Benché nell’intervallo secolare fra la prima descrizione di Eroclito (630 a.C.) e le recenti ricostruzioni di Maanen e Palladino non vi siano stati che pochi sporadici cenni sulla sigurya, abbiamo oggi una conoscenza abbastanza esauriente di questa pianta, grazie specialmente alla paziente opera di ricerca svolta al Laboratorio Botanico di Saragozza.
Il nome “sigurya” fu dato alla pianta dall’insigne flamencologo Donado Malgueña, fratello del botanico Juan Domingo Malgueña che per molti anni fu preside della facoltà di biologia dell’Università di Saragozza e che, ancora oggi, dirige l’Orto Botanico di quella città. Fu nella Biblioteca Reale, ricca di antiche opere scientifiche e pseudoscientifiche, che Juan Malgueña vide per la prima volta un’immagine della pianta a lui sconosciuta. Gli era capitato fra le mani il rarissimo De plantarum mysteriis di Paulus Aversus, un erbario fantastico del XV secolo, e lo sfogliava lentamente quando, in una delle grandi xilografie del Van Wittens che illustrano il magnifico volume, accanto alle raffigurazioni di ibridi mostruosi, in parte pianta, in parte animale, scorse alcune piante dalle apparenze stranamente plausibili. Non gli fu difficile riconoscere il Laudanus umbrosus, la Clariola foliata e l’Opercus espinatus, ma nella sua memoria non riuscì a trovar traccia di quell’altra pianta dalle piccole radici aeree e lo strano fior-frutto, tutto bitorzoluto, che si staccava chiaramente dallo sfondo. L’immagine gli ritornò alla mente la mattina dopo, quando, solo nel grande viale palmato, s’incamminò verso il palazzetto dell’amministrazione dell’Orto Botanico. Fu allora che Juan Malgueña decise di documentarsi su quella pianta sconcertante, dall’aspetto così normale ma inequivocabilmente appartenente a un’altra flora. È soprattutto alle ricerche del grande, anziano botanico spagnolo che dobbiamo le nostre attuali conoscenze della sigurya.
Marcello Vanni racconta, in un articolo pubblicato l’anno scorso negli “Annali di botanica parallela”, come egli ebbe la conferma delle ambigue caratteristiche morfologiche della sigurya che tanto colpirono l’immaginazione del Malgueña. «Avevo eseguito» scrive «su indicazione della mia assistente Paola Samonà, responsabile della documentazione iconografica del mio laboratorio, alcuni disegni a matita della sigurya, disegni assai dettagliati e particolarmente convincenti. Li volevo portare a Parigi per farne omaggio a Juan Malgueña che avrebbe presieduto il Congresso di Botanica Parallela che quell’anno si doveva svolgere al Jardin des Plantes. Appena arrivai a Parigi telefonai al vecchio amico per un appuntamento e decidemmo d’incontrarci al Café de Flore, a Saint-Germain des Prés, dove molti dei congressisti erano alloggiati. Quando arrivai, trovai l’anziano scienziato in compagnia della moglie e di alcuni amici comuni, fra cui il noto fotografo italiano Ugo Mulas. Nel corso della conversazione scoprimmo che quel giorno era il settantesimo compleanno della señora Malgueña. Approfittai dell’occasione per presentare a lei i disegni che avevo portato a suo marito. Tutti li studiarono con grande attenzione e, mentre si parlava animatamente dell’esotica pianta, Ugo Mulas lasciò il tavolo, ma nessuno ci fece caso. Ce ne accorgemmo quando riapparve una decina di minuti dopo con un gran mazzo di fiori che offerse alla neosettantenne. Vi furono applausi e grida di “Buen compleaño”, a cui partecipò anche un gruppo di giovani turisti americani dall’aria un po’ hippy che intonarono “Happy birthday, dear Señora”. Nella confusione festosa Mulas mi mise nelle mani un pacchettino di carta velina e mi guardò con aria misteriosa. Lo aprii pieno di curiosità e non potei credere ai miei occhi: un fiore secco, o forse un frutto, quasi identico a quello della sigurya dei disegni. Il fotografo mi raccontò che, quando l’aveva visto dal fioraio dove aveva comperato il mazzo per la señora Malgueña, non era rimasto meno sbalordito.
«Dopo la festicciola improvvisata andammo tutti dal fioraio, sperando di trovare altri esemplari dello strano fiore-frutto. Il fioraio disse di non averne più. Gli chiedemmo il nome della pianta. L’uomo frugò a lungo fra vecchi cataloghi e mazzi di fatture, ma inutilmente.
«Juan Malgueña si assunse l’incarico di documentarsi alla piccola biblioteca del Jardin e la sera seguente, all’inaugurazione del Congresso, egli mi consegnò un foglietto con le sue annotazioni. Si trattava del frutto della Santilana panamensis, della famiglia dei Felinoteni, originariamente del Panama, ma sopravvissuta in alcune isole del Mar dei Caraibi. Gli indigeni delle isole fanno seccare il frutto che poi vendono agli esportatori di piante decorative. È una pianta abbastanza comune, pare, ma che stranamente era sconosciuta a tutti i botanici e biologi del nostro gruppo. Mentre il frutto floreato assomiglia a quello della sigurya, il resto della pianta ha caratteristiche assai diverse. Si tratta di una pianta a fusto endinodeo di media altezza e dalle grandi foglie coriolate. La radice è rizomata e si propaga sotto terra producendo in media una decina di piante individuali».
Il filosofo greco Eroclito, capo della scuola di Gynos che fiorì nel VI secolo a.C. e che inventò la teoria strobologica del linguaggio, fu il primo a fornire una descrizione abbastanza dettagliata della sigurya, alla quale aveva dato il nome di “gynospa”. Le sue osservazioni ci sono giunte attraverso una traduzione, purtroppo priva dello stile martellante tipico di Eroclito, nella quale la sigurya è descritta come «una pianta il cui fiore sembra una testa piena di nasi e che porta una gonna frangiata che ricorda quelle portate dalle vestali dell’oracolo di Markos». In quanto alla grandezza della pianta, dice che «è alta come mio figlio decenne Demoklitos: una capra dovrebbe alzar la testa per mangiarne il frutto». Eroclito fa confusione fra il frutto e il fiore, ma descrive con sorprendente accuratezza il suo primo incontro con la pianta. James Fadden ha tentato di ricostruire il racconto nel bizzarro stile originale quasi incomprensibile, caratteristico della scuola strobologica, e che ha suggerito a poeti moderni come Burroughs e altri il cut up della poesia contemporanea.
Eccone l’allucinante inizio:
«A Tha (retrostante) mos (Es-tor) Demoklitos (Teostate) ed io co (olive)gliere Demo (Teo) klitos (state) chiamare. Pian (ta pian) ta (pian) ta gonna Mar (vestali) kos tes (naso naso na) (so) ta».
In termini più banali, ma certo di maggior chiarezza, è la descrizione di Maanen e Palladino che accompagna la ricostruzione in legno che i due scultori-scienziati hanno eseguito della pianta. Maanen e Palladino erano già noti per i modelli lignei del Museo Oesterman di Nimega che riproducono in misura enormemente ingrandita minuscoli dettagli di piante normali come il pistillo e il cromostene dei colidotteni. Famoso il loro modello di una colonia di cellule della folia antrex ingrandita 1.500 volte e che mostra con chiarezza la tendenza orientativa di cellule perimetriche nel processo di crescita direzionale e selettiva. Fu Juan Malgueña a interessare i due ricercatori alle piante parallele e in particolare alla sigurya da lui studiata con tanta passione. Lo stupendo modello di Sigurya barbulata che è esposto nella vetrina che si trova al centro del grande ingresso dell’Istituto di Botanica di Saragozza è delle loro mani. È diventata una specie di punto di riferimento per tutte le descrizioni della pianta, anche se presenta caratteristiche particolari, difficilmente generalizzabili. Il modello è in grandezza naturale e riproduce una Sigurya barbulata così come era stata studiata e ricostruita dal Malgueña, che strettamente collaborò con Maanen e Palladino.
Il testo che si riferisce al modello e che è fornito gratuitamente ai visitatori del laboratorio contiene le seguenti informazioni. Si conoscono oggi sei varietà di sigurya, ma è probabile che nei prossimi anni il numero aumenterà notevolmente. Sono, in ordine di grandezza: la Sigurya geans grandiceps (bigheaded); la Sigurya montalbana; la Sigurya barbulata; la Sigurya afrocarpus (darkfruited); la Sigurya microthele (smallnippled); la Sigurya minima. È stata poi segnalata da Peter Foreman una varietà acquatica, nativa della Ottogonia, che si chiama Sigurya natans.
La barbulata di Saragozza (TAV: XXXI) è la prima che fu segnalata in Occidente. L’altezza totale della pianta, così com’è, è di 62 centimetri. Il Malgueña calcolò che, drizzando la curva dello stelo che porta il cefalocarpus, l’altezza aumenterebbe di 17 centimetri. Lo stelo o fusto si chiama corpus e ha qualche rassomiglianza con la colunna del giraluna, benché sia assai più sottile e slanciato. È munito di tre collane di radici aeree, che Malgueña chiama bàrbole e che si sovrappongono disordinatamente. Hanno un diametro massimo di 4 millimetri, e sono l’equivalente delle pendolane del giraluna. Il corpus ha un diametro di 22 centimetri alla base e di 3 centimetri nella parte più alta, quella che si curva in giù e regge il cefalocarpus.
Il cefalocarpus è la parte più caratteristica della sigurya. È una specie di frutto dalla forma del tutto irregolare e dal quale sporgono torno torno delle protuberanze di varia lunghezza. Sulla natura del cefalocarpus, che ha forti rassomiglianze con il frutto della Santilana panamensis, vi sono molte contrastanti ipotesi. Il Malgueña rifiuta di considerarlo l’equivalente parallelo di un vero frutto, benché del frutto abbia l’apparenza. I suoi collaboratori, nel corso dei lavori di ricostruzione, ne parlavano come della testa e fu così che Malgueña coniò il nome cefalocarpus. Per il Malgueña il cefalocarpus è la pianta vera e propria, il resto (corpus) non essendo che un sostegno necessario, come lo sarebbe la base per una lampada. A conferma della sua tesi vi sarebbero le segnalazioni di due Sigurya afrocarpus, dove il corpus è totalmente assente, nonché di una minima anch’essa dal fusto quasi inesistente, scoperta da John Harpers nelle vicinanze di Opanò, sull’isola di Venderas.
Olaf Rasmussen, che dirige il Centro di Ricerche Parabotaniche di Omlo¯e, nella sua relazione al Congresso di Copenhagen espresse il suo disaccordo con la tesi del Malgueña. Secondo lo scienziato norvegese, non esiste in tutta la botanica un frutto o parafrutto che non sia in qualche maniera sorretto. Perfino la Miniprotorbis, osserva, ha una base che tiene la parte più espressiva della piantina sollevata da terra. Per il Rasmussen gli esemplari citati dal Malgueña sarebbero solo frammenti di piante spezzate, prima o dopo la parallelizzazione. In una lettera aperta, nel bollettino del centro di Omlōe, egli esorta i colleghi del Ghana a ritornare al fiume Tarno, dove gli esemplari di afrocarpus furono scoperti, alla ricerca degli eventuali fusti.
Il fatto è che, purtroppo, specie per piante del gruppo beta come la sigurya, le notizie che arrivano da terre lontane sono spesso frammentarie, approssimative e quasi sempre di seconda mano. Ma a parte la ricostruzione meticolosamente fedele del Malgueña abbiamo la fortuna di avere le informazioni che ci sono giunte per la generosità di Ricardo Martinez, uno degli archeologi responsabili dei recenti scavi effettuati nelle vicinanze di Oaxaca in Messico, non lontano dal sito della famosa “tomba n.7” di Monte Albán.
Nell’opuscolo Omaggio a Gutierrez il Martinez ci racconta come egli scoprì, nel piccolo atrio dal quale parte il corridoio sotterraneo che doveva condurre alla cameretta centrale della piramide n.3 (“la Desnuda”), un grande bucchero nero ornato di graffiti aztechi e contenente antiche armi. Dapprima, pensando che si trattasse di armi azteche di foggia sino allora sconosciuta, la scoperta fu considerata sensazionale. Ma un esame più accurato ben presto ne ridimensionò l’importanza. Il Martinez infatti si rese conto, da esami carboscopici, che mentre il recipiente era sicuramente azteco, le armi vi erano state poste in un secondo tempo, probabilmente per nasconderle. Alla delusione dell’archeologo doveva sostituirsi l’esultanza del professor Pedro Gutierrez, l’anziano direttore onorario della Scuola di Botanica di Vera Cruz, il quale, sofferente di un grave enfisema polmonare, si trovava in vacanza allo stesso albergo, il “Marqués del Valle”, dove era alloggiato il Martinez. I due si conoscevano da tempo e la sera s’incontravano sulla terrazza dell’albergo, che dava sulla piazza alberata dove la sera, dal chiosco liberty, un gruppo di Mariaches a ogni improvviso squillo di tromba faceva esplodere dagli alberi nuvole di uccelli, mentre nei viali ragazzi oltecos giocavano a nascondersi dietro ai grandi tronchi dei giacaranda in fiore. Fu in una di quelle magiche sere messicane, quando il tramonto sembra aver dimenticato un po’ del suo rosso dorato nel nero della notte, che Martinez confessò al Gutierrez le sue perplessità sulle armi che aveva scoperte nella “Desnuda”. Egli invitò l’amico a visitarlo al sito.
Il giorno dopo Gutierrez si fece condurre a Monte Albán dove l’archeologo alzò il coperchio di una grande scatola per mostrargliene il deludente contenuto. Vi erano machetes da combattimento, lame di lance decorate con simboli stilizzati e altri oggetti di metallo. E sul mucchio giaceva, legata a una sottile e logora cinghia di cuoio, una forma bizzarra, vagamente rassomigliante alle mazze medievali, uno strano oggetto un po’ arrugginito che Gutierrez prese in mano con cura ma con ovvia emozione. La forma era organica e poco più grande di un pugno. Era totalmente coperta da grosse protuberanze, specie di tentacoli di vario spessore e disegno. Sembravano dita o piccole pendolane e ve ne erano una trentina. Non v’era dubbio: la forma era quella del cefalocarpus della sigurya. Nella mente di Gutierrez le domande cominciarono a rincorrersi disordinatamente. Era una coincidenza? Una pianta metallizzata? Una copia? Un concrezione di ferro? Un fossile?
L’anziano scienziato si fece imprestare l’oggetto e lo portò nella sua camera al “Marqués del Valle”. «Gutierrez» scrive Martinez «rimase in incomunicado per tre giorni. La sera del quarto apparve al caffè all’ora dell’aperitivo, tutto arzillo nel suo vestito di lino bianco e, accompagnato dalle note dolcemente echeggianti di un duetto di Marimba che la Pro loco di Oaxaca aveva ingaggiato per una settimana, egli mi confermò la sua intuizione sullo strano oggetto». Consegnò poi all’amico alcuni fogli con annotazioni e disegni schematici che Martinez riprodusse in fac-simile nell’opuscolo. Gutierrez morì a Vera Cruz poche settimane dopo il suo ritorno da Oaxaca.
Insieme con la ricostruzione di Saragozza il racconto di Martinez e le note di Gutierrez costituiscono la documentazione più completa e più seria sulla sigurya. Non vi è dubbio ora che il cefalocarpus di Monte Albán è una pianta completa, confermando così la tesi del Malgueña. Appoggiate sulla terra, come la vediamo in una fotografia del Martinez, le protuberanze sembrano proprio delle corte pendolane di cui alcune, come normali radici, sembrano ancorare la pianta alla terra, mentre altre sembrano cercare disperatamente, come le braccia di un cieco, qualche inesistente appiglio nell’aria. Quello che né Gutierrez né Malgueña sono riusciti a spiegare in modo convincente è la natura metallica della pianta. Nelle sue note Gutierrez parla di un processo simile alla pietrificazione degli alberi nella foresta del Yosemite, in California. Il punto di vista implicherebbe un processo per rendere permanente una pianta che, già per la sua natura parallela, è permanente: la trasformazione, attraverso i lentissimi processi della mineralizzazione, di una non materia che esiste fuori dal tempo. Tutto ciò non è compatibile con le premesse teoriche della botanica parallela. Ci sembra più plausibile l’ipotesi di Van der Haan che vedrebbe la sigurya di Monte Albán come una concrezione formatasi nell’impronta di una pianta vera. Ciò sarebbe avvenuto durante il violentissimo terremoto che fece crollare gran parte dell’acropoli azteca. Il terremoto sconvolse grandi estensioni di terreno, liberando dal centro della Terra gas e liquidi ad altissima temperatura, capaci di fondere i minerali ferrosi di cui la zona era particolarmente ricca.
La sigurya di Monte Albán è ora visibile nel piccolo Museo di Oaxaca, assieme ai preziosi reperti della tomba n.7. Un orefice di Taxco ne ha fatto una piccolissima versione in argento, usabile come pendolo, e che si può acquistare nelle botteghe di souvenir sotto i portici della suggestiva plaza.
Malgueña, adducendo l’esempio della sigurya di Oaxaca come pianta completa, e quindi né frutto né fiore, porta la tesi alle sue logiche conclusioni. Egli definisce il “corpo” come un inganno, un autentico ed estremo esempio di paramimesi. Le accese discussioni sulla natura di quell’ambiguo fusto, che tuttora agitano il mondo della botanica, sono forse la più efficace riprova del suo punto di vista. La paramimesi, dopo tutto, non ha altra funzione che quella di seminare dubbio e confusione, per proteggere la pianta dalle forze che per troppo zelo e per troppo amore tenderebbero a distruggerla.
La Sigurya natans (TAV. XXXII), per il fatto stesso del suo essere pianta acquatica, non rientra negli schemi della botanica parallela. Ne conosciamo due soli esemplari. Il più noto è quello descritto da Jacopo della Barcaccia, che fece con Magellano il secondo “grande viaggio”, in una lettera alla moglie Dorotea, scoperta a Padova dallo storico Tchobersky. L’altra è la copia lignea eseguita, come la Sigurya barbulata di Saragozza dai ricercatori-scultori Maanen e Palladino.
Per la natans del Barcaccia non ci resta che riprodurre la parte della lunga lettera che la riguarda:
«In quelle acque purissime [il lago di una delle isole Termadores] vedonsi notare granchi cornuti come cervi e pesci in grandissima quantitate di piume vestuti come augelli e anguille lunghe come barche tutte ricoperte di squame che paion ducati d’oro e che diconsi perigliosi molto. Vedonsi ancora grandissime tortughe che gli uomini che sull’acqua han dimora montan come cavalli d’acqua per navigar dall’una all’altra isola. E negli alberi vedonsi augelli pescatori dal becco lungo come una spada che sono una meraviglia a vedersi e altri ancora che cantan che invidia farebbono a fra Simone [compositore-liutista della chiesa di Santa Teresa a Padova, 1460-1498]. In quelle acque vedesi uno strano frutto con dita che non si puote toccare perché esso subito al tatto si scioglie e che ai giovanetti è proibito guardare perché essi si sciolgono alla vista e fansi invisibili. Questo frutto si chiama panalà e ne ricevetti grandissima emozione e non è di albero alcuno, o arbusto o fiore e suole galleggiare e da esso pendono radici. È nero come la tinta del calamaro e all’imbrunire gli uomini e le donne tutte dell’isola pregano al frutto come il Sacro Osso di San Barnabeo».
Per Tchobersky la descrizione di ser Jacopo ha notevoli analogie con certe descrizioni, assai più succinte, dello storiografo ufficiale di Magellano, Pigafetta. «Nella mia mente non vi è dubbio» scrive «che il magico frutto che galleggiava nel lago dell’isola fosse una Sigurya natans. Molti altri viaggiatori che hanno ripetuto l’itinerario di Magellano alle isole Termadores hanno confermato la descrizione di ser Jacopo Barcaccia. La panalà era certamente la forma finale di un gruppo di piante che, una dopo l’altra, si sono dileguate al contatto con l’uomo».
Il modello scolpito da Maanen e Palladino è basato solo parzialmente sulle descrizioni dei viaggiatori del Sei e del Settecento. Le informazioni raccolte dal frate missionario Beaulant, studioso appassionato di flora esotica che visse per molti anni con gli aborigeni delle isole Termadores, hanno fornito agli scultori i dati necessari perché essi potessero completare con grande esattezza di dettaglio il loro lavoro di ricostruzione. Il modello è anch’esso esposto al Laboratorio di Botanica di Saragozza e, grazie all’inclusione delle pendolane acquatiche in un blocco di plexiglas di notevoli dimensioni, dà un senso di convincente realtà. Le pendolane sono lunghe e sottili rispetto a quelle che adornano il fusto della Sigurya erecta (così Malgueña chiama la sigurya a fusto) e si pensa che nell’acqua dei fiumi dovessero ondeggiare come le alghe nella corrente. Che la sigurya fosse originaria dei numerosi ruscelli che dai monti scendevano ai laghi centrali delle isole e al Pacifico è suggerito da certe preghiere degli aborigeni che nel periodo delle piene invocano lo spirito della panalà per fermare il rovinoso furore delle acque. Il Maanen, forse echeggiando dichiarazioni ufficiose del botanico di Saragozza, avanza l’ipotesi che la panalà delle Termadores possa essere la madre di tutte le sigurye. Come tutti gli organismi del nostro pianeta, avrebbe lontane origini acquatiche, e la varietà erecta non rappresenterebbe che uno stadio di sviluppo recente, un secondo momento della parallelizzazione.
Tratto da: Leo Lionni, La botanica parallela, Roma 2012. Prima edizione 1976