazzino dell’ammezzato. Il cancello era accostato, come sempre, e il terrazzino deserto. Avrei potuto entrare dall’ingresso principale, ma preferii obbedire a una vecchia abitudine che, negli anni passati, mi conduceva alla casa del Compagnone solo dal lato del cancello, dove quasi tutte le sere, e anche a notte alta, era possibile vedere il salottino illuminato, il funzionario seduto in un angolo, con la sua aria disfatta e mordace, e intorno i giovani amici di lui. Questa volta non mi sbagliavo, il salottino era completamente spento, perché dai vetri della porta non trapelava il benché minimo filo di luce, e, solo, si distinguevano vagamente le forme dei mobili. Anche il balcone dell’attiguo terrazzino era chiuso e, alle cordelle sottili tese tra due muri, non dondolava né un fazzoletto né un calzino, dal che dedussi che anche la giovane Anita, moglie del Compagnone, era uscita col bambino. Tuttavia, spinto il cancello, e superati pochi scalini, appoggiai il dito sul bottone di porcellana infisso nel muro, e rimasi in attesa, vagamente impensierita, che qualcuno rispondesse. Non sentivo nessuna vibrazione, perché quel campanello ha un meccanismo particolare, e il suo suono è avvertito solo in fondo alla casa, e pensando di vedere spuntare a un tratto la magra figura del giovane, accostai il viso ai vetri.

Poco dopo, abituandosi l’occhio a quella oscurità, la stanza mi fu chiara in tutti i suoi particolari.

Era un comune salotto borghese, pieno di mobili vecchi ma scrupolosamente puliti. Quattro porte, compresa quella sulla strada, sembravano disegnate più che incise su quei pallidi muri. Una, sulla parete di fondo, era quella che comunicava col corridoio e la cucina, dove spesso la famiglia del funzionario s’intratteneva; un’altra, a sinistra, divideva la casa del Compagnone da un appartamento attiguo, e questa era sbarrata; la terza, sulla destra, immetteva nella stanza dei coniugi, e neppure da questa trapelava luce.

Proprio vicino alla porta di strada, sporgeva l’angolo di un grosso tavolo, coperto da un tappeto di lana grigia; sopra, in una confusione che, in qualche modo, non era più quella dei primi anni, stavano ammonticchiati certi libri, si vedevano allineati esigui fasci di carte, ed era visibile il fianco di una macchina da scrivere chiusa nella sua custodia.

Sulla parete di destra, sotto una lunga stampa grigia, raffigurante il Ratto delle Sabine, era appoggiato un divanetto vecchio e scomodo, coperto di una stoffa rossa, lacerata in più punti. Di fronte al divano, sulla parete opposta, una consolle di marmo bianco, guarnita di una specchiera dorata, continuava la linea del grosso tavolo. Sulla consolle, un orologio di bronzo, con degli amorini, non segnava più alcun tempo; la lancetta si era spezzata. Sia ai lati del divanetto, che della consolle, quattro medaglioni di terracotta, raffiguranti una testa di selvaggio del Nord America, a grandezza naturale, fortemente colorata, avevano sguardi fissi, gelidi. Infine, tutto era gelido, in quella stanza. Non un tappeto, né un fiore, né una luce, né un quadro rivelavano qualche compiacenza del padrone di vivere in quella casa, e comunque di vivere: il senso era una quiete rarefatta, profonda.

Continuavo a premere il dito sul bottone di porcellana, da cui non proveniva nessun suono, e a fissare turbata, intenta, la vecchia stanza.

Nella prima parte di essa, e precisamente intorno al divano, mi pareva scorgere delle figure, e avrei creduto udire il suono di voci familiari. Quella risata singolarmente lenta e agghiacciante, dove un pensieroso bambino si mescolava a un automa, era di Giovanni Gaedkens. Il ragazzo, in divisa alleata (acquistata alla Sanità per cinquecento lire), seduto nel centro del sofà, così reagiva alla lettura di uno sketch di Luigi Compagnone. Questi, con le sue lunghe gambe ancora sane, distese, in un atteggiamento felice, tra le sedie occupate dagli amici, sedeva accanto al Gaedkens, e ora leggeva, con una certa maligna grazia, ora pensieroso osservava. Accanto al Gaedkens, era anche il figlio del colonnello Prunas, piccolo di statura quanto una bambina, e stranamente silenzioso, immobile. Intorno al tavolo, ecco Lorenza, moglie del Gaedkens, piccola, grassa, coi capelli tirati e gli occhiali; Anita, moglie del Compagnone, dalla figura slanciata e sbiadita, il volto mite e freddo delle colline al tempo delle nebbie. Queste figure si trattenevano per qualche istante in quell’ambiente, con tutta la precisione e gli inganni ineffabili di una realtà; poi, come i numeri nel quadretto bianco di un tassametro, venivano sostituite, senza che aveste veduto come, da altre ugualmente giovani, seppure non così intense.

Quel ragazzo altissimo, dalla piccola testa d’uccello, e il profilo da una parte infantile, dall’altra vecchissimo, è l’avvocato Giuseppe Lecaldano, anch’egli occupato alla Radio, devoto amico di Luigi e fervente ammiratore della dottrina marxista; l’uomo bruno, dall’aspetto dimesso, che siede al suo fianco, è l’operaio specializzato Alfredo Barra, comunista, che vide con gioia i primi passi di Luigi nella vita delle federazioni, e anche ora che il giovane si rifiuta, lo segue come un caro morto; quell’incrocio, poi, tra la serenità di Fidia e la depressione di Sartre, quelle belle labbra, quei begli occhi, quello sguardo freddo, quella fronte perfetta, adombrata da ciocche di pallido bronzo, quell’euforia e quell’angoscia, appartengono al giovane sindacalista Aldo Cotronei, che già una volta tentò il suicidio, e ora si aggrappa di nuovo al Partito, per non morire. Quale malinconia, tenero ricordo di una bellezza che non può ripetersi, sospetto della grandiosità della vita, vela quei puri lineamenti, e schiude in un triste sorriso le labbra avvezze a ripetere dure formule. Anche a queste persone, il Compagnone leggeva degli sketch radiofonici, poi, nauseato, le osservava.

Dissolte anche queste figure di marxisti, e con esse le voci un po’ monotone e fisse di chi agisce in sogno, la stanza si popolava delle più squisite figurine napoletane degli anni ’45-50, e vi si potevano riconoscere note personalità intellettuali del luogo, da Guido Mannaiuolo, proprietario del Blu di Prussia, piccola galleria d’arte moderna, a Gino Capriolo, di Radio Napoli; da John Slingher, poeta anglo-napoletano, alla signora Etta Comito, redattrice della terza pagina del «Corriere di Napoli»; da Samy Fayad, giovane venezuelano, a Franco, Gino e Antonio Grassi, rispettivamente figli e fratello di Ernesto, il decano dei giornalisti napoletani; e tutte insieme, queste persone ascoltavano anche loro gli sketch del Compagnone, senza avvertire il ribrezzo e l’insulto ch’erano nella sua voce quasi femminile. Svanite queste figurette, ecco farsi un nero, e in quell’oscurità illuminarsi certi contorni quasi tragici: il pingue e delicato Prisco, ragazzo perfettamente educato, l’inquieto La Capria, il chiassoso e pallido Rea, gli scrittori comunisti Incoronato e Pratolini, dagli sguardi freddi e immaturi. Davanti a questi, il Compagnone non leggeva più: preso da un fitto, impercettibile tremito, lasciava che i fogli pieni di spiritose battute gli scivolassero dalle mani, abbassava sul petto, invaso da un misterioso terrore, il suo mento aguzzo di vecchio.

 

 

 

Tratto da: Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi