La sfida dell’infinito: la scommessa sul “Dio nascosto”

Diversità. La teologia è una scienza; ma, al tempo stesso, quante scienze non è! Un uomo è un’unità sostanziale, ma, se lo si seziona, sarà la testa, il cuore, lo stomaco, le vene, ogni vena, ogni frammento di vena, il sangue, ogni umore del sangue?

Una città, una campagna, da lontano sono una città o una campagna, ma, quanto più ci si avvicina, sono case, alberi, tegole, foglie, erbe, formiche, zampette di formiche, all’infinito. Tutto questo si raccoglie sotto il nome di “campagna”.

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La natura ricomincia sempre le stesse cose, gli anni, i giorni, le ore; gli spazi, in egual modo, e i numeri, seguono l’uno all’altro senza cesure. Si determina in questo modo una specie di infinito, e di eterno. Non che ci sia in tutto ciò alcunché di infinito e di eterno, piuttosto, questi enti finiti si moltiplicano infinitamente. Così, a mio avviso, non c’è d’infinito che il numero che li moltiplica.

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Perché la mia conoscenza è limitata? E le mie misure? La mia durata di cento invece che di mille? Che motivo ha avuto la natura di darmela tale, e di scegliere questo numero piuttosto che un altro, tra i numeri infiniti di cui non c’è ragione di scegliere l’uno piuttosto che l’altro, nessuno avendo più attrattive di un altro?

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Quando considero la breve durata della mia vita, sommersa nell’eternità che la precede e la segue, il piccolo spazio che occupo e che pure vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e m’ignorano, mi spavento e mi meraviglio di trovarmi qui piuttosto che là, perché non c’è affatto una ragione che dia conto del qui piuttosto che del là, dell’oggi piuttosto che del domani. Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi questo luogo e questo tempo sono stati destinati a me? Ricordo dell’ospite di un solo giorno, che subito passa.

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L’eterno silenzio di quegli spazi infiniti mi sgomenta.

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Ecco che cosa vedo e che cosa mi turba. Mi guardo intorno da tutte le parti, e ovunque non vedo che oscurità. La natura non mi offre nulla che non sia materia di dubbio o di inquietudine. Se non scorgessi nulla che indicasse una Divinità, mi risolverei per la negazione; se vedessi ovunque i segni di un Creatore, riposerei in pace nella fede. Ma vedendo troppo per negare e troppo poco per essere sicuro, mi trovo in uno stato miserevole, nel quale ho pregato cento volte che, se un Dio la regge, lo mostri senza equivoco e, se i segni che essa mostra di lui sono fallaci, li sopprima del tutto; che dica tutto o niente, affinché io possa vedere quale partito prendere. Invece, nello stato in cui mi trovo, ignorante di ciò che sono e di che cosa devo fare, non conosco né la mia condizione né il mio dovere. Il mio cuore tende con tutto se stesso a conoscere dove sia il vero bene per seguirlo, niente mi costerebbe troppo per l’eternità.

Provo invidia per coloro che vedo vivere nella fede con tanta indifferenza, e che fanno così cattivo uso di un dono del quale mi sembra che io farei un uso molto diverso.

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Sproporzione dell’uomo. […] L’uomo contempli dunque l’intera natura nella sua alta e piena maestà, distogliendo lo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano. Lo volga a quella luce sfolgorante, collocata come una lampada perpetua a illuminare l’universo, gli appaia la terra come un punto rispetto al vasto giro che compie quest’astro e si stupisca al pensiero che questo vasto giro non è a sua volta che un tratto irrilevante rispetto a quello che compiono gli astri che ruotano nel firmamento. Ma se qui si ferma la nostra vista, l’immaginazione vada oltre: si stancherà prima questa di plasmare che la natura di fornire la materia prima. Tutto questo mondo visibile non è che un punto impercettibile nell’ampio seno della natura. Nessuna idea vi si avvicina. Per quanto dilatiamo le nostre concezioni, al di là degli spazi immaginabili, non riusciamo a produrre che atomi in confronto alla realtà delle cose. È una sfera, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo. […]

Tornato a sé, consideri l’uomo quello che è in confronto a quello che esiste; si guardi come sperduto in quest’angolo remoto della natura e, dall’angusto carcere dove si trova (voglio dire l’universo), impari a stimare la terra, i regni, le città e se stesso per il valore che hanno.

Che cos’è un uomo nell’infinito?

Ma, per proporgli un altro prodigio altrettanto stupefacente, vada alla ricerca, in ciò che conosce, delle cose più minute. Gli offra un acaro, nella piccolezza del suo corpo, parti infinitamente più piccole: zampette con giunture, vene nelle zampette, sangue nelle vene, umori in questo sangue, gocce in questi umori, vapori in queste gocce; suddividendo ancora queste ultime cose, consumi tutte le sue forze nel farsene consapevole e l’ultimo oggetto cui riesce ad arrivare sia ora l’oggetto del nostro discorso: forse egli crederà che sia la piccolezza estrema nella natura. Voglio fargli vedere là dentro un nuovo abisso. Voglio figurargli non solo l’universo visibile, ma l’immensità della natura che si può concepire nell’ambito di questo frammento di atomo. Ci veda un’infinità di universi, dotato ciascuno di un suo firmamento, dei suoi pianeti, della sua terra, in proporzioni analoghe a quelle del mondo visibile; in questa terra degli animali e, infine, degli altri acari, nei quali troverà di nuovo quello che ha scoperto nei primi. E, trovando via via negli altri le stesse cose, senza fine e senza posa, si perda in tali meraviglie, altrettanto stupefacenti nella loro piccolezza quanto le altre per la loro immensità. Perché chi non si stupirà che il nostro corpo, che abbiamo appena detto impercettibile nell’universo, a sua volta impercettibile nell’alveo del tutto, sia ora un colosso, un mondo, addirittura un tutto, rispetto al nulla, cui non si può mai giungere?

Chi si considererà così sarà sgomento di se stesso e, vedendosi sospeso, nella massa che la natura gli ha dato, tra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutandosi la sua curiosità in ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio che a indagarle con presunzione.

Perché, insomma, che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, un elemento medio tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui invincibilmente nascosti in un segreto impenetrabile, ugualmente incapace di vedere il nulla da cui è tratto e l’infinito che lo inghiotte.

Che farà, dunque, se non scorgere qualche apparenza della zona mediana delle cose, in una disperazione eterna per non conoscerne né il principio né il termine? Tutte le cose sono uscite dal nulla, e dilatate sino all’infinito. Chi seguirà quegli stupefacenti processi? L’autore di quelle meraviglie lo comprende. Nessun altro può farlo.

Per non aver considerato questi due infiniti, gli uomini si sono volti temerariamente all’indagine della natura, come se avessero qualche proporzione con essa. È cosa strana che abbiano voluto scoprire i princìpi delle cose, e di qui arrivare fino a conoscere tutto, con una presunzione infinita come il loro oggetto. Perché è certo che non si può concepire un tal disegno senza una presunzione o una capacità infinite, come la natura.

[…]

Ci si crede naturalmente molto più capaci di giungere al centro delle cose che di abbracciarne la circonferenza; l’estensione visibile del mondo visibilmente ci sorpassa; ma, siccome noi sorpassiamo le cose piccole, ci crediamo meglio capaci di dominarle, e tuttavia per arrivare al nulla non ci vuole meno capacità che per arrivare al tutto; per tutti e due i casi deve essere infinita; e a me pare che chi avesse conosciuto i princìpi ultimi delle cose potrebbe giungere anche a conoscere l’infinito. L’una cosa dipende dall’altra, e l’una conduce all’altra. I due estremi si toccano e si congiungono a forza di allontanarsi, e si ritrovano in Dio, e in Dio soltanto.

[…]

Navighiamo in un vasto mare, sempre incerti e fluttuanti, sospinti da un estremo all’altro. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, si sottrae alla nostra presa, scivola via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale, e tuttavia il più contrario alla nostra inclinazione; bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base ferma per edificarci una torre che si elevi all’infinito; ma ogni nostro fondamento s’incrina, e la terra si spalanca sino agli abissi.

Non cerchiamo, dunque, né sicurezza, né stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dall’incostanza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono.

[…]

Se l’uomo incominciasse con lo studiare se stesso, capirebbe quant’è incapace di spingersi oltre. Come potrebbe una parte conoscere il tutto? Forse esso aspirerà a conoscere almeno le parti con cui ha qualche proporzione. Ma le parti del mondo sono tutte in tale rapporto e connessione reciproca che io credo sia impossibile conoscere l’una senza l’altra e senza il tutto. […]

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Incomprensibile che Dio esista e incomprensibile che non esista; che al corpo si accompagni un’anima e che noi non abbiamo anima; che il mondo sia creato e che non lo sia; che ci sia un peccato originale e che non ci sia.

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Credete che sia impossibile che Dio sia infinito, senza parti? «Sì». Voglio allora farvi vedere una cosa infinita e indivisibile. È un punto che si muove dappertutto a una velocità infinita; perché è uno in tutti i luoghi ed è tutto intero in ogni posizione.

Questo fenomeno naturale, che vi sembrava prima impossibile, vi faccia conoscere che ce ne possono essere altri che non conoscete ancora. Non dovete trarre da quanto avete appreso la conseguenza che non vi resta niente da sapere, ma che vi resta da sapere ancora infinitamente.

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Il movimento infinito, il punto che riempie tutto, il momento di riposo: infinito senza quantità, indivisibile e infinito.

Infinito/nulla. La nostra anima viene gettata nel corpo, dove trova numero, tempo, dimensioni. Essa vi ragiona sopra, e chiama ciò natura, necessità, e non può credere diversamente.

L’unità aggiunta all’infinito non lo accresce di nulla, non più di quanto un piede potrebbe accrescere una misura infinita. Il finito si annienta davanti all’infinito e diventa un puro nulla. Così il nostro spirito davanti a Dio e la nostra giustizia davanti alla giustizia divina.

[…]

Noi sappiamo che esiste un infinito, e ignoriamo la sua natura. Siccome sappiamo che è falso che i numeri siano finiti, è vero dunque che c’è un infinito numerico. Ma non sappiamo che cosa è: è falso che sia pari, è falso che sia dispari; perché, aggiungendovi l’unità, non cambia affatto natura; tuttavia è pur sempre un numero, e ogni numero è pari o dispari (vero è che ciò si intende di ogni numero finito). Perciò si può benissimo conoscere che esiste un Dio senza sapere che cos’è.

Non c’è forse una verità sostanziale, vedendo noi tante cose che non sono la verità stessa?

Noi conosciamo dunque l’esistenza e la natura del finito, perché come questo siamo finiti ed estesi. Conosciamo l’esistenza dell’infinito e ignoriamo la sua natura, perché ha estensione come noi, ma non ha limiti come noi. Ma non conosciamo né l’esistenza né la natura di Dio, perché non ha né estensione né limiti.

Tuttavia, mediante la fede, conosciamo la sua esistenza; nello stato di gloria conosceremo la sua natura. Ora, io ho già dimostrato che si può ben conoscere l’esistenza di una cosa, senza conoscerne la natura.

Parliamo adesso secondo i lumi naturali.

Se c’è un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha alcun rapporto con noi. Siamo dunque incapaci di conoscere che cos’è né se esiste. Stando così le cose, chi oserà tentare di risolvere questo problema? Non certo noi, che a lui non siamo in alcun modo rapportabili.

Chi biasimerà allora i cristiani di non poter dar ragione del loro credo, essi che professano una religione di cui non possono dar ragione? Esponendola al mondo, dichiarano che è una stupidità, stoltezza; e poi voi vi lamentate che non ne diano le prove! Se la provassero, non sarebbero coerenti con quello che dicono: proprio perché mancano di prove non mancano di criterio. «E sia, ma anche se ciò scusa coloro che la presentano come tale, e li assolve dalla critica di presentarla senza ragione, non scusa però coloro che la accolgono». Esaminiamo allora questo punto e diciamo: «Dio esiste o non esiste». Ma da che parte inclineremo? La ragione non può nel merito determinare nulla: c’è di mezzo un caos infinito. All’estremità di questa distanza infinita si giuoca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Come punterete? Secondo ragione, non potete fare né l’una né l’altra puntata; secondo ragione, non potete escludere nessuna delle due.

Non accusate, dunque, di errore quelli che hanno preso un partito, perché non ne sapete nulla. «No; ma io non li accuserò di aver fatto quella scelta, ma di avere scelto; perché, anche se chi sceglie croce e l’altro incorrono nello stesso errore, sono appunto entrambi in errore: la scelta giusta è stare zitti».

«Sì, ma parlare bisogna; non è un fatto di volontà: come su una barca, se c’è da ballare si deve ballare». Che cosa sceglierete, dunque? Vediamo. Visto che occorre scegliere, vediamo che cosa è più nel vostro interesse. Avete due cose da perdere: il vero e il bene, e due cose da impegnare: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; la vostra natura poi ha due cose da sfuggire: l’errore e l’infelicità. La vostra ragione non subisce un danno maggiore da una scelta piuttosto che dall’altra, perché bisogna assolutamente fare una scelta. Ecco un punto assodato. Ma la vostra beatitudine? Soppesiamo il guadagno e la perdita, scegliendo croce, vale a dire che Dio esiste. Valutiamo i due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete dunque che esiste, senza esitare. «C’è da restare ammirati. Sì, bisogna puntare. Ma forse punto troppo». Vediamo. Poiché ci sono uguali probabilità di vincita e di perdita, se anche non aveste da guadagnare che due vite in cambio di una, varrebbe già la pena di scommettere; se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (perché siete nella necessità di giocare) e sareste imprudente, visto appunto che siete obbligato a giocare, se non azzardaste la vostra vita per guadagnarne tre in un gioco nel quale ci sono uguali probabilità di vincita e di perdita. Ma c’è di mezzo un’eternità di vita e di felicità. E stando così le cose, quand’anche ci fossero infinite probabilità e una sola a vostro favore, avreste comunque ragione di scommettere uno per avere due e agireste scriteriatamente se, essendo obbligato a giocare, rifiutaste di rischiare una vita contro tre in un gioco in cui di infinite probabilità ce ne fosse una a vostro favore, quando ci fosse da guadagnare un’infinità di vita infinitamente felice. Ma qui c’è appunto un’infinità di vita infinitamente felice da guadagnare, una probabilità di vincere contro un numero finito di possibilità di perdere, e quello che rischiate è a sua volta finito. Questo taglia alla radice ogni incertezza: dovunque ci sia l’infinito e non ci siano infinite probabilità di perdere contro quella di vincere, non c’è da esitare, bisogna puntare tutto. E così, quando si è obbligati a giocare, bisogna rinunciare alla ragione per salvare la vita, piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito, altrettanto pronto a venire che la perdita del nulla.

Perché non serve a nulla dire che è incerto se si vincerà, mentre è certo che si rischia e che l’infinita distanza tra la certezza di quanto si rischia e l’incertezza di quanto si può guadagnare eguaglia il bene finito, che si rischia di sicuro, all’infinito, che è incerto. Le cose non stanno così. Ogni giocatore d’azzardo rischia con certezza per un guadagno che non è certo; e nondimeno rischia certamente il finito senza certezza di guadagnare il finito, senza peraltro peccare contro la ragione. Non c’è una distanza infinita tra la certezza di quanto si rischia e l’incertezza del guadagno; ciò è falso. C’è, in verità, una distanza infinita tra la certezza di guadagnare e la certezza di perdere. Ma l’incertezza di vincere è proporzionata alla certezza di ciò che si rischia, secondo la proporzione delle probabilità di vincita e di perdita. Ne deriva che, se ci sono uguali probabilità da una parte e dall’altra, la partita è un gioco alla pari, e la certezza di ciò che si rischia è uguale all’incertezza del guadagno: tutt’altro che esserne infinitamente distante. E così, la nostra proposizione è di una forza infinita quando c’è da rischiare il finito in un gioco in cui esistono pari probabilità di vincita e di perdita e la posta è l’infinito. Ciò ha carattere dimostrativo; e se gli uomini sono capaci di qualche verità, questa lo è. «Lo riconosco, devo ammetterlo. Ma non c’è un mezzo per vedere sotto il gioco?» Sì, la Scrittura e tutto il resto.

«E va bene, ma io ho le mani legate e la bocca muta; mi si obbliga a scommettere, e non sono libero; non mi si dà tregua, e io sono fatto in modo tale da non poter credere. Che cosa volete dunque che io faccia?»

È vero, ma prendete atto almeno della vostra incapacità di credere, visto che la ragione vi ci porta e ugualmente voi non potete farlo. Datevi da fare, dunque, non per convincervi con ulteriori prove dell’esistenza di Dio, ma con una diminuzione delle vostre passioni. Voi volete incamminarvi verso la fede, e non conoscete la strada; volete guarire dall’incredulità, e domandate la medicina: imparate da quelli che sono stati legati come voi, e che scommettono ora tutto il loro bene; sono persone che conoscono la strada che voi vorreste seguire e che sono guarite dal male da cui volete guarire. Imitate il modo con cui hanno incominciato: facendo tutto come se fossero credenti, prendendo l’acqua benedetta, facendo dire delle messe, e così via. Anche nel vostro caso, questo vi farà credere e vi renderà docili come pecore. «Ma è proprio quello che temo.» E perché? Che cosa avete da perdere?

Ma, per dimostrarvi che ciò conduce alla fede, sappiate che diminuirà le vostre passioni, che sono i vostri grandi ostacoli.

Fine del discorso. Ebbene, quale male potrà mai capitarvi prendendo questo partito? Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, generoso, amico sincero, veritiero. Davvero voi non sarete più immerso nei piaceri pestiferi, nella gloria, nel lusso; ma non avrete altri piaceri? Vi dico che in questa vita ci guadagnerete; e che a ogni passo avanti che farete su questa strada, vedrete tanta certezza di guadagno e tanto nulla in ciò che rischiate che riconoscerete alla fine di aver scommesso per una cosa certa, infinita, per la quale non avete dato nulla.

«Oh, questo discorso mi conquista, mi esalta…»

Se questo discorso vi piace e vi sembra valido, sappiate che è fatto da un uomo che si è inginocchiato prima e dopo, per pregare quell’Essere infinito e senza parti, al quale si sottomette interamente, di sottomettere voi in ugual modo per il suo bene e la sua gloria, e che così la forza si accorda con questa umiliazione.

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Se non si dovesse far nulla tranne per quel che è certo, non si dovrebbe far niente per la religione; essa infatti non è certa. Ma quante cose si fanno per l’incerto, i viaggi sul mare, le battaglie! Dico che, allora, non bisognerebbe far niente del tutto, perché nulla è certo; e che nella religione c’è più certezza che nel fatto di vedere il giorno di domani: non è certo, infatti, che vedremo domani, ed è certamente possibile che non lo si veda. Non si può dire la stessa cosa della religione: non è certo che essa sia, ma chi oserà affermare che è certamente possibile che non sia? Ora, quando si lavora per il domani, e per l’incerto, si agisce secondo ragione, perché bisogna lavorare per l’incerto per la regola delle probabilità, che è dimostrata. […]

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Per mezzo delle probabilità, dovete darvi cura di cercare la verità, perché se morite senza adorare il vero principio, siete perduto. «Ma» dite voi «se avesse voluto che lo adorassi, mi avrebbe lasciato segni della sua volontà». Così ha fatto; ma voi li trascurate. Cercateli dunque; ne vale la pena.

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[…]

«Incredibile che Dio si unisca a noi». Questa considerazione si fonda solo sulla vista della nostra bassezza. Ma, se ne siete sinceramente convinti, guardate la cosa dalla distanza da cui la guardo io, e riconoscerete che effettivamente siamo tanto in basso da non essere in grado di conoscere da noi stessi se la sua misericordia possa o non possa renderci degni di lui. Vorrei infatti sapere donde questo animale, che si riconosce tanto debole, tragga il diritto di misurare la misericordia di Dio, e di assegnarle i limiti che la sua fantasia gli suggerisce. Sa così poco che cos’è Dio, che non sa nemmeno che cos’è lui stesso; e, tutto confuso dalla vista della propria condizione, osa dire che Dio non può renderlo capace di comunicare con lui.

Vorrei anche chiedergli se Dio gli domanda altro che di amarlo e conoscerlo, e perché mai è convinto che Dio non possa farsi conoscere e farsi amare da lui, visto che è naturalmente capace di amore e di conoscenza. Non c’è dubbio infatti che sa almeno di esistere, e di amare qualcosa. Dunque, se vede qualcosa nelle tenebre in cui è immerso, se trova degli oggetti d’amore tra le cose della terra, perché, se Dio gli fa intravedere qualche barlume della sua essenza, non sarà capace di amarlo nel modo di mettersi in comunicazione con noi che gli piacerà? C’è dunque senza dubbio un’insopportabile presunzione in questi ragionamenti, benché sembrino fondati su un’umiltà apparente, che non è né sincera né ragionevole se non ci induce a confessare che, non sapendo da noi stessi chi siamo, non possiamo saperlo che da Dio. […]

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Probabilità. Bisogna vivere diversamente nel mondo secondo queste due ipotesi: primo, di poterci restare sempre; secondo, se è sicuro che non si resterà in esso a lungo e incerto se ci si resterà per un’ora. Questa seconda ipotesi è la nostra.

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Ci sono solo tre specie di persone: quelle che servono Dio, avendolo trovato; quelle che sono impegnate a cercarlo, non avendolo trovato; quelle che vivono senza cercarlo né averlo trovato. Le prime sono ragionevoli e felici; le ultime sono fuori di senno e infelici; quelle in mezzo infelici e ragionevoli.

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… Che si informino almeno sulla religione che combattono, prima di combatterla. Se questa religione si vantasse di avere una chiara nozione di Dio e di possederla apertamente e senza veli, sarebbe combatterla il dire che non si vede nulla nel mondo che lo mostri con tale evidenza. Ma siccome dice invece che gli uomini sono immersi nelle tenebre e nella lontananza di Dio, che questi si è celato alla loro conoscenza (e questo è persino il nome che si dà nelle Scritture: Dio nascosto); e infine, poiché essa punta ugualmente a stabilire queste due cose, vale a dire che Dio ha impresso segni tangibili nella Chiesa per farsi riconoscere da quanti lo avrebbero sinceramente cercato e che contemporaneamente li ha coperti in modo tale da non essere percettibili se non da quanti lo cercano con tutto il cuore, quale vantaggio possono trarre costoro, quando, nell’indifferenza che professano per la ricerca della verità, gridano che non c’è nulla che gliela mostri, perché quell’oscurità in cui si trovano e che rinfacciano alla Chiesa non fa che attestare una delle cose che essa insegna, senza intaccare l’altra, e avvalora la sua dottrina, ben lungi dall’infirmarla?

[…]

Posso aver compassione solo per coloro che soffrono sinceramente nel dubbio, che lo considerano la peggiore delle disgrazie e che, non lasciando nulla di intentato per liberarsene, fanno di questa ricerca la loro principale e più seria occupazione.

Ma quelli che vivono senza pensare al termine ultimo della vita e che, per la sola ragione che non trovano in se stessi lumi che li persuadano, trascurano di cercarli altrove e di esaminare a fondo se tale opinione sia quella che la gente semplice accoglie per creduloneria, o appartenga a quelle che, sebbene di per sé oscure, hanno tuttavia un fondamento molto solido e incrollabile, li considero in maniera del tutto diversa.

Questa negligenza in una cosa in cui sono in gioco loro stessi, la loro eternità, il loro tutto, mi irrita più che suscitare in me della pietà; mi stupisce e mi spaventa, è per me una mostruosità. Io non dico questo per il pio zelo di una devozione spirituale. Penso al contrario che si dovrebbe avere un tale sentimento per un principio di interesse umano e per un interesse personale: basta solo vedere in proposito quello che scorgono le persone meno illuminate.

Non occorre avere un’anima molto elevata per capire che non ci sono quaggiù soddisfazioni vere e durature, che tutti i nostri piaceri non sono che vanità, che i nostri mali sono infiniti e che infine la morte, la quale ci minaccia ogni momento, dovrà infallibilmente metterci nel volgere di pochi anni nella necessità orribile di essere per l’eternità o annientati o infelici.

Non c’è nulla di più reale di questo né di più terribile. Facciamo pure gli spavaldi quanto ci piace: ecco la fine che attende la più bella vita del mondo. Si rifletta su ciò e si dica poi se non è indubitabile che in questa vita non c’è un bene che non sia la speranza di un’altra vita, che non si è felici se non nella misura in cui a questa ci si approssima e che, come non ci saranno più mali per quelli che abbiano certezza piena dell’eternità, così non ci potrà essere felicità per quelli che non ne hanno alcuna luce.

È dunque sicuramente un gran male essere in tale dubbio; ma cercare è almeno un dovere indispensabile, quando ci si trovi in un dubbio come questo; perciò chi dubita e non cerca è, insieme, sommamente infelice e sommamente ingiusto; se poi con tutto ciò è tranquillo e soddisfatto, lo dichiara apertamente e infine se ne vanta, e anzi trae da questo stesso stato motivo di gioia e di vanità, io non ho parole per definire un essere così stravagante.

[…]

«Non so chi mi ha messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa sia io stesso; sono in un’ignoranza spaventosa di tutto; non so che cosa sono il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa ciò che dico, che riflette su tutto e su se stessa, e non si conosce più del resto.

Vedo questi spaventosi spazi dell’universo che mi rinchiudono, e mi trovo fissato in un angolo di questa vasta distesa senza sapere perché son messo in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché il poco tempo che mi è dato da vivere mi sia stato assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi precede e di tutta quella che mi segue. Io non vedo che infinità da ogni parte, che mi assorbe come un atomo e come un’ombra che dura solo un istante senza ritorno. Tutto quello che so è che devo morire presto, quello che conosco di meno è questa stessa morte che non posso evitare.

Come non so da dove vengo, così non so dove vado; so soltanto che uscendo da questo mondo cadrò per sempre o nel nulla o in potere di un Dio sdegnato, senza sapere quale di queste due condizioni sarà eternamente la mia sorte. Ecco il mio stato, pieno di debolezza e di incertezza. E da tutto ciò concludo dunque che devo passare tutti i giorni della mia vita senza impegnarmi per sapere che cosa mi deve succedere. Forse potrei trovare qualche chiarimento ai miei dubbi; ma non voglio darmene la briga, né fare un passo per cercarlo; in compenso, trattando con disprezzo quelli che si siano impegnati in questa ricerca, voglio procedere imprevidente e senza timori, affrontare un evento così grande, e lasciarmi mollemente condurre alla morte nell’incertezza dell’eternità della mia condizione futura».

[…]

Chi vorrebbe come amico uno che facesse discorsi di tal genere? chi lo sceglierebbe tra tanti per confidargli le cose sue? chi ricorrerebbe a lui nei momenti di pena? e, in definitiva, a quale uso della vita lo si potrebbe destinare?

In verità, torna in gloria della religione avere per nemici uomini così insensati; e la loro opposizione le è così poco di danno che torna addirittura utile al consolidamento delle sue verità. Perché la fede cristiana insegna praticamente solo queste due cose: la corruzione della natura e la redenzione operata da Gesù Cristo. Ora, io sostengo che se costoro non servono a dimostrare la verità della redenzione attraverso la santità dei loro costumi, servono almeno a mostrare in modo mirabile la corruzione della natura attraverso dei sentimenti così snaturati.

Niente è così importante per l’uomo quanto il suo stesso stato; niente per lui è così terribile come l’eternità; pertanto, che si trovino uomini talmente indifferenti alla perdita del loro essere e al pericolo di un’eternità di miserie, non è proprio naturale. Si comportano in tutt’altro modo nelle altre faccende: temono anche per le cose più futili, fanno in proposito delle previsioni, le sentono; e quello stesso uomo che passa giorni e notti intere nella rabbia e nella disperazione per la perdita di una carica o per qualche offesa immaginaria al suo onore è lo stesso che sa di dover perdere tutto con la morte, senza per altro provare inquietudine ed emozione. È una cosa mostruosa vedere nello stesso cuore e nello stesso tempo tanta sensibilità per le cose di nessun conto e tanta strana insensibilità per le più importanti. È un incomprensibile incantamento, un torpore sovrannaturale, che rivela la forza onnipotente che lo causa. […]

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Fascino delle cose vane. Affinché la passione non ci nuoccia, facciamo come se non ci restassero che otto giorni di vita.

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Un uomo in prigione, che non sa se la sua sentenza è stata pronunciata, che non ha più di un’ora per saperlo, essendo quest’ora sufficiente, se sapesse che la sentenza è stata pronunciata, per farla revocare, è contro natura che impieghi quest’ora non a informarsi appunto se la sentenza è stata pronunciata, ma a giocare a picchetto. […]

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«Avrei già abbandonato i piaceri» essi dicono «se avessi la fede». E io vi dico: «Avreste già la fede, se aveste abbandonato i piaceri». Ora, tocca a voi incominciare. Se potessi, vi darei la fede; non posso farlo, e di conseguenza non posso provare la verità di ciò che dite. Voi invece potete abbandonare i piaceri, e verificare se quello che dico io è vero.

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Superstizione e concupiscenza. Scrupoli, cattivi desideri. Timore maligno: quel timore che nasce non dal credere in Dio, ma dal fatto di dubitare se esista o no. Il timore buono viene dalla fede, il timore cattivo viene dal dubbio. Il timore buono s’accompagna alla speranza, perché nasce dalla fede e si spera nel Dio in cui si crede: quello cattivo si accompagna alla disperazione, perché si teme quel Dio nel quale non si ha fede. Gli uni temono di perderlo, gli altri di trovarlo.

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[…]

Alzate il sipario. Non si sfugge: bisogna o credere, o negare, o dubitare. Non ci sarà dunque una regola? Degli animali giudichiamo che fanno bene quello che fanno. Non ci sarà dunque una regola per giudicare l’uomo?

Negare, credere e dubitare a proposito sono per l’uomo quello che il correre è per il cavallo.

Punizione di quelli che peccano: l’errore.

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Sottomissione. Bisogna saper dubitare quando occorre, affermare quando occorre, sottomettersi quando occorre. Chi non fa così non intende la forza della ragione. Ci sono persone che peccano contro queste tre regole: o affermando tutto come dimostrativo, perché non se ne intendono di dimostrazioni; o dubitando di tutto, perché non sanno quando ci si deve sottomettere; o sottomettendosi in tutto, perché non sanno quando è d’obbligo giudicare.

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Il passo supremo della ragione è il riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano; è ben debole, se non giunge a riconoscerlo.

E se le cose naturali la sorpassano, che cosa dire di quelle soprannaturali?

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I più significativi argomenti degli scettici (tralascio i minori) sono che, fuori della fede e della rivelazione, non abbiamo alcuna certezza della verità di quei princìpi, a parte il fatto che li sentiamo naturalmente in noi. Ma questo sentimento naturale non è una prova convincente della loro verità perché, non essendoci affatto certezza, fuori della fede, che l’uomo sia stato creato da un Dio buono, piuttosto che da un genio maligno o dal caso, resta sempre in dubbio se quei princìpi ci siano stati dati come veri, o falsi, o incerti, a seconda della loro origine. Inoltre nessuno ha la sicurezza, fuori della fede, di essere sveglio o di dormire, visto che durante il sonno si crede fermamente di essere desti esattamente come quando lo si è: si crede di vedere spazi, figure, movimenti; si percepisce lo scorrere del tempo e lo si misura; insomma, ci si comporta come da svegli, dimodoché, trascorrendo, come noi stessi confessiamo, metà della vita nel sonno, in cui, checché ce ne sembri, non abbiamo alcuna cognizione del vero, essendo in quello stato tutti i nostri sentimenti delle illusioni, chi sa se l’altra metà della vita in cui pensiamo di essere svegli non è un altro sonno un po’ diverso dal primo, da cui ci svegliamo quando crediamo di addormentarci?

[…]

Mi soffermo sull’unico argomento forte dei dogmatici: quando si parla in buona fede e sinceramente, non si può dubitare dei princìpi naturali. Al che gli scettici oppongono per dirla in breve l’incertezza della nostra origine, che implica quella della nostra natura, un’obiezione alla quale i dogmatici da che mondo è mondo hanno ancora da rispondere.

Ecco dichiarata la guerra tra gli uomini, in cui bisogna che ciascuno prenda partito, e si schieri necessariamente con i dogmatici o con gli scettici. Perché chi pensasse di restare neutrale sarebbe scettico per eccellenza; la neutralità infatti è l’essenza del loro sistema: chi non è contro di loro è perfettamente con loro (e in ciò sta il loro vantaggio). Essi non parteggiano per sé; sono neutrali, indifferenti, hanno sospeso il giudizio su tutto, compresi se stessi.

Che cosa farà dunque l’uomo in questo stato? Dubiterà di tutto? Dubiterà di essere sveglio, se lo pizzicano, se lo scottano? Dubiterà di dubitare? Dubiterà di esistere? Non si può arrivare fino a questo punto; e io tengo per fermo che non è mai esistito un vero scettico perfetto. La natura soccorre la ragione impotente e le impedisce di vaneggiare fino a questo punto.

Dirà allora, in senso contrario, che possiede con certezza la verità, lui che, per poco che lo si metta alle strette, non può esibirne alcun titolo, ed è costretto a lasciare la presa?

Che chimera è dunque l’uomo? Che novità, che mostro, che caos, che soggetto di contraddizione, che prodigio! Giudice di tutte le cose, stupido verme di terra; depositario della verità, cloaca d’incertezza e d’errore. Gloria e pattume dell’universo.

Chi scioglierà questo garbuglio? La natura confonde gli scettici, e la ragione confonde i dogmatici. Che cosa dunque diventerete, uomini, che cercate qual è la vostra vera condizione mediante la vostra ragione naturale? Non potete sfuggire né l’uno né l’altro di questi due partiti, né essere saldi in nessuno.

Conosci, dunque, superbo, quale paradosso sei per te stesso. Umiliati, ragione impotente; taci, natura imbecille: imparate che l’uomo supera infinitamente l’uomo e apprendete dal vostro signore la vostra condizione vera, che ignorate. Ascoltate Dio. […]

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Anche per quanto concerne la fede, sono pochi i veri cristiani. Ci sono molte persone che credono, ma per superstizione; ce ne sono molte che non credono, ma per libertinaggio: poche persone stanno tra questi due estremi. Io non faccio rientrare in questa categoria che coloro i quali regolano i loro costumi sulla vera pietà e tutti coloro che credono per un sentimento del cuore.

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Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce, e lo si coglie in mille cose. Io dico che l’uomo con il cuore ama naturalmente l’essere universale e naturalmente se stesso, a seconda di ciò cui si dedica; e si indurisce contro l’uno o contro l’altro, per sua scelta. Voi avete respinto l’uno e serbato l’altro: amate forse voi stessi per mezzo della ragione?

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[…]

La ragione agisce con lentezza, e con tanti concetti, tanti princìpi, che bisogna siano sempre tenuti presenti, al punto che ogni momento si assopisce o si perde perché non ha appunto presenti tutti i princìpi. Il sentimento non opera così: agisce in un istante, ed è sempre pronto ad agire. Bisogna dunque riporre la nostra fede nel sentimento, altrimenti sarà sempre vacillante.

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È il cuore che sente Dio, non la ragione. Ecco che cos’è la fede, Dio sensibile al cuore, non alla ragione.

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[…]

Le penitenze esteriori predispongono a quella interiore, come le umiliazioni all’umiltà. […]

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È essere superstiziosi il riporre la propria speranza nei riti esteriori, ma è essere superbo il non volercisi sottomettere.

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Le altre religioni, come quelle pagane, sono più conformi al popolo, perché si esprimono in esteriorità, ma non sono per le persone colte. Una religione puramente intellettuale sarebbe più conforme a costoro, ma non andrebbe bene per il popolo. Solo la religione cristiana è rispondente alle esigenze di tutti, perché è un misto di esteriore e di interiore. Essa eleva il popolo all’interiorità e abbassa i superbi all’esteriorità; e non è perfetta senza le due cose, perché è necessario che il popolo intenda lo spirito della lettera e che le persone colte sottomettano il loro spirito alla lettera.

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L’uomo è fatto in modo tale che, a forza di dirgli che è uno sciocco, ci crede; e, a forza di dirlo a se stesso, s’induce a crederci. L’uomo infatti fa da solo una conversazione interiore, che è importante regolare bene: Corrompono i buoni costumi le cattive conversazioni. Bisogna restare in silenzio più che si può, e intrattenersi soltanto con Dio, che si sa essere la verità; così si finisce con il persuaderne se stessi.

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Seconda parte. Senza la fede l’uomo non può conoscere né il vero bene né la giustizia. Tutti gli uomini, senza eccezione, cercano di essere felici; anche se usano mezzi diversi, tendono tutti a questo fine. Ciò che spinge alcuni ad andare in guerra, e altri a non andarci, è sempre questo desiderio, che è negli uni e negli altri, anche se vissuto sotto diversi punti di vista. La volontà non si muove mai di un passo se non in questa direzione. È il movente di tutte le azioni di tutti gli uomini, anche di quelli che decidono di impiccarsi.

Tuttavia, dopo un così gran numero di anni, mai nessuno, senza la fede, è giunto a quella meta cui tutti tendono continuamente. Tutti si lamentano: principi, sudditi; nobili, plebei; vecchi, giovani; forti, deboli; dotti, ignoranti; sani, malati; di ogni paese, di tutti i tempi, di tutte le età e di tutte le condizioni.

Una provocazione così lunga, così continua e così uniforme, ci dovrebbe pur convincere della nostra incapacità di giungere al bene con le sole nostre forze; ma l’esempio ci insegna poco. Un caso non è mai così perfettamente simile a un altro che non ci sia qualche piccola differenza; ed è per questo che noi speriamo che la nostra attesa non sia delusa in questa occasione come nella precedente. E così, il presente non ci soddisfa mai, l’esperienza si prende gioco di noi, e, di male in male, ci conduce fino alla morte, che ne è il culmine eterno.

Che cosa dunque ci gridano questo desiderio avido e questa impotenza, se non che un tempo c’è stata nell’uomo una vera felicità, di cui non gli restano attualmente che un segno e un involucro del tutto vuoto, che egli cerca inutilmente di riempire con tutto ciò che lo circonda, chiedendo alle cose assenti l’aiuto che non ottiene dalle presenti, che sono tutte incapaci di darglielo, perché quell’abisso infinito non può essere colmato che da un essere infinito e immutabile, vale a dire da Dio stesso?

Lui solo è il suo vero bene; e, da quando l’ha abbandonato, è strano che non ci sia niente nella natura che non sia stata chiamata a tenerne il posto: astri, cielo, terra, elementi, piante, cavoli, porri, animali, insetti, vitelli, serpenti, febbre, peste, guerra, carestia, vizi, adulterio, incesto. E da quando ha perduto il vero bene, tutto può ugualmente sembrargli tale, addirittura la sua stessa distruzione, benché così contraria a Dio, alla ragione e alla natura contemporaneamente.

Gli uni lo cercano nel potere, gli altri nelle curiosità e nelle scienze, altri nei piaceri del corpo. Altri ancora, che ci si sono in effetti avvicinati di più, hanno valutato che il bene universale, che tutti gli uomini desiderano, non sta in nessuna delle cose particolari che possono essere possedute esclusivamente da uno solo, le quali, se distribuite, affliggono di più chi le possiede, per la mancanza della parte che non ha, di quanto non lo appaghino per la gioia della parte che gli è toccata. Hanno compreso che il vero bene deve essere tale per cui tutti lo possano possedere a un tempo, senza diminuzione e senza invidia, e senza che nessuno possa perderlo suo malgrado. […]

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Ordine. Avrei molta più paura d’ingannarmi, e trovare poi che la religione cristiana è vera, che non d’ingannarmi credendola vera.

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Una delle confusioni dei dannati sarà quella di vedere che sono condannati dalla loro ragione, con la quale hanno preteso di condannare la religione cristiana.

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Vanità delle scienze. La scienza delle cose esteriori non mi consolerà dell’ignoranza della morale, nel momento del dolore; ma la morale mi consolerà sempre dell’ignoranza della scienza.

Tratto da: Blaise Pascal, Pensieri