L’aria e l’acque eterne

La nave è bella come tutte le navi in partenza. Nella nostra epoca, in cui i percorsi utilitari si fanno in aereo, l’acquisto di un tratto di crociera è il solo a permettere le lunghe traversate. Le petroliere e i carghi, che costituivano fino a ieri una risorsa, colpiti da gigantismo non concedono oggi quasi più spazio al trasporto passeggeri. I crocieristi appartengono dunque alla bizzarra classe di vagabondi ricchi, di età matura o molto matura, che vivono di una sostanziosa pensione o dei proventi del loro conto in banca, dispensati perciò dall’andare in ufficio. Molti saltano da una crociera all’altra, talvolta addirittura eleggendo domicilio sulla nave per tutto l’anno, sfuggendo così ai fastidi della terraferma. Costoro visitano appena i porti esotici, che conoscono già, e la brevità degli scali scoraggia i soggiorni nell’interno; molti di loro mettono piede sulla passerella solo per acquistare le solite cianfrusaglie nei negozi turistici più vicini al porto. Quattro pasti, l’orchestra di bordo – motivetti nostalgici all’ora del tè, rock o cantanti confidenziali armati di microfono la sera – la piscina di un azzurro intenso su cui aleggia l’odore del lunch servito ai bagnanti, l’inevitabile yoga ridotto a esercizi di flessione, del resto assai utili, due spettacoli cinematografici con vecchi film, il ballo quando il parquet del salone non oscilla troppo, scandiscono le giornate. Il bridge è un passaporto in questa società: J., che vi eccelle, diventa subito popolare e viene chiamato col nome di battesimo. I continui ricevimenti mondani, cui si partecipa e che precedono o seguono quello del capitano, permettono alle donne le sottane di garza e le scollature che non potrebbero sfoggiare così spesso a Cincinnati o a Brisbane. Tre o quattro bar costituiscono i luoghi santi di bordo: un leggero alcolismo porta all’affabilità e cementa tra loro i solitari. Si avrebbe torto a parlare con disprezzo di quei fiumi di martini, di bourbon o di vodka, quando ci si intenerisce al ricordo delle piccole taverne frequentate dagli ubriaconi e dalle ubriacone di Amsterdam, macerati nel liquore di ginepro, poveri e dorati come dei Rembrandt. Ma l’alcool è come l’amore o la vecchiaia: ci si trova ciò che vi si porta. Sembra che i passeggeri di questa nave da crociera non vi portino nulla.

Un’inglese, che è stata affascinante e lo è tuttora, si mette il lutto per un marito, attore celebre, che non ha smesso di rimpiangere. Ha una figlia, parecchie case e amici, ma sceglie di vivere soprattutto a bordo. Un po’ obnubilata, anche lei: talvolta bisogna riaccompagnarla nella sua cabina, anche quando c’è mare calmo. Guardandola, penso che i fantasmi, contrariamente a quanto si ritiene, siano raramente impalpabili: sono appesantiti, piuttosto, annegati nelle acque del ricordo, avvolti dalla loro carne troppo larga come da una sorta di ectoplasma. Si è concessa come cavalier servente e figlio adottivo uno dei giovani barman. Ha già prenotato un tavolo per due in uno dei migliori ristoranti cinesi di Hong Kong. La primavera prossima, per cambiare, proveranno la Transiberiana. E una maniera come un’altra di occupare gradevolmente il tempo che le resta. Questa donna è regale, come ogni essere che non nuoce a nessuno e che fa ciò che gli piace. Stasera ceneranno sulla spiaggia di Waikiki.

Oahu: il transatlantico vi effettua, per una dozzina d’ore, quello che sarà l’unico scalo della traversata. Dell’arcipelago hawaiano, non scorgeremo nemmeno le altre otto isole meno frequentate. Bisognerà accontentarsi delle delizie dell’isola principale: i bar di Honolulu, gli alberghi altissimi di Waikiki, da cui si riversa una musica indigena meccanizzata, la strozzatura di Pearl Harbor, di cui tutti almeno conoscono il nome. Usciti da tutto quel rumore, troviamo però abbastanza in fretta due spiagge, l’una molto solitaria, benché un mucchio di cartacce insozzi l’erba sotto un arbusto in fiore, l’altra già provvista di un parcheggio e di gabinetti in cemento, ma deserta per il momento, entrambe lontane dai bungalow civettuoli e dalle coltivazioni di ananas. Le enormi onde sollevate dal vento su migliaia di leghe di mare deserto vi si infrangono anche con la bonaccia. Seduta là sull’erba accanto al mucchio di spazzatura, o qua nell’auto posteggiata sull’asfalto, ascolto il conducente giapponese parlarmi dei suoi genitori, che vissero il dramma della resa di Okinawa, mentre seguo con lo sguardo l’altalenare del body surfing, il corpo dell’atleta, volontariamente irrigidito come una tavola, che si abbandona e resiste nello stesso tempo alle grandi ondate; il riflusso che trascina verso il largo l’uomo tenace e fragile; l’intelligenza e i muscoli che cercano il momento propizio per riguadagnare l’elemento terra. Da quel compagno, la cui presenza mi è familiare quasi quanto la mia, mi separano un centinaio di metri soltanto, vale a dire l’impossibile e l’illimitato. Non potrei fare nulla, e l’autista giapponese nemmeno, se per caso fosse il riflusso a trionfare.

Diciassette giorni scorrevoli tra San Francisco e Yokohama, di cui sedici sull’acqua azzurrina e liscia. Il diciassettesimo, nelle vicinanze della costa giapponese, un residuo di tifone la imbianca tutta; la violenza riafferma i suoi diritti sulla calma, ma il colore del mare resta uniforme: tutto bianco come prima era tutto azzurro.

E solo al tramonto che il cielo si diversifica, diventando rosa, rosso, violetto o topazio, mentre all’ovest, che per noi è l’Estremo Oriente, si costruiscono quegli edifici di nubi e di luci che somigliano a città proibite, a grandi muraglie, a templi. A ogni calar del sole, si ha questo spettacolo fiabesco, riflesso nelle vetrate della nave e in alcune dozzine d’occhi. International date Line: un giorno, all’improvviso, scivola fuori dal calendario, sottratto dalla rotazione terrestre, e persino il più ottuso dei viaggiatori sente allora che il tempo è relativo e che naviga su un globo che gira. Il giornale di bordo pubblica un numero tutto da ridere su questo giorno che non esiste. La notte, sulla poppa non illuminata, si è immersi nella tenebra; la bruma occulta le stelle; il fluido sembra divenuto l’opaco. L’oggetto di metallo e di fuoco su cui ci troviamo, alimentato a nafta, avanza, venendo da non si sa dove e andando verso non si sa che.

Persino di giorno, l’acqua quasi diafana ricopre una distesa oscura. I quattro elementi si sovrappongono. L’aria sull’acqua; sotto l’acqua, la terra e il fuoco: la catena di vulcani sottomarini di circa tremila chilometri, che si estende dalle Hawaii alla costa giapponese, culmina laggiù nei fuji emersi. L’immensa distanza che la velocità dell’aereo maschera, in alto mare si manifesta: bisogna navigare sul Pacifico per rendersi conto dell’isolamento del continente americano tra le due più grandi distese d’acqua del mondo. L’Australasia, per quanto distante appaia dai nostri personali punti di riferimento, è un arcipelago. L’Asia, l’Africa e l’Europa si congiungono con deserti o con istmi. La lunga striscia delle terre americane si situa invece tra due fosse che l’uomo ci ha messo molto per attraversare. Il traffico atlantico con i galeoni colmi d’oro, i trealberi carichi di barili di rum, di legname strappato alla foresta brasiliana, di pelli di animali del Grande Nord, di missionari e di “carne d’ebano”, non risale che a poco più di tre secoli fa. Il Pacifico del Nord entra in ciò che chiamiamo “la storia” solo con il capitano Cook. In precedenza, le migrazioni polinesiane sulle lunghe piroghe rifornite di iguane e di maiali da sgozzare durante la traversata, sono naufragate o approdate in silenzio, registrate come possono esserlo le migrazioni di balene; i clipper che si recavano dalla Nuova Inghilterra a Canton o a Nagasaki prendevano di preferenza la rotta di capo Horn. E a partire dal momento in cui le “navi nere” del commodoro Perry “aprono” il Giappone al commercio americano che il Pacifico del Nord diventa una rotta. I cacciatorpediniere e le portaerei della seconda guerra mondiale, i bombardieri, uno dei quali avrebbe portato nel suo ventre l’inizio della distruzione del mondo, hanno attraversato quest’acqua e questo cielo così puri.

Uno dei miei amici possiede ciò che in Cina si chiama una “pietra di sogno”, più esattamente una pietra da meditazione taoista come se ne fabbricavano nella provincia dello Yünnan nel XVIII secolo. Il paesaggio inconsapevolmente creato dai giochi della materia minerale non è stato affatto ritoccato da mano d’uomo; l’artigiano cinese si è limitato a pareggiare e a levigare questo disco piatto e a incidere sull’orlo, in caratteri discreti, l’impressione che un occhio umano riceve da questo fortuito capolavoro: L’ARIA E L’ACQUA ETERNE. Una grande bolla di un verde bluastro occupa i due terzi del disco, si scurisce man mano che si innalza, si incurva come la linea dell’orizzonte che in mare attesta la sfericità della terra, fa posto infine a un azzurro cremoso che è il cielo. Roger Caillois, così appassionato delle coincidenze tra ciò che non si osa chiamare l’“arte della natura” e l’arte dell’uomo, constaterebbe che, se i “paesaggi” minerali che lo affascinavano in Italia ricordano le forme geometriche dell’architettura fiorentina, o si raggruppano in rettangoli stretti e sovrapposti come le torri di San Gimignano, queste colate di un verde quasi pallido, venute dalla Cina meridionale, evocano i paesaggi cosmici della pittura Sung. L’ARIA E L’ACQUA ETERNE… Noi sappiamo adesso che né l’aria né l’acqua sono eterne, e che un giorno, forse per colpa nostra, questo globo privo di aria e di acqua continuerà a navigare nel cielo. Per il momento, questo giorno non è né vicino né lontano. Respiriamo quest’aria surriscaldata dall’alta temperatura di metà settembre, mentre le nostre macchine si lasciano dietro le loro scie inquinanti, i rifiuti dei nostri buffe troppo opulenti vanno ad arricchire i fanghi marini, i nostri sciacquoni abbandonano i nostri escrementi nell’abisso, le nostre sale da gioco e i nostri bar galleggiano con la stessa leggerezza di un’alga.

La cabina è un punto fisso. La radio ha taciuto una volta per tutte alla partenza, dopo che si sono girate le manopole, come si chiude l’acqua di un rubinetto. L’aria condizionata non imperversa che quando è indispensabile. Gli unici suoni provengono dalle cassette delle musiche preferite, scelte come compagne di viaggio. Un cartello appeso alla maniglia della porta scoraggia i visitatori, la cui presenza non è stata sollecitata in anticipo; anche gli amici che dormono tra le pagine dei libri sono scelti con cura. Cella della conoscenza di sé; luogo del dialogo e della lotta con l’Angelo; palco da cui si contemplano, distesi su una cuccetta, i riflessi marini che giocano sul soffitto bianco.

 

 

Tratto da:  Marguerite Yourcenar,  II giro della prigione

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