29 «L’“intima” qualità del luogo è dovuta sia alla percezione del clima e della geografia, sia all’immaginazione: per questo è necessario stare a lungo in un luogo perché l’immaginazione possa rispondere. L’idea che l’immaginazione deve rispondere a un luogo è evidente nel modo in cui i Greci sceglievano la localizzazione dei loro templi, dove le particolari qualità del paesaggio suggerivano all’immaginazione questo o quel dio – l’acqua per Afrodite, per esempio -, così che l’architetto, il costruttore, veniva “invocato” dal luogo. L’interiorità del luogo “parlava” alla sua immaginazione, rendendo possibile sognare in un luogo. Ciò poteva comportare consumare lì i pasti, bere il vino, abitare; avere l’intera psiche immersa nel luogo tanto da poter capire cosa il luogo voleva, “come” cercava di esprimere se stesso.
Se si tiene presente l’idea di “in”, di interiorità, di essere-in, di in-habited, emerge che uno dei problemi dei luoghi attuali è che non corrispondono a quest’idea. Uno dei modi, o meglio, uno dei fattori da cui dipende la qualità dell’“in” è la memoria: i luoghi hanno ricordi. Ripensiamo a ciò che la psicologia ci ripete da tanti anni: la memoria è all’interno della testa. Il mondo dei ricordi sarebbe interamente nelle nostre teste. È un’idea incredibilmente strampalata che ci impedisce di accorgerci che la memoria è inscritta nel mondo. Così, per esempio, il restauro di Ortigia è un recupero della memoria, la cura di un’amnesia.
Le persone che tornano in varie zone degli Stati Uniti trovano che sono avvenuti molti cambiamenti, ma in molte parti dell’Europa, in seguito all’ultima guerra mondiale, i luoghi sono stati danneggiati o radicalmente cambiati dai bombardamenti, con la conseguenza di un enorme disorientamento psichico dovuto alla distruzione della memoria del mondo. Lo si può percepire quando si torna nel proprio paese o nella città natale, o nella strada dove si abitava da bambini. Quando si torna dopo molto tempo, si avverte il peso e il riaffiorare dei ricordi e, con essi, una certa gioia che proviene dal luogo. Di solito pensiamo che tutto questo provenga dalla nostra mente, che provenga dal cervello, perché così ci sé stato insegnato. Invece è il luogo che parla di sé. Tornerò su questo argomento in seguito, a proposito della memoria dei luoghi.
Ora vorrei mettere in evidenza il disorientamento della psiche nella nostra epoca, il disorientamento che attanaglia l’Occidente a causa dell’amnesia – la perdita della memoria dovuta agli eccessi del costruire, dello sviluppo, degli spostamenti. La distruzione di palazzi, come oggi si fa in continuazione per ristrutturarli, migliorarli, equivale a una lobotomia, a una perdita di cellule cerebrali: è una perdita di ricordi e immagini. Una questione ancor più attuale dopo la distruzione delle Torri Gemelle a New York. C’è una pressione economica del settore dell’edilizia per ricostruire le torri ancora più alte, ignorando la memoria – perché quel luogo è diventato uno spazio sacro, un luogo di sepoltura, un luogo funereo e tragico. Ormai l’idea della distruzione appartiene a quel luogo. La distruzione, non solo la costruzione. È come una ferita che lascia una cicatrice, c’è memoria nella cicatrice. La cicatrice è memoria.
Una ferita apre verso dentro e verso fuori. Mi viene in mente una frase di Anna Magnani. La stavano truccando per un film. Il truccatore le stava preparando il viso, quando lei disse all’uomo: “Non togliermi nemmeno una ruga, ho pagato ognuna di esse a caro prezzo”. Una parte della ferita, della cicatrice è presente, deve essere presente, deve essere visibile.
Si può mettere l’anima in un luogo?
L’immaginazione è ancora la vecchia immaginazione. Pensiamo di ricostruire o di ricoprire perché non abbiamo vissuto abbastanza in questa nuova situazione. La questione è cosa vuole il luogo, non cosa vogliamo noi. Cosa vuole il luogo ora. Come lo interpretiamo. Può questa interiorità di un luogo essere la “legge” del luogo? La rappresentano di più gli abitanti, i daimones, lo spirito del luogo. Può essere il silenzio la legge del luogo, piuttosto che la voce. La voce può essere il silenzio.
Si può intervenire su un luogo per restaurarne l’anima?
La città, la più grande tra le opere d’arte umane, appartiene al regno dell’immaginazione. Che sorprendenti fantasie sono questi fenomeni che sorgono dai campi e dalle foreste, in riva a fiumi e oceani, questi incredibili scoppi sinfonici che trasformano in concreta magnificenza le tumultuose esternazioni dell’immaginazione umana. Gli alveari, i formicai, le tane dei roditori sono una necessità per i loro costruttori. Ma i nostri alveari? A cosa servono veramente le nostre città? Le immaginiamo finché non esitono, e quando esistono le spieghiamo con le nostre idee.
Ci sono tante, tante idee sulle città per spiegare le loro origini, la loro importanza, le loro funzioni, idee proposte per giustificare l’assurdo ammassarsi di abitazioni separate, viali, rituali, servizi, e le sofisticazioni di stili, linguaggi e consuetudini, le piaghe e le invasioni, le decadenze e le dispersioni.
Nei sogni ci troviamo in città che non abbiamo mai visitato, città che non esistono sulla terra, città oniriche, come la Città di Smeraldo nel Mago di Oz, evocate solamente dai loro nomi; in città della redenzione come Gerusalemme, della paura o del mistero come Calcutta, o della reminescenza come Atene. Ora dove sono le magnifiche città degli imperi e della santità, e dove le grandi idee delle città che creano la loro magnificenza?
Al loro posto, Megapolis, Metroplex: una vasta res extensa di sobborghi, periferie, divisioni e suddivisioni; circonvallazioni, abusivismi, squallori, bassifondi e smog; traffico eccessivo e ingorghi stradali; città ridotte a ricoveri per gente di passaggio, pendolari, turisti, rifugi per i senza tetto; centri commerciali sotterrati e parcheggi che si sviluppano in verticale tra palazzi d’uffici senza volto, alveari d’inquieta disperazione. Le città sembrano diventare quasi speculari l’una alle altre. “Puoi riprendere il volo quando vuoi” scrive Italo Calvino, “ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto. Il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all’aeroporto.”
Le idee di città ormai sono state compresse nella nozione di problema urbano. Astrazioni dentro i computer, files etichettati: Congestione, Sicurezza, Emergenza, Evacuazione, Crimine, Valutazione di Imposte, Equo canone, Nettezza Urbana, Demografia, Mezzi di trasporto per pendolari, Parchi e Ricreazione. Centri. Zone. Codici. Dipartimenti. L’immaginazione della città sezionata come un cadavere per comitati di specialisti, che elaborano soluzioni per il miglioramento della qualità della vita.
Eppure quell’immaginazione partecipe sulla quale la città fu fondata può essere ritrovata. È in mezzo a noi e potrebbe rifiorire, se solo si partisse non dal “problema”, da ciò che bisogna cambiare, o spostare, o costruire, o demolire, ma con ciò che è già qui, che ancora canta la propria anima, che ancora trattiene le scintille della mente che l’ha creato – sia esso un muro romano o un carrettino di hot-dog a New York, o una strada di neon verticali a Osaka, o un giardino incolto sul retro di una casa a schiera di Glasgow. Il miscuglio caotico di ogni luminoso centro cittadino o quartiere decaduto può selezionare le proprie immagini attraverso parole, dipinti o stampe fotografiche che rivelano l’intimità dell’impulso che continua a promuovere la costruzione delle città. La poiesis delle città.
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La città chiede di essere scoperta per nuove percezioni, non per nuove forme di progettazione; la città segreta, la città eterna che nasce improvvisa, istantanea dall’immaginazione e sorprende il cuore.
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La grande città è un registro, un documento, una memoria. Non gli spiriti della natura, ma i fantasmi della civilizzazione occupano il suolo della città. Il quale è costruito da atti, atti privati che provengono da menti in preda spesso alla disperazione silenziosa richiesta dalle Muse, che sono i veri fantasmi della civilizzazione.
Questi fantasmi nutrono l’intimità, la straordinaria privacy che si trova nelle grandi città. Nonostante tutto il romanticismo pastorale sul meditare accanto a un ruscello, le arti e le scienze costellano le menti delle città affollate, dense, complesse, eleganti. Le città sono romanzi, poesie, danze, teorie. Sono piene delle idee che raccontano il fare delle Muse. La loro madre, Memoria, ha bisogno delle città per il bene delle sue figlie, affinché possano prosperare ardentemente, essere onorate con biblioteche e sale da concerto e teatri, ricordate in musei, e possano essere in relazione con poeti e pittori, e con loro conversare nell’intimità.
Tutto ciò che è e può essere una città ci fa capire che è possibile mettere l’anima in un luogo. […] »
tratto da: James Hillman, L’anima dei luoghi, Milano 2004. © 2004 by James Hillman e Carlo Truppi