FAQ n. 1 Perché usate il termine “decrescita”, che suscita reazioni negative?
Perché è il termine che meglio mette a fuoco l’origine della crisi ecologica e sociale planetaria: l’ossessione della crescita economica a tutti i costi. Ci rendiamo ben conto che la parola decrescita suscita istintivamente reazioni negative. Sembra quasi una bestemmia in una società che professa la “religione della crescita”. Anche alcuni che – come noi – condividono la necessità di un cambiamento del presente stato di cose considerano la decrescita una proposta fuorviante, perché non sarebbe in grado di indicare con chiarezza quali ne sarebbero i benefici e quali i beneficiari. Perché allora intestardirsi nel riproporre il termine decrescita? Proprio perché è uno slogan che produce un cortocircuito mentale; mette in discussione il dogma bugiardo della crescita illimitata in un mondo finito. È come quel bambino che grida “il re è nudo”. Non è vero che il perseguimento della crescita economica debba essere il fine principale della società umana. E, anche se lo fosse, non sarebbe realistico. Prima o poi ci si scontrerebbe con il limite delle risorse a disposizione.
Vi sarebbero altre parole analoghe meno “impattanti” per spiegare lo stesso concetto? Sicuramente sì. Molti pensatori e molti movimenti sociali hanno elaborato e usato parole diverse: Swadeshi (Gandhi), semplicità volontaria (Alexander Langer), convivialità (Ivan Illich), sobrietà (Gesualdi), austerità (Enrico Berlinuer), joie de vivre (Georgescu Rogen), ecosocialismo (Frei Betto), Bien vivir (comunità andine), economia del sufficiente e del bastevole (Wuppertal Institute)… Ma, domandiamoci, hanno richiamato la stessa attenzione che sta avendo la decrescita?
Molte persone subiscono l’immagine che di sé continua a dare il sistema economico dominante e preferiscono trovare delle strade o dei linguaggi meno shoccanti nella speranza di trovare gradualmente e senza traumi delle vie di uscita alle crisi del sistema. Ma, al di là di queste considerazione di natura più psicologica, se appena si conoscono i principali problemi che tormentano l’umanità da alcuni decenni, come quelli legati alle guerre per l’accaparramento delle materie prime o agli sconvolgimenti climatici più drammatici o ad una delle tante epidemie che affliggono il pianeta, il termine è invece utile proprio per la sua radicalità.
Se si vogliono evitare gravi traumi alle persone refrattarie a qualsiasi sollecitazione, si può – subito dopo aver usato il termine decrescita – affermare che nessuno vuole tornare all’età delle caverne [ vedi FAQ n.3]
e che il patrimonio scientifico e tecnologico non sarà certo cancellato, anzi troverà utilizzazioni molto più interessanti e positive per il genere umano [vedi FAQ n.10]. In realtà la decrescita non prevede salti all’indietro nel percorso evolutivo della specie umana, ma cerca di delineare delle prospettive sempre meno dannose per il pianeta, con consumi qualitativamente diversi di tutte le materie prime [vedi FAQ n.2], agricole e industriali, con riduzioni radicali dei contenuti di rifiuti inutilizzabili o inquinanti di ogni bene realizzato, con una alimentazione assolutamente sana e basata su quantitativi ridotti al minimo essenziale per tutte le popolazioni del pianeta, con valori massimi attribuiti al godimento della natura e all’acquisizione di contenuti culturali. Riduzioni, anche drastiche se non immediate, sono evidentemente previste in agricoltura per i pesticidi e altri malsani prodotti chimici, per le sostanze radioattive, per gli imballaggi inutili, per i mezzi di trasporto a energia fossile. Dovranno invece essere fortemente aumentate e molto più diffuse le attività di ricerca e di studio, sia finalizzate che completamente libere, in modo da mettere a punto tecnologie non più basate su prodotti dannosi e che invece permettano di ottenere risultati molto efficaci
da materie prime e fonti energetiche non più pericolose. Quindi queste “riduzioni” sono temibili solo da chi vive, più o meno consapevolmente, nella dimensione del consumismo sfrenato, mentre aiuterebbero le popolazioni fin da ora orientate a fare scelte di vita consapevoli e di qualità (fra l’altro con costi economici e umani ben minori di quelli che devono affrontare i paesi di più antica industrializzazione). Si aprono invece delle prospettive di estremo interesse sociale, in quanto i “nuovi” prodotti possono essere il risultato della completa riprogettazione di quelli preesistenti, oppure di intense attività di ricerca mirate ad ottenere oggetti per lo stesso uso precedente ma di qualità ecologica completamente diversa. Ambedue questi percorsi richiedono molta manodopera particolarmente qualificata, proprio nel momento in cui il sistema economico dominante dimostra concretamente la sua incapacità a creare posti di lavoro [vedi FAQ n.6].
Infine, non dovrebbe essere particolarmente difficile elaborare dei modelli di convivenza, diversi da quelli urbani e agroindustriali attuali, che permettano il massimo grado di diffusione delle relazioni tra le persone, senza però che ciò richieda complessi sistemi di trasporto altamente energivori e molto inquinanti. La decrescita dovrebbe cioè esercitarsi sulle dimensioni ormai insostenibili delle megalopoli e far invece emergere nuclei abitativi per modesti gruppi umani, percorribili sempre a piedi, ma dotati di centri per la cultura (dai cinema alle zone espositive). Analoghe logiche potrebbero essere applicate per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, fortemente dislocata sul territorio, o per i centri scolastici e universitari, che dovrebbero essere “avvicinati” alle popolazioni, invece di essere praticamente ingestibili a causa della loro eccessiva concentrazione in pochi centri urbani intensamente popolati.
Letture essenziali
AA.VV., Il dolce avvenire, esercizi di immaginazione radicale del presente, Diabasis, Reggio Emilia, 2009. AA.VV., Idee per una società post‐sviluppista, Sismodi editore, 2009.
Serge Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo, dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.
Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
FAQ n. 2 Intendete proibire lo sfruttamento di tutte le risorse naturali: petrolio, gas, minerali, foreste, oceani, ecc.?
No, pensiamo solo che i prelievi debbano rispettare i cicli vitali del pianeta e preservare le risorse non rinnovabili.
Partendo dalla necessità di diminuire di molto e presto i flussi di energia e di materia impiegati nei cicli produttivi dei beni di consumo, a causa della rarefazione delle materie prime, sarà necessario che scienziati e tecnologi affrontino sistematicamente i bilanci energetici e di materia per ogni filiera merceologica per giungere a una oculata utilizzazione delle limitate risorse idriche, forestali, minerarie, fossili… per non dissipare ricchezze non riproducibili e per non distruggere il futuro alle prossime generazioni.
É già possibile tracciare un quadro significativo delle azioni da realizzare nella prospettiva della decrescita. Prendiamo in considerazione, in primo luogo e come esempio, l’estrazione di minerali e altre sostanze utili, finora svoltasi senza alcuna considerazione dei limiti dei giacimenti e del grave degrado che è scaturito dai metodi impiegati.
Occorre distinguere tra le miniere oggi operative:
1. quelle che danneggiano immediatamente l’ambiente (miniere a cielo aperto, uso del mercurio per le miniere d’oro, perdite di petrolio nella fase estrattiva, gas bruciato invece di essere recuperato, estrazione dagli scisti bituminosi e impiego del metodo del fracking, cioè di frammentazione delle rocce, ecc.);
2. quelle che alimentano le guerre (coltan, smeraldi, diamanti, ecc.);
3. quelle dove si estraggono minerali che già scarseggiano o che possono scarseggiare in un futuro
immediato (rame, litio, terre rare, ecc.);
4. quelle che usano troppa acqua per il lavaggio dei minerali dalle impurità;
5. quelle di carbone, torba, ecc. che emettono in proporzione grandi quantità di anidride carbonica.
É evidente che qualora si decidesse effettivamente di limitare l’uso delle materie prime essenziali, per salvaguardare i territori ed evitare l’esaurimento di risorse che potrebbero rivelarsi preziose in futuro, gli impianti estrattivi sopra indicati diventerebbero più costosi e i più dannosi andrebbero chiusi al più presto. Parte della manodopera liberata potrebbe essere impiegata per altri usi dei siti, per aumentare le misure di sicurezza nelle miniere restanti e per vigilare le estrazione illegali. Per le altre sarebbe opportuna una analisi internazionale dei fabbisogni minimi di singole materie prime, suddivisa per paesi. Preventivamente andrebbero adottate misure di contenimento dei consumi per ridurre la pressione sull’attività estrattiva. Per l’agricoltura dovrebbero essere promosse le produzioni biologiche e dovrebbero essere preferite le produzioni che richiedono quote decrescenti di pesticidi, fertilizzanti ed erbicidi (intensificando i controlli su quelli cancerogeni, teratogeni, ecc.) attraverso una campagna pubblica per diffondere le conoscenze sui prodotti chimici più pericolosi e sui loro effetti sulla salute. Nella fase di transizione andrebbero utilizzati per la difesa contro gli insetti i metodi della lotta guidata e altri sistemi alternativi non chimici.
Per tutte le altre piante (oltre che per gli altri animali) dovrebbero finalmente prevalere i principi della sopravvivenza di tutte le specie – interrompendo quindi la tragica contabilità delle perdite quotidiane di specie animali e vegetali (in particolare di quelle che scompaiono per la distruzione del loro habitat prima ancora che siano state selezionate e studiate per definire la loro utilità per gli esseri umani), un patrimonio di conoscenze e di sostanze, spesso preziose, che finora è stato intaccato senza limitazioni, distruggendo foreste, habitat tipici e aree di diversificazione genetica.
Dovrebbero quindi essere avviati in tempi stretti dei processi in cui sarebbero prevalenti gli obiettivi di salvaguardia e conservazione, mentre le limitazioni e i divieti sarebbero ispirati in larga misura a criteri di dimensionamento delle produzioni in funzione di consumi concentrati sui bisogni essenziali e sulla soddisfazione di esigenze che saranno espresse rispettando la volontà delle popolazioni locali residenti. Una reale e tempestiva applicazione dei principi della decrescita dovrebbe infatti essere accompagnata dalla sparizione dei fenomeni di fame e malnutrizione, dal libero accesso all’acqua e ai servizi igienici anche per le fasce più povere delle popolazioni di ogni paese e dalla possibilità per tutti di collegarsi alle moderne reti di comunicazione.
Non si deve peraltro dimenticare che ogni affermazione contenuta in questo testo troverà una dura opposizione da parte di gran parte delle imprese multinazionali e in particolare da quelle che operano nel settore minerario ed estrattivo in regime di monopolio assoluto, da quelle del settore chimico e agrochimico, da quelle dei trasporti convenzionali e così via. L’opposizione si manifesterà anche da parte di molti stati nazionali, specie da quelli che finora aspiravano al controllo sui flussi di materie prime agricole e industriali, quindi il nuovo complesso di modelli di consumo e di produzione, che dovrà essere fatto funzionare prima che i meccanismi climatici giungano alla fase delle catastrofi ambientali più estreme, dovrà essere sostenuto da una società civile globale molto cosciente e molto convinta delle sue responsabilità.
Letture consigliate
Mario Agostinelli, R. Meregalli, P.Tronconi, Cercare il sole dopo Fukushima, Ediesse, Roma, 2011.
A Sud, Il sangue della terra, Derive Approdi, Roma,2006 e Schede sui principali conflitti ambientali.
Ugo Bardi, La Terra svuotata. Il futuro dell’uomo dopo l’esaurimento dei minerali, Editori Riuniti University Press, 2011.
Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio, l’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma‐Bari, gennaio, 2011. Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Schede grandi opere a forte impatto negativo sull’ambiente. Stefano Liberti, Land Grabbing, Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo, Minimum fax, Roma, 2011.
Anna Pacilli, Anna Pizzo, Pierluigi Sullo (a cura di), Calendario della fine del mondo. Date, previsioni e analisi sull’esaurimento delle risorse del pianeta, Intra Moenia, 2011.
Mirco Rossi, Energia e futuro, le opportunità del declino, EMI, Bologna, settembre 2009.
K. Werner, H.Weiss, I crimini delle multinazionali, Newton Compton Editori, Roma, 2010
FAQ n. 3 DECRESCITA SIGNIFICA UN RITORNO A STILI DI VITA PREINDUSTRIALI, “ALLE CANDELE E ALLE CAVERNE”?
No. La decrescita comporta un rigoroso controllo degli stili di vita, ma ciò ci renderà più liberi e più sereni.
Ogni volta che si parla di decrescita ci viene contestato, e spesso in modo un po’ sprezzante, che quello che proponiamo altro non sarebbe che un ascetismo ideologico che contrabbanda per desiderabile, a fronte di una supposta minaccia ecologica, una triste e masochistica rinuncia alle comodità e ai piaceri materiali. Saremmo tutti obbligati ad avere meno scelta nel mangiare e nei vestiti, a vivere in una casa al massimo tiepida d’inverno, rinunciare al condizionatore d’estate, a non usare l’automobile e l’aereo, e via dicendo. Come se la riduzione del nostro impatto ambientale sia un passaggio che ci siamo inventati noi ed evitabile se si vuole preservare l’umanità e il pianeta.
I cantori della crescita mancano di realismo e capacità di riflessione e confondono una critica costruttiva e articolata alla tecnologia, al pensiero calcolante e all’industrialismo [vedi Faq n.8], con un ritorno a stadi premoderni della storia dell’umanità. Esistono infinite ricerche scientifiche che affermano la necessità di rispettare i cicli e i ritmi della natura, degli ecosistemi e di tutto il vivente. In questo non vi è nulla di estremista, ma piuttosto l’assunzione di responsabilità di fronte alle gravi emergenze del nostro tempo. Non possiamo continuare a promuovere modelli tecnologici, economici, etici, ecc. che sono pericolosi perché risultano aggressivi e devastanti nei riguardi della Terra e questo sollecita non solo radicali innovazioni sia nella ricerca scientifica che nelle sue applicazioni industriali, ma anche un cambiamento negli stili di consumo dominanti nella nostra società.
Si tratta di un processo che richiede una profonda motivazione e un vero impegno – e che comporta sicuramente alcune auto‐rinunce e l’accettazione di una maggiore sobrietà di vita, ma che va attuato al più presto a varie scale e a ogni livello, anche individuale [vedi Faq n.4].
Non si tratta però di scelte impossibili e, se tutti cominciassimo a modificare le scelte alimentari, a non comprare prodotti usa e getta, a non riscaldare e refrigerare inutilmente le nostre case, a usare la bici o camminare ogni volta che possiamo, a imparare a riparare e a far durare le cose, il miglioramento sarebbe rapido e significativo. Ma non è tutto: chi già lo ha fatto ha scoperto che modificare i consumi non solo è un atto di buon senso in un pianeta ecologicamente allo stremo, ma che semplificare il proprio stile di vita può migliorare la nostra vita quotidiana.
Liberare la nostra vita dal superfluo e dal troppo, ridurre al necessario e trattare con cura le cose di cui ci circondiamo vuol dire riprenderne un vero possesso e usarle per quello che davvero valgono, liberi dalla tirannia della moda e degli status symbol. Soprattutto, consumare meno significa avere meno bisogno di denaro, lavorare meno e recuperare modalità di vita che danno spazio alle relazioni, al miglioramento di sé, e anche all’ozio creativo.
Se le cose stanno così, allora perché mai l’invito ad alleggerire il fardello materiale delle nostre vite, sperimentando “l’abbondanza frugale”, suscita scetticismo e rifiuto? Perché è ancora così diffusa l’idea che
il nostro benessere dipende dal possesso di oggetti che dovrebbero “renderci la vita più facile”? Soprattutto, perché si continua ad affermare che, poiché i bisogni dell’uomo sono per definizione infiniti, è folle pensare che ci si possa auto‐contenere e che l’unica strada è, semmai, arrivare a una crescita più sostenibile mentre la decrescita dei bisogni (e dei consumi) sarebbe pura, ingenua utopia?
Per capire questa difficoltà a rinunciare all’inutile e al dannoso che ci circonda bisogna provare a chiarire cosa intendiamo esattamente per comodità materiali, cercando di definire meglio qual è la soglia che divide il diritto al necessario – e anche al giusto piacere di circondarsi di cose belle – dall’accumulo costante di oggetti superflui. In altre parole dovremmo provare a capire perché i bisogni aumentano anche in una società che possiede più di quanto si sia mai posseduto e in cui gli stessi economisti, attraverso molte ricerche, danno per scontato che sono almeno quarant’anni che in Occidente, a fronte dell’aumento dei consumi, la felicità percepita dalle persone non è aumentata. Anzi!
Certo, nel momento in cui la nostra società ha iniziato a sperimentare la diffusa disponibilità di beni materiali la qualità della vita è migliorata: avere in casa la lavatrice, ad esempio, ha significato una riduzione della fatica nel lavoro domestico, così come ci sono oggetti – il computer o il cellulare – che hanno cambiato le nostre abitudini e di cui non sarebbe semplice fare a meno. Eppure continuiamo a sostituire quello che abbiamo solo per scoprire che il nuovo acquisto è spesso più fragile e mal funzionate del suo predecessore. Certamente dietro alla spinta all’iperconsumo c’è la volontà delle imprese di produzione di far sì che le cose non durino (“obsolescenza programmata”) per costringerci a ricomprare sempre più frequentemente. È la pubblicità che ci martella in testa l’idea che ogni nuovo prodotto è nato per offrirci quelle qualità, prestazioni ed efficienza che mancano a quello che possediamo già. Ma tutto questo non basterebbe se non fossimo in qualche modo complici di questo sistema: pur conoscendo le dinamiche del marketing riusciamo ancora ad illuderci che il prodotto che stiamo per comprare è utile e capace di migliorare la nostra vita. Siamo noi stessi i primi ad avere “voglia di desiderare” e a temere che, smettendo di farlo, qualcosa in noi si spenga. Siamo assuefatti a consumare e implicitamente convinti che un mondo con meno cose, meno novità, sia triste e noioso.
Il vero motore della società dei consumi è la creazione di desideri. L’atto di acquistare qualcosa – proprio perché non motivato da necessità reali – dà piacere in quanto è fine a se stesso: compriamo solo per esercitare una sorta di illimitata libertà. C’è chi afferma che il massimo di libertà è poter sprecare. Noi, al contrario, pensiamo sia auspicabile affrancarsi da questi meccanismi psicologici e provare a sperimentare una vita più semplice e meno frenetica, accettando di porre dei limiti al desiderio di possesso. Questo può significare il ritrovare la capacità di aprirci a soddisfazioni sicuramente più ricche e profonde.
Quindi, al fondo, non è poi così assurdo accettare con onestà e apertura mentale la sfida che ci viene dal “mondo antico” o di culture che non hanno scelto la modernità occidentale [vedi Faq n. 19]. Il fatto di riprendere importanti insegnamenti dal passato, coniugandoli con gli sviluppi più avanzati delle scienze, della filosofia, dell’etica, della cultura in generale è indispensabile per elaborare un nuovo paradigma di civiltà, in alternativa a quello ancora dominante incapace di affrontare costruttivamente i gravissimi problemi ambientali, economici, sociali, etici e spirituali provocati dalla sua stessa affermazione [vedi Faq n.15].
Letture essenziali
Zygmunt Baumann, Homo Consumens, Centro Studi Erickson. 2007. Gianfranco Bologna, Maunale della sostenibilità, Ed. Ambiente, 2005. Edward Goldsmith, La grande inversione, F. Muzzio, 1992.
Erich Fromm, Avere o essere?, Oscar Mondadori, 1977.
Serge Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo, Bollati Boringhieri, 2005. Gianfranco Bologna, Manuale della sostenibilità, Ed. Ambiente, 2005. Majid Rahnema, Jean Robert, La potenza dei poveri, Jaca Book, 2010. Wolfgang Sachs, Archeologia dello sviluppo, Macroedizioni, 1992.
FAQ n. 4 Intendete negare agli abitanti dei paesi poveri ciò di cui hanno bisogno o comunque desiderano?
Al contrario, noi vorremmo evitare che subiscano nuove colonizzazioni.
Questa domanda viene formulata spesso da chi si dedica sinceramente ai problemi delle popolazioni povere e mette in evidenza la presunta impossibilità di rispondere negativamente alla domanda di “crescita” proveniente da tutti quei paesi definiti sbrigativamente “sottosviluppati”, cioè della metà della popolazione del pianeta che cerca di sopravvivere malgrado la sostanziale indifferenza dei paesi ricchi verso le loro condizioni. Sembra infatti ovvio che la filosofia della decrescita non sia proponibile a tutti coloro che non riescono neppure a soddisfare i loro bisogni minimi essenziali. Cosa potremmo “ridurre” al miliardo di persone che corre ogni giorno il rischio di morire di fame e ai due miliardi e mezzo di persone prive di accesso all’acqua potabile e mancanti dei servizi igienici più semplici? Stesso discorso vale per coloro che nei paesi industrializzati vivono al di sotto della soglia di povertà calcolata dalla Banca Mondiale o che sono privi dell’assistenza sanitaria gratuita.
Ma la domanda nasconde un fraintendimento di fondo: la decrescita non è sinonimo di diminuzione dei
beni e dei servizi necessari allo star‐bene delle persone. La decrescita al contrario si propone di aumentare l’accesso all’uso di ciò che ci serve liberandolo dal giogo del denaro e che la logica e i meccanismi di mercato, invece, negano [vedi Faq n.18]. Infatti, è solo fuoriuscendo dal dominio della produzione mercificata e del consumo mercatizzato che è possibile “lasciare in loco”, a disposizione delle popolazioni locali, le immense risorse del Sud del mondo.
Ha scritto Hervè Renè Martin: “Che potrebbe succedere di meglio agli abitanti dei paesi poveri che vedere il loro Pil diminuire?La crescita del loro Pil misura soltanto l’aumento dell’emorragia”. Chi ha stabilito che per avere accesso a ciò che serve per vivere con dignità si debba obbligatoriamente lavorare sotto padrone (la metà delle volte sono multinazionali) e comprare da terzi (sempre le stesse)? Dove sta scritto che le popolazioni del sud del mondo debbano subire ragioni di scambio inique? [vedi Faq n.14].
La domanda iniziale, pur appoggiata a dati non certo discutibili, risulta comunque capziosa. É evidente che la decrescita non riguarda lo scarso cibo disponibile in gran parte dei paesi poveri, ma prevede in primo luogo una rapida diminuzione delle coltivazioni orientate a soddisfare le esigenze dei paesi ricchi (le piantagioni di caffè, cacao, zucchero, soia, biocarburanti, ecc.) e l’aumento delle produzioni di alimenti destinati al consumo locale; la riduzione dell’uso di pesticidi e di altri prodotti chimici per l’agricoltura a tutto vantaggio della salute delle popolazioni locali; la diminuzione dell’uso di semi ibridi e geneticamente modificati e il ritorno alle sementi originarie e agli alimenti scartati per favorire l’imitazione dei modelli di consumo occidentali; il blocco degli acquisti di terre fertili da parte di paesi industrializzati che cercano di premunirsi da scarsità future; la revisione totale delle logiche di cooperazione internazionale che finora hanno favorito i prodotti interessanti le popolazioni ad alto reddito o hanno invaso i paesi del cosiddetto Terzo mondo con eccedenze di produzione che riducevano i redditi dei contadini dei paesi ricchi. Modifiche di questa portata delle logiche dei rapporti Nord‐Sud ridurrebbero subito i rischi maggiori e le diseguaglianze più umanamente insostenibili, ma soprattutto permetterebbero alle popolazioni del Sud del mondo di tutelare al massimo le loro risorse naturali (acqua, foreste, terre coltivabili e per allevamento in equilibrio con la riproducibilità dell’humus e dei foraggi, ecc.) a tutto vantaggio degli equilibri ambientali e climatici del pianeta nel suo complesso.
In questa logica, ad esempio, un paese come l’Ecuador ha offerto tempo fa di voler evitare ulteriori estrazioni di petrolio se gli altri paesi avessero messo a disposizione i mezzi per garantire gli interventi a favore della sua popolazione, ma la comunità internazionale non ha ancora dato risposte ad una offerta che aprirebbe al pianeta la possibilità di cominciare a ridurre l’uso dei combustibili fossili, contribuendo a diminuire l’inquinamento atmosferico. Analoghe proposte potrebbero essere formulate per tutte le 40 materie prime industriali, sempre che i paesi ciecamente incamminati sul cammino della industrializzazione illimitata cominciassero a rendersi conto della situazione reale mondiale determinatasi negli ultimi decenni. Se si comprende questa prospettiva, si può intuire che molti dei paesi che oggi consideriamo in situazioni disperate o che, come il Brasile, stanno distruggendo le proprie ricchezze naturali nel tentativo di imitare il modello proposto o imposto dai paesi più industrialmente avanzati, si troverebbero nel giro di pochi anni in una condizione ideale se riuscissero a rifiutare lo sviluppo senza limiti e gli investimenti delle multinazionali e si collocassero in una prospettiva di evoluzione rispettosa dell’ambiente e soprattutto di uso equilibrato delle loro risorse rispetto alle reali esigenze delle rispettive popolazioni. Ben più difficile sarà invece il percorso dei paesi oggi considerati leader mondiali (Cina inclusa), trovandosi nella necessità di dover “smontare” molta parte delle loro industrie e delle loro urbanizzazioni eccessive e di dover ricostituire un ambiente rurale adeguato alle minori ma essenziali esigenze delle rispettive popolazioni.
Naturalmente, un cambio di modello così radicale e profondo, imposto dai mutamenti climatici e dalla minore disponibilità di materie prime, specie energetiche, non dovrà essere effettuato con la violenza da inimmaginabili governi mondiali, ma può soltanto essere il risultato di un lavoro di coscientizzazione diffusa e di maturazioni culturali diverse in ciascuna area, in modo che siano le popolazioni stesse a desiderare di creare e costruire un proprio modello sociale rispettoso del pianeta [vedi Faq n.9].
Il rischio che stiamo correndo in questi anni è che l’inizio dei processi di trasformazione sia troppo ritardato rispetto alla dinamica rapidissima dei meccanismi di danno ambientale. Potrebbero aumentare i costi economici della transizione, ma soprattutto potrebbero diventare pesanti i costi sociali, qualora grandi masse decidessero di ribellarsi alla pressione dei fenomeni della biosfera e alla mancanza di strategie internazionali orientate al mutamento; in questo senso i risultati degli ultimi vertici internazionali e la scarsa importanza attribuita alle politiche ambientali da parte degli stati non lasciano troppo tranquilli.
Letture essenziali
Serge Latouche, L’altra Africa, tra dono e mercato; Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
Serge Latouche, Giustizia senza limiti, la sfida dell’etica in una economia globalizzata, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
Hervè‐Renè Martin, Eloge de la simplicite volontarie, Flammarion, 2007.
Majid Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino, 2005.
Majid Rahnema e Jean Robert, La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano, 2010
FAQ n. 5 L’attuale crisi significa che la decrescita è già cominciata e quindi possiamo considerare con favore un futuro di depressione economica?
No. La recessione selvaggia in atto non va confusa con la decrescita scelta e selettiva che noi auspichiamo e che è la via per una fuoriuscita dalla economia della “crescita o morte”.
La fase attualmente attraversata da moltissimi paesi di più antica industrializzazione è il risultato della sovrapposizione di più crisi diverse: economica, finanziaria, ambientale. Tale fase, inoltre, entra nel suo sesto anno e non accenna a terminare, anzi alcuni fenomeni economici negativi (indebitamento pubblico, riduzione dei consumi, disoccupazione, inflazione) sembrano intensificarsi, mentre quelli sociali hanno appena iniziato ad emergere in tutta la loro drammaticità: inoccupazione e persino abbassamento del livello medio di vita.
I processi di decrescita che noi auspichiamo non vanno confusi con le politiche di “austerità” messi in atto dai governi e che sono un modo arrendevole di adattamento alla crisi e nemmeno con politiche neokeynesiane (di sostegno pubblico all’economia di mercato) che servono solo ad attutire e dilazionare le conseguenze della crisi senza affrontare le sue ragioni profonde e strutturali.
La decrescita invece comporta un completo cambiamento di modelli, un nuovo paradigma, un formidabile salto storico nelle relazioni e nelle logiche sociali, per un motivo molto semplice: le analisi formulate sullo “sviluppo”, specie quello relativo agli ultimi sei decenni, hanno portato i teorici della decrescita a convincersi che è l’intero sistema dominante di tipo capitalistico che deve essere sostituito, poiché i danni arrecati al pianeta e alle popolazioni più deboli non possono essere modificati dall’attuale sistema economico e sociale. Il sistema dominante ha superato i limiti di sopravvivenza della biosfera, ha trasformato il clima, sta alterando le condizioni di sopravvivenza delle specie viventi (non solo di quella umana).
Crisi e depressione economica, all’interno del sistema dominante, sono associate all’impoverimento e per questo preoccupano tutti coloro che hanno a cuore le condizioni reali delle persone più esposte ai condizionamenti del mercato e senza alternative di reddito. Questa condizione sembra corroborare l’equazione ripetuta fino alla noia dai media e dai politici di ogni schieramento: crescita=maggiore ricchezza e benessere, crisi=diminuzione della ricchezza e del benessere.
In realtà, non è sempre e necessariamente così, ed anzi in molti casi è vero il contrario: per esempio la crescita economica, cioè del PIL, spesso si accompagna ad un peggioramento del benessere: è ben noto infatti che il PIL può crescere in relazione a guerre (spese militari e per la ricostruzione), catastrofi
ambientali (come è avvenuto in Giappone l’anno successivo al terremoto), incidenti automobilistici,
malattie (più farmaci, più prestazioni sanitarie), inquinamento (occorre bonificare) e così via. Più in generale,
la contabilità economica ufficiale non considera in modo adeguato i costi effettivi della crescita (per esempio il degrado ambientale) che di norma vengono esternalizzati e spostati nel futuro il più possibile; la separazione spazio‐temporale tra i benefici immediati e i costi reali occultati o spinti più in là favorisce la fede semplicistica nella bontà della crescita e del consumismo. Tutto questo genera l’illusione ottica di un maggior benessere, anche quando in realtà si sta diventando più poveri, indipendentemente dalla crisi .
Ne consegue che l’andamento economico ufficiale, misurato attraverso il PIL, non è in grado di fornire indicazioni attendibili su quello che sta succedendo, cioè sul benessere reale o sull’impoverimento di un paese: questa tesi, che una volta sembrava sovversiva o bizzarra, è oggi accolta in qualche modo anche presso ambienti istituzionali importanti, la Commissione Europea in primo luogo (si veda l’importante studio L’economia degli ecosistemi e della biodiversità). In questo documento ufficiale, la vecchia bussola del PIL è considerata superata, e vien posto il problema di individuare indicatori alternativi, da proporre agli stati europei.
La decrescita perciò resta relativamente indifferente di fronte al fatto che il PIL cresca (crescita, sviluppo) o diminuisca (crisi, recessione).
Sulla base di questa impostazione è peraltro possibile esplorare, almeno in via generale, quali occasioni offre una recessione protratta nel tempo a chi intende sottrarsi il più presto possibile alle influenze nefaste del sistema dominante e del pensiero liberista.
Una prima linea di impegno riguarda i comportamenti economici quotidiani, personali e familiari: cosa acquistare, dove e a che prezzo, cosa consumare, a quali caratteristiche dei prodotti fare attenzione [vedi Faq n.3]. Una seconda linea riguarda la possibilità di dedicare più tempo a se stessi e alle proprie esigenze troppo spesso trascurate. Il fattore tempo diventa un alleato invece che un tiranno e tutte queste alternative potrebbero diventare ancora più attraenti in una società della decrescita e un sostegno nella fase di transizione. Una terza linea di preparazione al futuro – sempre senza illusioni eccessive ma con il massimo di realismo – consiste nell’immaginare il ruolo che ognuno vorrebbe avere nella società, che sarà il risultato di una costruzione comune. Infine, è evidente che un inserimento attivo in esperienze come il commercio equo e solidale, i Gruppi di acquisto solidali, l’alimentazione biologica, esperienze di vita rurale e comunitaria, ecc. è sicuramente un fattore valido di coinvolgimento e di scambio [vedi Faq n.17].
Per valutare in modo adeguato e non unilaterale l’andamento del benessere reale, sia in tempi di crescita che di recessione, occorre una scienza economica molto diversa da quella oggi dominante, che resta incentrata su parametri funzionali al business ma incapace di descrivere e conteggiare in modo equilibrato gli aspetti positivi e negativi dello sviluppo economico: un tentativo del genere viene portato avanti, per esempio, dalla corrente nota come “Economia ecologica”, i cui esponenti forniscono studi e dati molto utili per orientare una strategia di decrescita. Uno di questi, Herman Daly, ha mostrato che ormai nei paesi avanzati ogni incremento di crescita ci rende più poveri, non più ricchi, perché i vantaggi dovuti a tali incrementi sono pareggiati, se non superati, dai costi complessivi necessari per ravvivare la crescita.
In questo nuovo contesto, l’alternativa tra crescita e recessione perde di importanza strategica e di significato: ciò che più importa, è il fatto che, in entrambi i casi, il sistema sviluppista non è in grado di assicurare il benessere dei suoi membri, ma solo, eventualmente, il profitto per alcune minoranze affaristiche privilegiate, a danno della società e dell’intera natura. Crescita e recessione appartengono entrambe al paradigma economico dominate, da cui la decrescita prende le distanze in quanto accusato di promuovere la devastazione della Terra e dei legami sociali.
La consapevolezza di questo scenario apre una prospettiva del tutto diversa rispetto alla crescita e alla recessione, che è quella della “prosperità senza crescita” (Tim Jackson), della società di decrescita fondata sull’abbondanza frugale (Serge Latouche).
Letture essenziali
Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, 2008.
Ruth Cullen, 99 idee per salvare la Terra, manuale pratico di pronto soccorso ecologico, Astraea, Bologna, 2008.
Herman Daly – J.B. Cobb, Un’economia per il bene comune, Red, 1994.
Francesco Gesualdi, Sobrietà felice, dallo spreco di pochi ai diritti per tutti, Feltrinelli, Milano, 2005. Serge Latouche, Abbondanza frugale, Bollati e Boringhieri, 2012.
Marina Martorana, Low Cost, vivere alla grande spendendo poco, A. Valiardi, Milano 2008.
Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecosfera e rivoluzione scientifica. Dalla natura come organismo alla natura come macchina. Garzanti, 1988.
Tim Jackson, Prosperità senza crescita, Ed. Ambiente, 2011.
S. Pignatti – B. Trezza, Assalto al pianeta, Bollati Boringhieri, 2000.
Andrea Poggio, Vivi con stile, 150 consigli pratici per una vita a basso impatto ambientale, Terre di Mezzo, Milano, aprile 2007.
Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Ed. Gruppo Abele, 1998.
FAQ n. 6 COME LA DECRESCITA PREVEDE DI RISOLVERE I PROBLEMI DELL’OCCUPAZIONE ?
Distribuendo in modo molto diverso lavoro e retribuzioni.
É ormai abbastanza evidente che la situazione occupazionale di gran parte dei paesi occidentali maggiormente industrializzati è diventata il problema di più difficile soluzione nella attuale fase di crisi economica, finanziaria e ambientale ed anche la più evidente dimostrazione del fallimento del modello economico fondato sulla crescita.
I mercati del lavoro nazionali dei diversi stati hanno visto aumentare di oltre 46 milioni la disoccupazione ufficiale negli ultimi anni; di questi oltre sette milioni sono il risultato di ridimensionamenti dei posti di lavoro nelle principali imprese multinazionali, anche in quelle operanti nei settori tecnologicamente più avanzati. Ciò significa che la disoccupazione colpisce anche imprese con posizioni monopolistiche che hanno finora effettuato ricerche di avanguardia e messo a punto prodotti innovativi.
Anche l’estensione di molteplici forme di precariato ha contribuito a ridurre sia i processi di avviamento ad un lavoro a tempo indeterminato, sia a spingere giovani e immigrati nell’area del non lavoro. La perdita del posto di lavoro in Italia, inoltre, ha colpito anche, in misura rilevante, la fascia dei dirigenti, in particolari quelli di età superiore ai 50 anni. Scompensi tra domanda e offerta nel reperimento di varie categorie di manodopera specializzata si registrano nelle medie e piccole imprese. Flussi migratori hanno ripreso a interessare diverse aree del paese e dell’Europa.
A queste contraddizioni del mercato del lavoro si aggiungono le conseguenze a breve e a lungo tempo delle misure di “austerità” adottate nei mesi più recenti riguardanti i trattamenti pensionistici. L’aumento del periodo lavorativo obbligatorio allontana l’età della pensione e mantiene più a lungo in servizio persone di una certa età, così non libera posti di lavoro, incide negativamente sull’efficienza e sulla creatività all’interno di aziende ed uffici amministrativi e non aiuta ad assorbire manodopera più giovane e qualificata. Tali misure sono adottate nella speranza di un rapido riequilibrio del debito pubblico, ma rischiano di avere conseguenze sociali negative in tempi non troppo lontani.
Il pensiero della decrescita si muove in una prospettiva completamente diversa. Il passaggio ad un sistema energetico molto meno inquinante e a una struttura produttiva più adeguata alla disponibilità reale di materie prime e con metodi di estrazione non dannosi per l’ambiente, dovrebbe permettere sia di ridurre le ore lavorate per persona, sia di concentrare la produzione su beni realmente utili, pur mantenendo retribuzioni sufficienti alla soddisfazione dei bisogni essenziali di tutte le famiglie in tutti i paesi. Può essere difficile concepire un cambiamento di logica così radicale, ma diventa sempre più probabile che le pressioni climatiche e il rapido aumento dei danni ambientali costringeranno la maggior parte dei paesi ad avviarsi su questa strada in tempi stretti.
Una volta aumentato il tempo libero a disposizione di ogni persone, ma mantenendo una remunerazione che permetta di affrontare ogni spesa necessaria, diventerà più facile immaginare delle persone che svolgono con motivazioni sociali attività di interesse collettivo. In tal modo si possono ipotizzare lavori che soddisfino anche le loro esigenze più profonde di massima valorizzazione delle capacità personali (fatte
emergere liberamente e senza limiti) e di massima gioia nello scambio di esperienze con altre persone ugualmente liberate e con il massimo riconoscimento delle loro doti creative. Un bravo artigiano avrà allora lo stesso riconoscimento sociale di un artista e l’uso del tempo liberato permetterà di risolvere una serie di situazioni sociali sempre più diffuse, che oggi appaiono irrisolvibili perché legate ad una spesa pubblica fuori controllo (ad esempio assistenza a bimbi piccoli e ad anziani non più autosufficienti), mentre ognuno potrà moltiplicare le sue attività in modo non condizionato dalle retribuzioni.
La ricerca di gratificazioni sempre legata agli acquisti, condizionati a loro volta solo dalle esigenze di una produzione sempre maggiore, verrà quindi sostituita da una serie di attività, materiali o di pensiero, scelte secondo i desideri personali e senza essere necessariamente vincolata ad una spesa in denaro.
Questa trasformazione può essere immaginata come un processo graduale, una volta deciso il cambiamento delle logiche economiche di fondo, e potrà adeguarsi progressivamente alle reali disponibilità di risorse naturali derivanti, a seconda dei paesi, dal territorio rimasto intatto rispetto ai danneggiamenti passati o recuperato con apposite attività di tipo collettivo e non più ispirate soltanto da guadagni monetari individuali.
Il passaggio dalle attuali condizioni lavorative a forte sfruttamento e da una disoccupazione strutturale di lungo periodo può apparire a prima vista molto difficile. In realtà, basterebbe partire con interventi parziali in aree dove il recupero ambientale è più urgente e i vantaggi del nuovo modello più evidenti; sempre che le modifiche del clima e altri danni ambientali non impongano nei prossimi anni tempi accelerati e costi umani in termini di sofferenze e morti non più evitabili.
É a questo che allude Serge Latouche quando afferma:
“Per gli ‘obiettori di crescita’, nella misura in cui è escluso il rilancio dell’occupazione attraverso il consumo, una riduzione drastica del tempo di lavoro imposto è una condizione indispensabile per uscire da un modello lavorista di crescita, ma anche per assicurare a tutti un’occupazione soddisfacente, realizzando al tempo stesso la necessaria riduzione di due terzi del consumo di risorse naturali (…). La decrescita implica al tempo stesso una riduzione quantitativa e una trasformazione qualitativa del lavoro. Alcuni sono già riusciti individualmente a realizzare questa fuoriuscita dalla società lavorista, e queste esperienze possono indicare una strada, a patto di resistere all’ingranaggio dell’accumulazione illimitata e di difendersi dal ciclo infernale dei bisogni e del reddito. La riduzione drastica del tempo di lavoro costituisce una prima protezione contro la flessibilità e la precarietà. Per questo motivo deve essere mantenuto e rafforzato il diritto del lavoro, oggi nel mirino dei liberisti in quanto fonte di rigidità. Questo non può che facilitare la decrescita. Bisogna difendere dei minimi salariali decenti, contro le teorie degli economisti della disoccupazione volontaria, un’impostura del nostro tempo”.
Fonti dei dati utilizzati
Rapporti ILO, Organizzazione Internazionale del Lavoro.
Rapporto Manageritalia 2012, Dirigente, 50 anni, in centomila perdono il posto, Corriere della Sera, 7 maggio 2012.
Rapporto Excelsior di Union Camere‐Ministero del Lavoro, sulle qualifiche di lavoro introvabili, Corriere della Sera del 6 maggio 2012.
Letture consigliate
Luciano Gallino, Occupazione, ricette immaginarie, in: “La Repubblica”, 3 marzo 2012.
Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista di P. Borgna, Laterza, Roma, 2012.
Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Boroli, 1978.
Serge Latouche, Abbiamo paura ad ammetterlo, il problema è il lavoro, testo recentemente apparso sul suo blog.
Richard Sennet, L’uomo artigiano, 2010.
FAQ n. 7 CON LA DECRESCITA IL LAVORO DOMESTICO E DI CURA GRAVERA’ ANCORA E IN MAGGIOR MISURA SULLE DONNE?
La decrescita intende superare l’attuale divisione sessuale del lavoro e pone al centro del suo progetto di cambiamento la valorizzazione del lavoro di produzione e conservazione della vita.
In una società caratterizzata dal dominio pervasivo degli uomini sulle donne è assai probabile che di
qualsiasi mutamento o processo innovativo si avvalgano soprattutto gli uomini. La storia ce ne fornisce numerosi esempi. Basti pensare alla rivoluzione bolscevica, l’evento che più di ogni altro suscitò le speranze di emancipazione di tutti gli oppressi. La retorica della liberazione della donna dal lavoro domestico (“il comunismo trasforma le mogli in persone”) si risolse in una estensione della schiavitù industriale delle donne senza sollevarle dal lavoro di cura che subì una svalutazione ancora più accentuata. In questo contesto, anche l’adozione del diritto di famiglia più avanzato del mondo (depenalizzazione dell’aborto, divorzio) ebbe come conseguenza un aumento dell’irresponsabilità maschile. A mutare non furono tanto le relazioni tra i generi, quanto le giustificazioni di un dominio antico. È lecito temere quindi che anche il processo avviato dalla decrescita, se non riuscirà a mettere in discussione quel dominio che si fonda sulla divisione sessuale del lavoro, se non sfiderà la svalutazione del lavoro domestico e di cura, da tempi immemorabili svolti dalle donne, si risolverà in una riaffermazione della asimmetria tra i generi. Nell’immaginare e costruire una transizione democratica e creativa verso una società libera da ogni forma di dominio, il pensiero e le pratiche della decrescita possono incontrare la riflessione femminista sull’economia, il lavoro di riproduzione, il nesso tra oppressione delle donne e dominio sulla natura; possono attingere all’esperienza dei movimenti femminili in varie parti del mondo in difesa dell’ambiente e delle terre comuni, volti a preservare la dignità, l’autodeterminazione e l’autosufficienza delle donne. Tra il pensiero della decrescita e quello femminista, infatti, molti sono i presupposti comuni: la critica alla crescita, un modo nuovo di intendere l’economia che riconosce come fondamentali attività e servizi che non derivano dalla produzione di beni materiali, ma che assicurano il benessere e conservano la vita, ovvero il lavoro non riconosciuto e non pagato delle donne, precondizione e fondamento di ogni altro lavoro, fondamento del processo di accumulazione capitalistico. È stato calcolato (Wuppertal Institute) che in Europa le ore impiegate nel lavoro domestico e di cura rappresentano il 59% del complesso delle ore lavorate. Un lavoro reso invisibile, sfruttabile senza alcun limite, posto al di fuori dell’economia, “naturalizzato”, ovvero considerato al pari di una risorsa naturale. Inoltre, il lavoro non retribuito delle donne e delle madri, ovvero retribuito attraverso il salario maschile, ha come conseguenza inevitabile il rafforzamento dei rapporti gerarchici all’interno della famiglia e, conferendo all’uomo un falso senso di superiorità, apre la via alla violenza.
Le condizioni in cui si svolge il lavoro di produzione e conservazione della vita nelle società industrializzate ha sollevato e solleva non pochi dilemmi a coloro che si pongono in una prospettiva di radicale mutamento dei rapporti sociali, tra i generi e tra esseri umani e natura. Come rapportarsi al lavoro domestico? Come infrangere le barriere artificiali che il capitalismo ha creato tra lavoro salariato e non e valorizzare il lavoro delle donne sottraendolo all’invisibilità? L’unico riconoscimento possibile nelle società industriali è la retribuzione. Ed è in questa direzione che i movimenti femminili si sono orientati, soprattutto in passato. Fin dai primi decenni del Novecento, e in particolare dagli anni Settanta, la riflessione femminista ha messo in discussione il concetto di lavoro nella teoria marxista, ha individuato nella famiglia l’istituzione in cui si riproducono i rapporti di dominio, ha richiamato lo stato alle proprie responsabilità rispetto al costo della crescita delle nuove generazioni. Ma se da un lato la retribuzione del lavoro domestico e di cura assicurerebbe maggiore indipendenza e dignità alle donne, valorizzerebbe la maternità e diminuirebbe la povertà infantile (1 bambino su 4 in Italia è a rischio di povertà), dall’altro il vincolo del denaro riprodurrebbe nuove catene e nuove svalutazioni. Infatti, come misurare il lavoro di cura in termini monetari? Perché allora, invece di tentare di integrare il lavoro domestico e di cura all’interno del
paradigma esistente, ovvero all’interno del sistema di valori dell’economia patriarcale, non rivedere i nostri presupposti concettuali e cercare di guardare oltre il mercato e la monetizzazione delle prestazioni? Perché,
invece che alla compensazione, non si pensa piuttosto a rimuovere le barriere che impediscono ai valori sottesi al lavoro di riproduzione e conservazione della vita di estendersi, permeare la società e divenire obiettivo primario dell’economia? È quanto sostengono alcune autrici contemporanee che hanno rivolto la propria attenzione a tutte le altre aree di lavoro non salariato, in primo luogo ai contadini – uomini e donne – dei paesi del Sud del mondo (si vedano le FAQ 4 e 20).
L’attività legata al lavoro di produzione e conservazione della vita è stata recentemente rappresentata come il cuore dell’economia, definita come l’unica “economia libera”. Più ci si allontana da quel centro, maggiore l’instabilità, lo sradicamento, il disagio individuale, il malessere sociale e il degrado ambientale. La critica radicale alla crescita economica ha condotto e conduce a rivolgersi alla creazione di economie locali alternative, alla formazione di comunità che riflettano la centralità della vita domestica, basate sull’etica della sussistenza, in cui il lavoro non ha altro scopo che la produzione immediata della vita, in cui si impari a vivere in una diversa dimensione del tempo, il tempo biologico, che è il tempo delle donne quando compiono il lavoro di cura. Solo una diversa concezione del tempo, del lavoro, dell’economia potrà condurre al superamento della divisione sessuale del lavoro. La semplice riduzione della giornata lavorativa non si è mai risolta in una maggiore responsabilità maschile per il lavoro domestico e di cura, al contrario. Agire in base alla consapevolezza che il benessere umano, fisico ed emotivo, dipende dalle attività basate sulla sussistenza e non dal denaro, implica un rinnovamento culturale profondo, un processo etico, creativo e inclusivo, capace di cogliere e contrastare tutte le forme di dominio, di divisione e di ingiustizia. Una tale prospettiva implica un mutamento radicale di tutte le relazioni sociali, tra gli uomini e le donne, le generazioni, le aree urbane e rurali, le classi, i popoli, tra gli esseri umani e la natura. Implica in primo luogo che gli uomini, per preservare la loro stessa umanità e dignità, vogliano e sappiano riconoscere e far propri i valori della produzione e del sostegno della vita, cambiare il proprio modo di pensare, di essere nel mondo e nella relazione con le donne, rifiutino la violenza, condividano la responsabilità per il lavoro domestico, la cura dei bambini, degli anziani e dei malati.
Riferimenti bibliografici
Ester Boserup, Il lavoro delle donne. La divisione sessuale del lavoro nello sviluppo economico, Rosenberg & Sellier, 1982.
Veronika Bennholdt‐Thomsen, La politica della prospettiva di sussistenza, in “DEP. Deportate, esuli, profughe”, 20, 2012, http://www.unive.it/dep, in uscita a luglio 2012.
Maria Rosa Dalla Costa‐Giovanna Franca Dalla Costa (a cura di), Donne, sviluppo e lavoro di riproduzione, Angeli, Milano 1996.
Elisabetta Donini, Donne, ambiente, etica delle relazioni. Prospettive femministe su economia e ecologia, in “DEP. Deportate, esuli, profughe”, 20, 2012, http://www.unive.it/dep, in uscita a luglio 2012.
Hikka Pietila, Basic Elements Of Human Economy. A Sketch For A Holistic Picture Of Human Economy (1997), http://www.kasakobiet.ngo.org.pl/teksty/hilkka_pietila_eng.html.
Wally Seccombe, Famiglie nella tempesta. Classe operaia e forme famigliari dalla rivoluzione industriale al declino della fertilità [1993], La Nuova Italia, Firenze 1997.
FAQ n. 8 PERCHE’ DATE COSI’ TANTA IMPORTANZA AL SENSO DEL LIMITE?
Perché la potenza di trasformazione dell’ambiente naturale raggiunta dalla tecnoscenza è tale da consigliare di tenerla sotto costante verifica.
Nell’ottica della cultura moderna, e poi contemporanea, il “limite” finisce per assumere una connotazione più che altro negativa: viene associato a qualcosa che impedisce la libertà umana, che ostacola il raggio d’azione dell’attivismo umano. Si tratta perciò di lottare contro tutto ciò che figura come manifestazione di una tale forza limitatrice, considerata ostile nei riguardi del mondo umano. Quasi tutta la cultura moderna trova il suo orizzonte di senso in questa battaglia contro il limite; le principali filosofie moderne non faranno altro che cercare di giustificare, nobilitare e sistematizzare questa visione bellicosa del mondo, incentrata su una pretesa di fondo, data per ovvia: il diritto del genere umano (specialmente quello occidentale) a espandersi oltre ogni misura, abbattendo via via gli ostacoli, e poiché il principale ostacolo era considerato la natura, l’appello alla lotta contro di essa diventa un monotono ritornello che accomuna le principali correnti della modernità, siano esse di tipo materialistico o spiritualistico. Bacone, Cartesio, Locke, Kant, Fichte, Hegel, Marx… non faranno altro che proporre alcune varianti sul tema comune di fondo. Scienza e tecnologia diventano i mezzi più decisivi per armare la volontà di potenza: è qui che l’antropocentrismo trova la sua elaborazione più potente, andando ben oltre le formulazioni premoderne dovute soprattutto alla teologia monoteistica. Quando Francis Bacone, all’alba della modernità, annuncia che il compito dell’uomo è quello di imitare il più possibile l’onnipotenza di Dio tramite la tecnoscienza, per diventare egli stesso superpotente ad immagine di Dio, l’intima connessione tra teologia monoteistica, dominio tecnoscientifico e antropocentrismo diventa evidentissima. A partire da istanze culturali di questo tipo, inizia un gigantesco processo di rimozione dei “limiti” e di espansione economica, tecnologica, scientifica, demografica… a detrimento della natura e del non‐umano in genere, che vengono via via ridimensionati e rimodellati ad uso umano: il resto è storia dei nostri giorni. Noi siamo il prolungamento, forse la fase finale, di un progetto di dominio e di espansione illimitata, iniziato alcuni secoli addietro. Non si può capire pienamente la tendenza fondamentale del nostro tempo (cioè la crescita illimitata), se si dimenticano queste premesse di fondo, che hanno alimentato innumerevoli speranze e illusioni in un mondo migliore. Noi oggi abbiamo il privilegio/responsabilità di verificare che questa spinta portentosa in avanti si è conclusa, e che essa, nonostante alcuni notevoli successi, in generale non ha dato i frutti sperati, ma ha colmato la Terra di rovine e di inquietudini, con le quali dobbiamo fare i conti urgentemente.
Siamo in presenza, per usare il linguaggio di antiche saggezze che erano state scioccamente derise, di un enorme squilibrio cosmico, dovuto al fatto che alcune “energie” (umane, economiche, tecnologiche… ) sono cresciute in modo abnorme, alterando armonie ancestrali con esiti incontrollabili. Nel corso di questa operazione necessaria, in parte già avviata, è altresì doveroso rivalutare l’importanza dei saperi tradizionali, legati ad economie di sussistenza, che hanno garantito la sopravvivenza di molti popoli in condizioni difficili per secoli e per millenni: sono proprio le scienze attuali più avanzate, quelle rivolte alla sostenibilità, a riconoscere che su questo terreno abbiamo molto da imparare dalle saggezze e dai saperi preindustriali, in quanto dotati di una straordinaria esperienza per quanto riguarda la vita a contatto con la natura e con le sue regole (esperienza che noi abbiamo perduto, nella misura in cui ci siamo affidati unilateralmente alla tecnologia, ritenendo che questa potesse costruire un secondo mondo, quasi sostitutivo di quello naturale).
Il nostro tempo esige un riequilibrio, un passaggio dall’età dell’eccesso a quella della moderazione, della sufficienza, del bastevole: occorre riassorbire entro limiti di compatibilità quanto è andato fuori misura (troppi prelievi di risorse, troppi sprechi, troppi consumi, troppo gigantismo economico e tecnologico, troppo protagonismo umano). Non sarà facile: si tratta di ridiscutere le idee basilari che hanno strutturato il sapere di sfondo della modernità, orientato in senso antropocentrico e sviluppista. Nel tentare questa operazione epocale di risanamento, le saggezze cosmocentriche incentrate sul senso del limite ci vengono
in soccorso: sarà giocoforza cercare di rivalutarle e riattualizzarle, con tutta la creatività di cui saremo capaci.
Letture essenziali
Aa.v.,ecrescita. Idee per una civiltà post‐sviluppista, Sismondi, 2009.
Mario Alcaro, Filosofie della natura, manifestolibri, 2006.
Fritjof Capra, Il punto di svolta, Feltrinelli, 1984.
Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecosfera e rivoluzione scientifica. Dalla natura come organismo alla natura come macchina. Garzanti, 1988.
Cristiano Viglietti, Il limite del bisogno, Mulino, 2011. Luigi Zoja, Storia dell’arroganza, Moretti e Vitali, 2003.
FAQ n. 9 QUAL E’ L’AUTORITA’ CHE PUO’ STABILIRE LA GIUSTA MISURA?
Nessuno lo potrà fare da fuori e dall’alto, ma tutti assieme seguendo metodi e procedure di autogoverno e autogestione comunitaria.
Sofocle nell’Edipo scriveva: “Chi vuole vivere oltre il limite giusto e la misura perde la mente ed è in palese stoltezza”. Vero, ma chi può dire oggi di avere l’autorità scientifica, politica e morale per imporre il “limite giusto”, la soglia della “good enough society”, del sufficiente, del bastevole? Un tempo gli equilibri erano assicurati dalle religioni (il rispetto per il sacro) e dai sovrani (gli obblighi servili). Poi venne la razionalità calcolatrice scientifica, che è diventata un’altra forma di fede e di religione [vedi Faq n.8]. Oggi, che pretendiamo di essere donne e uomini emancipati, liberi da vincoli non volontari, abbiamo capito che serve anche la democrazia, cioè, la capacità di condividere equamente tutto ciò di cui disponiamo.
Dobbiamo imparare a produrre ciò di cui abbiamo bisogno con ciò che abbiamo a disposizione, senza sottrarlo ad altri, senza generare iniquità.. Se necessario dobbiamo imparare ad autolimitare i nostri sconfinati desideri [vedi Faq n.3] ed evitare di danneggiare gli altri.
C’è un rapporto stretto tra decrescita e democrazia, quindi. La via della diminuzione degli impatti delle attività umane sull’ambiente naturale, infatti, può essere percorsa in vari modi. Come già avviene oggi, in modo disordinato, inconsapevole e subìto dalle popolazioni, attraverso gli automatismi del mercato che aumentano i prezzi dei prodotti petroliferi, delle commodities alimentari, delle terre fertili, dell’acqua… man mano che i fattori naturali primari di produzione (le materie prime) si fanno sempre più rari e preziosi. Ma in tal modo si generano enormi inequità tra chi può comunque accedere ai mercati e i più poveri che ne vengono esclusi (profughi ambientali, donne, disoccupati, ecc.). Per di più, affidandosi alle regole della domanda e dell’offerta non viene nemmeno garantito l’ottenimento della diminuzione reale dei volumi complessivi di materie prelevate e di scorie rilasciate nell’ambiente naturale.
Invece – nella visione del progetto politico della decrescita consapevole, scelta, selettiva – è possibile immaginare di guidare il percorso di rientro delle attività antropiche nei limiti della sostenibilità ecologica in modo informato, condiviso, equo. In una parola: democratico.
Nel primo caso – che non chiamiamo decrescita, ma recessione selvaggia – l’ “autorità” che decide chi può aumentare i propri consumi e chi invece no è la “mano invisibile” del mercato, ma noi sappiamo bene che in realtà chi “fa i prezzi” è una elite planetaria che siede nei consigli di amministrazione del ristretto gruppo delle grandi compagnie multinazionali che determinano l’andamento dell’economia globalizzata (meno di 500 corporations controllano più del 50% degli scambi internazionali). Nel secondo caso la conversione ecologica del sistema economico avviene con modalità partecipate lungo un cammino di giustizia ambientale e sociale indissolubilmente legati. Tenendo conto delle differenti impronte ecologiche ed anche del “debito ecologico” che le popolazioni più industrializzate hanno accumulato nel tempo con quelle popolazioni che hanno subito processi di impoverimento. Per procedere lungo questo secondo cammino servirebbero accordi internazionali e autorità sovranazionali competenti, imparziali e improntati dall’etica del bene comune. I programmi (United National Development Programme) e le agenzie dell’Onu avrebbero dovuto svolgere questo ruolo seguendo i principi della Carta dei diritti dell’uomo del 1948. Una messe di Dichiarazioni (tra cui quella di Rio sull’ambiente e lo sviluppo), di Convenzioni (tra cui quelle sulla biodiversità e il cambiamento climatico), di Protocolli (tra cui quello di Kioto) e di Agende (tra cui quella per il XXI secolo) avrebbero dovuto indicare obiettivi e tempi della marcia verso
la sostenibilità. In realtà, come ben sappiamo, le autorità effettive, gli stati più forti e i più influenti, si sono ben guardati da mettere in pratica anche le più blande delle indicazioni fornite dalle Nazioni Unite.
Il plateale fallimento delle politiche ambientali nazionali e transnazionali ha giustificato la nascita di una corrente di pensiero politico che ritiene impossibile mettere in pratica politiche di decrescita dei consumi con il consenso delle popolazioni interessate. In altri termini, le popolazioni non accetterebbero mai delle limitazioni ai loro illimitati desideri di crescita dei redditi e dei consumi. Secondo costoro l’essere umano sarebbe egoista per natura e il genere umano sarebbe antropologicamente portato a cercare di possedere quantità sempre maggiori di oggetti e di servizi a propria ed esclusiva disposizione. Secondo costoro, nessun governo riuscirà mai con le buone maniere a chiedere comportamenti e stili di vita più sobri, razionali e meno dispendiosi. Da qui l’invocazione di una “dittatura benevola “ (già vista come una necessità da Hans Jonas), di un “dispotismo tecnocratico illuminato” ( Hubert Védrine), di un governo guidato da ecocrazie autoritarie, espertocrazie post‐democratiche, ecc. C’è quindi una ecologia e una decrescita autoritaria e di destra che fonda il suo dire su una visione pessimistica del genere umano. Molti anni fa Dario Paccino chiamava “ecofascisti” quei politici che evocano la questione ambientale, ma sono incuranti delle reali condizioni sociali in cui vivono le persone più svantaggiate.
Noi, al contrario, siamo persuasi che una trasformazione socioeconomica profonda possa avverarsi solo partendo dalla presa di coscienza di ciascun individuo per diventare un movimento di popolo. La decrescita si sostanza in innumerevoli micropratiche di cittadinanza attiva che quotidianamente sperimenta modi di produzione sociale, senza fini di lucro, di beni e servizi utili per se e per gli altri [vedi Faq n.17]. La società della decrescita, che ha come obiettivo quello di raggiungere un equilibrio con la biosfera, è necessariamente una società autogovernata (Cornelius Castoriadis), con un più alto – non più basso – tasso di democrazia.
L’unica “autorità”, quindi, che può decidere quanto prelevare, quanto consumare, quanto restituire nell’ambiente naturale esterno è la comunità dei produttori e dei consumatori che abitano i loro territori, ne conoscono le potenzialità e ne rispettano i limiti.
Letture essenzialii
Tiziana Banini, Il cerchio e la linea. Alle radici della questione ecologica, Aracne, 2011.
Cornelius Castoriadis in La rivoluzione democratica, 1990.
Takis Foropoulos, Per una democrazia globale, elèutera, 1999.
Hans Jonas, Il principio di sovranità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, 1990.
Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversi sulla decrescita, Bollati e Boringhieri, 2012.
Alberto Magnaghi (a cura di), Il territorio dell’abitare. Lo sviluppo locale come alternativa strategica, Franco Angeli, 1991.
Dario Paccino, I colonnelli verdi, Antonio Pellicani Editore, 1990.
FAQ n. 10 QUALE RUOLO PER LA RICERCA SCIENTIFICA E LO SVILUPPO TECNOLOGICO NELLA SOCIETA’ DELLA DECRESCITA?
La ricerca va liberata dai condizionamenti del potere economico e le tecnologie vanno poste al servizio della preservazione della vita.
La nostra società è sempre più dipendente da tecnologie insostenibili, che sprecano energia e risorse e producono inquinamento e rifiuti; ci attendono perciò sfide enormi per evitare le conseguenze di una grave emergenza climatica ed ecologica. Occorre intraprendere un percorso di riconversione e trasformazione delle basi materiali e culturali delle società cosiddette “sviluppate” (ma soprattutto sviluppiste), evitando che i nostri errori siano ripercorsi dalle altre. É necessario, a questo scopo, un nuovo paradigma scientifico, coerente con la prospettiva della decrescita, che sviluppi tecnologie appropriate e condivise dalla collettività. Il vecchio paradigma, nato circa due secoli fa, e divenuto punto di riferimento anche per l’economia, è un paradigma basato sul riduzionismo e sul meccanicismo.
La visione meccanicista (e determinista) della realtà, che pure ha garantito notevoli progressi tecnologici, era funzionale ad una società nata dalla rivoluzione industriale, che considerava come scopo principale della scienza e della tecnologia quello di fornire all’uomo strumenti per dominare e sottomettere la natura. Questa visione, divenuta ideologia del sistema produttivo liberista, porta a credere che la tecnica sia in grado di risolvere ogni problema, sociale, ambientale o sanitario, in un ambiente dove energia e materie prime sono ritenute sempre disponibili, praticamente infinite. C’è in tutto ciò un irrazionale e irresponsabile
ottimismo, che fa ritenere credibile una crescita continua della produzione industriale e che porta a pensare che qualunque effetto negativo questa produzione possa arrecare all’ambiente o alla salute umana, può essere rimediato e risolto dalla scienza e dalla tecnica. Nell’impostazione meccanicista non c’è spazio per la prevenzione e per la precauzione, ma solo per interventi mirati a curare i danni avvenuti (inquinamenti, malattie, ecc.), interventi che richiedono nuove produzioni e nuovi consumi e che fanno crescere il prodotto interno lordo, unico vero parametro preso in considerazione dall’economia liberista.
Questa ideologia riduce a merce ogni risorsa naturale, comprese quelle ritenute beni comuni, come l’acqua che beviamo, fino agli stessi organismi viventi, essere umano compreso (si pensi alla brevettabilità dei viventi e delle loro parti, geni, cellule, tessuti ecc.). A questa visione mercantile della scienza e della natura occorre contrapporne una nuova, senza cadere nelle trappole del “vitalismo”, una visione antistorica e antievoluzionista. L’uomo non è né padrone né schiavo della natura: come essere vivente deve interagire con il suo ambiente, anche modificandolo, ma, come essere pensante e quindi responsabile delle proprie azioni, deve rispettarne le regole e i criteri, come, ad esempio, i cicli biogeochimici, che permettono un uso razionale delle risorse. Il nuovo paradigma deve passare da una conoscenza manipolatrice della natura, che seleziona e semplifica i sistemi oggetto di studio, ad una conoscenza volta ad approfondire l’intreccio complesso di connessioni tra i diversi sistemi. Alla rozza semplificazione dei fenomeni naturali a fenomeni meccanici, bisogna sostituire un’analisi della complessità dei sistemi, interagenti tra loro. Questa epistemologia naturale è una necessaria premessa per una società sostenibile, in cui le attività umane non riducano a merce ogni bene materiale ed immateriale, ma sappiano inserirsi nei complessi e delicati equilibri dinamici, presenti nell’ambiente naturale, senza distruggerli, senza trasformare le risorse in rifiuti, senza ridurre la biodiversità degli organismi viventi.
Attualmente la ricerca scientifica non è libera, perché dipende dai committenti, cioè da chi la richiede e da chi la finanzia, per lo più centri di potere economico e finanziario, che non coinvolgono i cittadini, ma spesso neppure le comunità scientifiche, che non hanno il controllo delle ricerche finanziate da privati. Analogamente le applicazioni tecnologiche di tali ricerche, coperte da brevetti o da segreti industriali, hanno impatti sociali, ambientali e sanitari che ricadono su tutta la popolazione, che viene esclusa dalle decisioni e tenuta spesso all’oscuro delle possibili ricadute.
Un nuovo paradigma scientifico richiede anche una committenza popolare e decisioni collettive sulle applicazioni tecnologiche, soprattutto in funzione delle esigenze sociali delle comunità, nel rispetto dell’ambiente e dei cicli biogeochimici. Le conoscenze che emergono da tali ricerche costituiscono un bene comune che, a partire dalla collettività che le ha elaborate, devono essere, in quanto “bene comune” (come tutti i saperi), liberamente messe a disposizione dell’intera comunità umana, senza barriere e senza processi di mercificazione.
La necessaria realizzazione di oggetti e di tecnologie sostenibili e realmente utili, che non hanno come scopo il profitto, ma un giusto reddito per chi partecipa alla loro produzione, richiede un processo democratico partecipativo, che coinvolga tutta la collettività: i recenti referendum sul nucleare e sull’acqua hanno messo in evidenza una maggiore saggezza della popolazione nel suo insieme, rispetto ad economisti, ricercatori e tecnocrati. Le decisioni, comunque, devono essere prese non sempre in modo referendario, ma soprattutto attraverso processi partecipativi che coinvolgano le comunità più direttamente interessate. Tutto ciò non significa né rigida programmazione né censura sulla ricerca, bensì un’oculata gestione del potenziale umano ed economico disponibile: di fronte a proposte di ricerca o di studio plausibili e ragionevoli, ma in carenza di risorse, dovranno essere privilegiate quelle che meglio rispondono all’esigenza di conoscere la realtà o di realizzare tecnologie utili, ritenute più urgenti e più importanti dalla collettività, attraverso opportuni strumenti di verifica e di partecipazione.
Una società della decrescita non potrà fare a meno di ricerche scientifiche e di applicazioni tecnologiche, ma non potrà delegare a ricercatori, tecnocrati o centri di potere economico quali ricerche svolgere e soprattutto non potrà affidare a valutazioni solo scientifiche il proprio presente e il proprio futuro, con la consapevolezza che scienza e tecnologia non possono risolvere limiti naturali, come l’esaurimento delle risorse, ma solo rispondere a domande sociali in modo probabilistico e non deterministico, come invece ritiene l’attuale paradigma meccanicista.
Letture essenziali
Fritjof Capra, La scienza universale, Bur 2007.
Marcello Cini, Il supermarket di Prometeo, Codice edizioni, 2006.
S.O. Funtowicz, e J.R. Ravetz, 1990. Uncertainty and quality in science for policy. Kluwer, Dordrecht, The Netherlands.
C. Modenesi C. e G Tamino (a cura di), Fast science. La mercificazione della conoscenza scientifica e della comunicazione, Jaca Book, 2008.
I. Prigogine e I. Stengers La nuova Alleanza, Einaudi, 1981.
Gianno Tamino, “Dalla scienza e conoscenza come “beni comuni” alla privatizzazione del sapere”, in: “La società dei beni comuni” (a cura di P. Cacciari), Ediesse Carta, 2010.
FAQ n. 11 QUALE POTRA’ ESSERE IL RAPPORTO TRA LA NOSTRA SPECIE E LE ALTRE SPECIE ANIMALI NELLA SOCIETA’ IMMAGINATA DELLA DECRESCITA?
La decrescita presuppone una visione etica estesa a tutto il mondo animale e implica buone pratiche di veganismo
Se realmente s’intende ripensare al modello sociale umano in una prospettiva decrescente, è d’obbligo mettere in discussione sin dalle fondamenta il rapporto che la specie umana ha intrattenuto con le altre specie in primis animali.
La società capitalistica – ma non solo quella e la storia lo insegna – si fonda sulla supremazia della specie umana sulle altre, a modello di ogni altra forma di controllo e di dominio. Il controllo può esser inteso come la possibilità di regolare a piacimento il ciclo biologico di altri viventi, il tutto per poter ridurre animali e piante a mere risorse. Il dominio è la diretta conseguenza della pratica del controllo e nasce quando si nega ogni possibilità identitaria e ogni esigenza specifica all’altro, al diverso da se. Per potersi sviluppare senza soluzione di continuità, la società umana ha sempre avuto bisogno di schiavizzare gli animali, non per nulla la società moderna nasce nel momento in cui si coltivano le terre e si addomesticano gli animali. Il processo di domesticazione è il primo vero salto paradigmatico che lacera il contatto diretto con la natura e pone la specie umana a un livello superiore alle altre. In tal senso il neolitico rappresenta per l’umano un punto di volta; da allora il controllo prima e il dominio poi, hanno permesso alla nostra società di disporre della quasi totalità delle forme di vita del nostro pianeta.
L’animale come risorsa, come merce, come valore – non si dimentichi che l’etimologia del termine capitalismo rimanda al capo di bestiame come valore di scambio – è una costante di ogni struttura organizzativa societaria umana, una costante perché rappresenta la base su cui si erge l’intero edificio economico e sociale umano. La nostra esistenza è pervasa dagli animali anche se non li vediamo: li mangiamo, li indossiamo, li trasformiamo, li sezioniamo e controlliamo, il tutto per poter ricavare beni e servizi, ma la dicotomia umano/animale è palesemente un’aberrazione perché è la nostra stessa biologia a confermarci che noi stessi siamo animali. La nostra volontà di dominio è quindi la causa non solo d’indicibili sofferenze animali, ma anche d’immani sofferenze umane, perché non esiste un limite netto, e non può esistere, tra chi subisce tra i non umani e tra chi subisce tra gli umani. La nostra storia ci insegna in modo chiaro che discriminazioni intraspecifiche come il razzismo o il sessismo hanno come presupposto storico lo specismo, ossia la discriminazione in base alla specie di appartenenza che l’umano ha sempre posto in essere per poter sfruttare gli altri animali. Quindi la convinzione antropocentrica che gli umani godano di uno status morale superiore (e quindi di maggiori diritti) rispetto agli altri animali.
Lo sfruttamento del mondo animale non è certo la sola causa della costruzione di una società umana ingiusta, violenta e prevaricatrice, ma di sicuro nessuna società classista dello sviluppo avrebbe potuto nascere senza la sottomissione degli animali e il loro sfruttamento. Una nuova società decrescente è una società non più verticale, ma orizzontale, dove la nostra specie potrà avere di nuovo la possibilità di entrare realmente in contatto con gli altri esseri viventi in modo paritario e rispettoso. Una società libera e liberata dal paradigma della crescita è una società libera e liberata dal dominio e dalla volontà di dominio, e in quanto tale liberata anche da tutte le pratiche che esso comporta. Gli animali non potranno più essere considerati altro che individui (ovvero esseri unici indivisibili) con specificità, soggettività ed esigenze proprie, non risorse o merci da utilizzare a piacimento, e che pertanto non potranno più essere uccisi, mangiati, indossati, imprigionati e sfruttati. La nuova società umana diverrà pacifica e pacificata solo se si porrà termine a una lunga e terribile guerra che abbiamo portato avanti contro chi non appartiene alla nostra specie.
Le buone pratiche in tal senso potrebbero essere molte, prima tra tutte il veganismo etico con tutte le sue derivazioni.
Letture essenziali
Jim Mason, Un mondo sbagliato. Storia della distruzione della natura, degli animali e dell’umanità. Edizioni Sonda, Casale Monferrato, 2007
Charles Patterson, Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’olocausto. Editori Riuniti, Milano, 2003 Jeremy Rifkin, Ecocidio, Oscar Mondadori, Milano, 2001
Tom Regan, Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali. Edizioni Sonda, Casale Monferrato, 2005
FAQ n. 12 COSA DICE LA DECRESCITA DELLA PROPRIETA’?
Bisogna distinguere tra beni e servizi essenziali alla vita delle comunità e beni personali d’uso corrente. I primi devono essere gestiti in modo condiviso.
Non vi è dubbio che alle fondamenta dell’attuale sistema economico vi sia l’istituzione giuridica della proprietà, tanto privata quanto pubblica‐statale, sempre più spesso alleate. Nella società contemporanea vi è un legame stretto tra ragione economica, proprietà, potere. Uno dei principali teorici del capitalismo delle origini, John Locke ha affermato: “Colui che recinta un terreno e da dieci acri trae maggiore quantità di mezzi di sussistenza di quanto potrebbe trarne da cento lasciati allo stato naturale, dona novanta acri all’umanità”. In questa frase vi è un concentrato dell’economia politica moderna, ovvero della “teologia economica”, come la definiva giustamente Walter Benjamin. La proprietarizzazione (enclousures) dei beni che prima venivano utilizzati in forme comunitarie (commons), tra il XVI e il XVII secolo, è giudicata dagli storici l’atto di nascita del capitalismo industriale. Da allora la massimizzazione delle rese è diventata lo scopo dominante della cooperazione sociale, la funzione prima dell’ordinamento giuridico statale, la missione dell’imprenditore (privato o pubblico, fa quasi lo stesso) che così giustifica l’attività di sfruttamento delle risorse umane e naturali. Tutto deve mirare all’obbiettivo di accrescere costantemente la produttività dei “mezzi” e dei “fattori” di produzione in modo tale da riversare sui mercati una quantità sempre maggiore di beni e servizi da “donare – secondo la visione di Locke – all’umanità”. In molti (da Tommaso Moro a Proudhon) contestarono da subito questa teoria e oggi, a distanza di quattro secoli dalla sua pervasiva applicazione, molti scienziati sociali “critici dello sviluppo” ne hanno tratto un bilancio obiettivo, sulla scorta dei risultati effettivamente ottenuti: colonizzazione ed esproprio delle popolazioni native; disintegrazione delle economie e delle culture non omologabili; saccheggio degli stock di “materie prime” e rottura dei servizi resi dai sistemi ecologici (perdita di biodiversità); aumento demografico delle popolazioni impoverite; aumento delle disparità sociali tanto a scala globale, quanto nei singoli stati. Si può dimostrare, quindi, che i vantaggi del sistema economico industriale siano andati ad un numero relativamente ristretto di individui, mentre i suoi costi ambientali e sociali (“esternalità negative”, li chiamano gli economisti, un po’ come dire “effetti collaterali”sui civili provocati dalle guerre) siano stati e continuano ad essere molto elevati. I sostenitori della decrescita pensano pertanto che la proprietà privata debba essere considerata molto realisticamente per quello che concretamente comporta: un artificio giuridico che va verificato senza tabù ideologici, in funzione degli obiettivi che la società si dà e intende perseguire.
Più precisamente è possibile affermare che la privatizzazione dei beni comuni naturali (suoli fertili ed edificabili, acque, atmosfera ed etere, giacimenti minerali, foreste, fauna selvatica, sementi, … fino al genoma umana) si è rivelata la vera tragedia dell’umanità. L’aver concesso ad alcuni gruppi di individui il privilegio di uno sfruttamento in esclusiva (creando monopoli) delle risorse naturali ha, da una parte, privato le comunità locali presenti e future dei mezzi indispensabili al proprio autosostentamento, dall’altra parte, ha accelerato l’entropia del sistema biogeofisico [vedi Faq n.10].
Analogo giudizio negativo va dato sul processo di “nuova accumulazione originaria” che sta avvenendo con la privatizzazione dei beni comuni culturali: saperi, opere d’arte, codici, lingue… prodotti dell’ingegno umano. La loro sottrazione tramite brevetti, copy right e artifici vari (ad es. decoder per selezionare l’accesso alle onde magnetiche) impedisce che i benefici dei ritrovati scientifici possano essere usati da tutti, moltiplicarsi (come avviene con i sistemi open source e creative commons ) e ricadere a vantaggio dell’intera umanità. Per di più la privatizzazione delle risorse naturali e culturali le inserisce obbligatoriamente nel circuito della valorizzazione mercantile (mercificazione e finanziarizzazione), così che la stessa scienza sarà inevitabilmente orientata ad “inventare” applicazioni tecnologiche funzionali alla logica economica dominante, utili cioè alla massimizzazione dei profitti. Ma non è affatto detto che l’interesse monetario del singolo proprietario coincida con l’interesse generale. Infatti, contrariamente a quanto pensava Locke, il proprietario dei dieci acri di terreno – proprio perché “proprietario” – non vorrà, ne potrà “donare” il suo prodotto all’“umanità”, ma tenterà di farselo pagare il più possibile, innescando il micidiale meccanismo dell’accrescimento illimitato della produzione finalizzata al profitto.
In senso lato potremmo dire che anche i mezzi di produzione, sia tecnici che organizzativi, in quanto permettono la formazione di una “forza collettiva”, dovrebbero essere considerati come beni di appartenenza comune, quindi, sottratti alla logica dell’arricchimento privato. Poiché la produzione è necessariamente collettiva – diceva Proudhon – “il capitale è una proprietà sociale”. E oggi potremmo dire che anche l’impresa, in quanto associazione di competenze, abilità, lavori diversi ma complementari e indispensabili, è un bene comune.
Detto tutto questo a proposito della grande “categoria” dei beni comuni, pubblici, inalienabili e indisponibili, per quanto riguarda, invece, tutti gli altri beni, oggetti e servizi di uso corrente e di largo consumo, il loro
uso esclusivo e la loro proprietà privata è giustificata, necessaria e utile. Difficile condividere in molti un
paio di scarpe o un piatto di minestra, ed è meglio se ognuno prende sotto la sua responsabilità e cura il tetto della propria abitazione così come l’educazione dei propri figli. Carl Marx stesso distingueva tra “proprietà privata capitalistica” e “proprietà privata individuale”. La prima è fondata sull’appropriazione e sullo sfruttamento del lavoro altrui, la seconda è acquistata col proprio lavoro personale, indipendente,
utile per sé e in cooperazione con altri, con il pieno controllo dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso.
Sono i modi di produzione capitalistici, quindi, che privatizzando i commons e tutti gli altri mezzi di produzione espropriano il lavoratore dal frutto del suo lavoro, dalla possibilità di disporre dei propri prodotti.
La decrescita, pertanto, indica una strada di liberazione delle risorse naturali e culturali dai recinti proprietari (sia privati che pubblici‐statali) del “market system”, verso una società capace di autogestire le proprie ricchezze in forme cooperative, condivise e solidali.
Le forme con cui si può accedere all’uso personale di beni e servizi sono molte, non sempre e necessariamente quelle del possesso in esclusiva o della proprietà individuale. Pensiamo, ad esempio, alla grande categoria degli usi civici: proprietà private per il Codice civile, ma gestione pubblicistica a tutti gli effetti. Pensiamo ad un’altra grande categoria dei beni gestiti in cooperative di proprietà indivise, inalienabili, ma non per questo “collettivizzati”. Pensiamo alle Fondazioni patrimoniali dove i beni vengono amministrati con affidamento fiduciario. Insomma, è possibile immaginare forme e modi di gestione dei beni e dei servizi che superino il dominio assoluto della proprietà su ogni cosa, oggetto, bene, relazione, forma di vita.
Letture essenziali
Enrico Grazzini, Il bene di tutti, Editori Internazionali Riuniti, 2011. Alberto Lucarelli, Beni comuni. Dalla teoria all’azione, Dissensi, 2011. Ugo Mattei, Beni comuni, un manifesto, Laterza, 2011.
Carl Marx, Il Capitale, libro I (1867). pp. 825‐6.
Pierre Joseph Proudhon, Che cos’è la proprietà (1840), in: Pierre Ansrt, P‐J Proudhon, La Pietra, Milano, 1978.
FAQ n.13 COSA INTENDE FARE LA DECRESCITA PER RIDIMENSIONARE IL POTERE DELLE BANCHE E IL RUOLO DEL DENARO?
La decrescita propone la riappropriazione collettiva delle istituzioni monetarie attraverso una loro ricostituzione politica democratica, partecipata, responsabile ed ecologica.
É ormai ben noto l’enorme ruolo esercitato dal sistema finanziario e dalle banche nell’amplificazione dell’attuale crisi economica. Probabilmente la responsabilità principale va individuata nella gestione truffaldina e fallimentare di un’istituzione che è, o dovrebbe essere, pubblica come il denaro, ma che è stata piegata a fini particolaristici, specialmente speculativi, scaricando i costi sulla collettività e consentendo a pochi agenti finanziari privi di scrupoli l’accumulo di fortune enormi.
Da anni masse abnormi di denaro‐debito emesse liberamente e sconsideratamente dalle organizzazioni finanziarie stanno alimentando un aumento ipertrofico delle attività speculative, una crescita continua dei prezzi delle risorse oggetto di speculazione, finendo per rendere “scarse” le stesse masse monetarie necessarie a far funzionare tutto il sistema. Anche le vecchie “casse di risparmio” e le piccole banche regionali che avevano goduto della fiducia totale e di una delega in bianco da parte dei piccoli risparmiatori si sono fatte in gran parte coinvolgere nella grande truffa globale, arrivando a dilapidare gran parte dei risparmi accumulati dalle famiglie, soprattutto statunitensi ma anche italiane, e ampliando la situazione debitoria globale.
Dobbiamo tener presente però che il rapporto vizioso che si stabilisce tra attività bancarie, denaro e debito non dipende solo dalle condizioni della crisi attuale ma è relativo alla stessa prospettiva della crescita economica capitalistica. Il pagamento di interessi sul denaro‐debito costringe tutti a rilanciare lo sfruttamento di ogni risorsa disponibile, anche in fase di stagnazione, porta ad aumentare i processi inflazionistici e questi richiedono interessi sempre più alti, amplificando condizioni ormai endemiche di crisi e di debito, pubblico e privato, e rilanciando i processi di sfruttamento e il degrado ambientale in un circolo vizioso apparentemente inarrestabile.
Anche per fronteggiare il problema del pagamento di tassi di interesse esosi e per cercare di ricostituire legami sociali più solidali equi e responsabili, si sono andate delineando ormai da alcuni decenni ipotesi ed esperienze di una pluralità di sistemi monetari o pseudo monetari locali, basati su principi di solidarietà ed equità e senza interessi né inflazione. All’interno dello stesso movimento italiano per la decrescita sono state elaborate ipotesi per lo sviluppo di nuove strumentazioni monetarie che potessero risultare compatibili con i bisogni comunitari, le esigenze dei territori e le prospettive di riconversione/riqualificazione della istituzioni economiche incluse quelle monetarie per renderle più compatibili con una cultura ecologica.
Al di la della comune convergenza verso ipotesi di monete solidali, senza interessi e senza inflazione, generalmente radicate su dimensioni territoriali limitate, bisogna ricordare che esistono ipotesi e sperimentazioni di monete locali abbastanza diverse tra loro: sia nella considerazione del ruolo che può essere svolto da sistemi monetari o pseudo monetari ispirati a principi di solidarietà, di equità e di orientamento ecologico, sia nel rapporto che questi possono sviluppare rispetto ai sistemi monetari ufficiali, legati a dinamiche accrescitive e dissipative.
Ci sono approcci o concezioni di monete locali che intendono porsi in qualche modo in alternativa o competizione rispetto alle forme monetarie ufficiali ed alle relazioni economiche capitalistiche più in generale, e approcci che pensano e si muovono in un’ottica di complementarietà al fine di aumentare i livelli di occupazione e rilanciare le economie locali. É specialmente quest’ultimo tipo di approcci che stanno prevalendo tanto nella ricerca quanto nella pratiche concrete, come avviene nel caso degli SCEC, sperimentati da qualche tempo in Italia, mentre è poco considerata l’ipotesi abbastanza realistica che le stesse monete complementari possano sostenere le dinamiche accrescitive ed inflazionistiche dominanti piuttosto che ridurle.
Oggi esperienze di monete complementari o alternative sono state sperimentate a stanno proliferando in tutto mondo specialmente in seguito all’inasprirsi delle condizioni di crisi economiche e di default delle amministrazioni pubbliche, come sta già accadendo in Grecia. Va detto però che tranne in pochi casi isolati il loro impatto pratico è risultato comunque abbastanza scarso, non solo per il tentativo di contrastare lo strapotere del sistema finanziario speculativo ma anche per fronteggiare le stesse condizioni di crisi. Gli obiettivi solitamente perseguiti sono stati e sono in genere molto limitati, forse troppo limitati rispetto ai costi pur ridotti ma necessari per attivare un sistema di monete complementari, e rispetto alle esigenze di cambiamento che si impongono oggi.
Le potenzialità di sviluppo delle esperienze di sistemi monetari alternativi, specialmente dei sistemi di crediti mutuali, comunitari, guidati da principi di equità e senza interessi, restano però enormi, proprio alla luce degli sviluppi estremamente contradditori, manifestamene disfunzionali ed apertamente dissipativi degli attuali sistemi di credito monetario, intrecciati indissolubilmente con i destini fallimentari della finanziarizzazione speculativa globale. Un sistema di crediti comunitari senza interessi, gestito da governi locali e basato su proprie unità di misura del valore dei beni/servizi scambiati (come ore di lavoro convertibili in livelli retributivi medi) potrebbe servire non solo ad attivare “lavoro inoccupato” per soddisfare bisogni legati alla fruizione dei patrimoni ambientali, ma anche per finanziare una parte considerevole delle spese pubbliche applicate alla cura dei beni comuni. Potrebbe aiutare a sviluppare un sistema di accantonamento previdenziale (pensionistico) senza inflazione e senza l’inevitabile destino dissipativo che spetterà a tutti i fondi pensione stretti nelle spire della speculazione finanziaria globale. E potrebbe infine contribuire al recupero di un patrimonio abitativo comune, rilanciando relazioni mutuali e cooperative negli ambiti comunitari locali e portando a ridurre drasticamente i costi sostenuti per il bene casa.
Le banche etiche potrebbero svolgere un ruolo importante in questo processo, sicuramente difficile e lungo, così come possono risultare utili le attuali campagne contro la finanziarizzazione speculativa del risparmio o per la ricontrattazione del debito, pubblico e privato, per la maturazione di condizioni favorevoli alla messa in discussione dell’egemonia finanziaria globale. E’ necessario comunque ridimensionare drasticamente l’attuale strapotere dello stesso sistema finanziario fino a toccare il nodo centrale della necessaria ricostituzione collettiva delle istituzioni monetarie e del credito, partendo dalla ridefinizione della stessa natura del denaro e arrivando a sviluppare pratiche di finanziamento e sistemi di credito non complementari ma alternativi rispetto alle strumentazioni pratiche monetarie e finanziarie dominanti. Parlare di sistemi pseudo monetari e di credito alternativi non significa pensare di potere superare le forme monetarie esistenti ma più semplicemente sviluppare sistemi di scambio e di determinazione economica dei valori di scambio (di attività e beni) che siano almeno in parte sostitutivi delle forme di calcolo e delle strumentazioni monetarie ufficiali, di modo che ogni scambio e credito in forme alternative implichi di fatto una riduzione dei volumi monetari finanziari complessivi (e dunque una decrescita reale dei volumi e dei poteri finanziari orientati capitalisticamente) non dei bisogni e delle attività di cura, relazione e servizio. Ciò avviene già, anche se in misura molto limitata, con i sistemi di banche del tempo, le cui potenzialità potrebbero essere enormi se supportate da strumentazioni adeguate e da adeguate attività di progettazione e di cooperazione collettive. Si tratta di ipotesi ancora in parte utopiche ma non si può sperare di affrontare adeguatamente la questione dello sganciamento dalle pratiche dissipative di risorse e distruttive di comunità, veicolate dagli attuali sistemi finanziari, se non si saprà ripartire, collettivamente, dalla ricostituzione di un progetto politico comune volto alla programmazione di un impiego economico sostenibile delle risorse disponibili su base territoriale.
Letture essenziali
Massimo Amato e L. Fantacci, Monete complementari per i DES, Centro di ricerca di BPE.
Andrea Baranes, Breve storia della crisi, in: Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi, Minimum fax, 2012.
E. Backes, e D. Robert, Soldi. Il libro nero della finanza internazionale, Nuovi mondi Media, 2004. Domenico De Simone, Un’altra moneta, Malatempora, Roma, 2003.
A. Fumagalli, C. Marazzi e A. Zanini, La moneta nell’impero, Ombre Corte, Verona, 2006.
Serge Latouche, Per un abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino, 2012
Bernard Lietaer, The future of Money, Century, London, 2001.
Margrit Kennedy, La moneta libera da interessi e da inflazione, Arianna Editrice, Casalecchio, 2006. Maurizio Ruzzene, Monete, in AAVV: Il dolce avvenire, Diabasis Parma 2009
Siti attinenti: www.sbankiamoli.it, www.nonconimieisoldi.org, www.rivoltaildebito.org
FAQ n. 14 QUALI TRASFORMAZIONI HANNO PORTATO ALLA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA E COSA SI POTREBBE FARE PER CONTRASTARE LA SPECULAZIONE?
Vi sono molte proposte concrete per ridurre le dimensioni e il ruolo della finanza, ma il suo potere appare oggi tale da sfuggire ad ogni controllo democratico. Nel frattempo, negli interstizi aperti dalla crisi, si possono sperimentare nuove forme di finanza alternativa.
Almeno tre sono le trasformazioni qualitative della struttura economico produttiva che si sono succedute dall’industrializzazione ad oggi. La finanziarizzazione è solo l’ultima di queste. Per comprendere cosa significhi questo ultimo salto di scala occorre ripercorrere i passaggi precedenti.
Il primo è stato memorabilmente descritto da Karl Polanyi (1944) nella Grande trasformazione. Esso riguarda in particolare quei processi – come la creazione di un mercato del lavoro – che hanno reso possibile l’avvio della industrializzazione. Rendere il lavoro e la natura merci soggette al libero mercato ha comportato una trasformazione così profonda da rendere possibile non solamente l’emergere di un’altra economia, ma di un’altra società. Il secondo grande processo di cambiamento strutturale e quello che possiamo definire – con Baran and Sweezy (1968) – l’emergere del capitalismo monopolistico, cioè della concentrazione della produzione in grandi unità (la grande fabbrica fordista). Tale processo ha raggiunto una sua prima maturità negli USA già agli inizi del ‘900, quando l’economia ha realizzato una forte concentrazione delle imprese. Avvantaggiandosi delle economie di scala connesse alla produzione di massa, le imprese capaci di realizzare i maggiori profitti hanno assorbito quelle più deboli, procedendo verso la concentrazione della produzione in poche grandi entità. Con questa fase le imprese raggiungono dimensioni tali da controllare in modo pressoché totale la produzione e il mercato. Con il consumismo di massa negli anni Sessanta questo sistema raggiunge la sua pienezza e, grazie al marketing e alla pubblicità, si diffonde progressivamente a tutto il pianeta. É importante rendersi conto che il gigantismo della grande impresa dissolve ogni residua possibilità di controllo da parte dei cittadini (e degli abitanti dei territori) sul “cosa” e sul “come” della produzione, in altre parole sulla logica propria del sistema capitalistico.
Questo sistema entra in crisi con l’inizio degli anni Ottanta, che segnano l’inizio della terza fase, quella che possiamo definire della finanziarizzazione dell’economia. L’organizzazione sociale del lavoro e di stampo fordista, anche a causa dell’accresciuta forza del movimento sindacale, aveva spinto verso l’alto il costo del lavoro, riducendo i margini di profitto e spingendo così le imprese a trasferire parti consistenti della produzione nei paesi ove i costi del lavoro erano più bassi (outsourcing). Tale processo ha portato i grandi gruppi transnazionali ad accentrare il controllo sulle attività finanziarie, divenute strategiche per il controllo dell’intero processo, anche grazie ai nuovi strumenti messi a disposizione dalla rivoluzione informatica. La vittoria dei governi ultraliberisti in Inghilterra e negli Stati Uniti negli anni Ottanta (Thacher, Regan) e il successivo crollo del muro di Berlino, hanno offerto il necessario sostegno politico alla nuova economia finanziaria.
Basti dire che all’inizio degli anni 2000 il totale delle attività finanziarie nei paesi ricchi superava già di circa 10 volte i redditi prodotti dall’economia “reale” (Pil). La crescita dei titoli “derivati” è stata stimata da 93 a 683 migliaia di miliardi di dollari in 10 anni. Le attività così dette “fuori bilancio” delle banche sono cresciute del 1.518 % dal 1992 al 2007. L’attività finanziaria ha assunto inoltre un carattere eminentemente speculativo: si stima che il volume mondiale delle transazioni in titoli esteri alla fine degli anni Novanta si aggirasse attorno all’enorme cifra di 1500 Miliardi di $ al giorno, e il 90% dei titoli ruotava in una sola settimana. La conseguenza probabilmente più importante di quest’ultimo “salto di scala” è che questa enorme massa di denaro si muove ormai non solo al di sopra della testa dei cittadini, ma fuori dalle possibilità di controllo delle autorità di politica monetaria e degli stessi stati. Lo testimonia il fatto che a partire dall’inizio degli anni Ottanta le crisi finanziarie hanno tormentato il sistema economico globale ad intervalli regolari (crollo di Wall Street nel ’87; crisi giapponese nell’89, crisi valutaria in Europa nel ’92, crollo del borse del Sud Est asiatico nel ’96, crisi finanziaria brasiliana e russa nel ’98‐99, nuovo crollo di Wall Street nel 2001, infine, ultima e più grave di tutte, la crisi finanziaria iniziata nel 2007‐2008) senza che gli stati e le autorità di controllo siano riusciti a varare provvedimenti in grado di prevenirne l’impatto distruttivo sui bilanci pubblici e sulla vita dei cittadini.
Si stima che la crisi finanziaria in corso sia costata ai governi 14‐15 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari per salvare le banche e le istituzioni finanziarie mentre in circa 25 trilioni di dollari la ricchezza complessivamente bruciata dalla crisi. I processi di finanziarizzazione hanno anche contribuito ad una massiccia redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto: nel 1973 il 90% dei cittadini americani possedeva il 67% del reddito, percentuale che è scesa al 50% nel 2005 mentre il 10% più ricco è passato dal 33% al 50%. L’1% più ricco ha visto nello stesso periodo i propri redditi crescere del 300%.
In quale direzione occorrerebbe dunque muovere per evitare che le drammatiche conseguenze descritte si ripetano? In termini generali, la risposta fu offerta già negli anni Trenta da J. M. Keynes che, con la consueta eleganza, osservava:
“Io simpatizzo con coloro che vorrebbero ridurre al minimo il groviglio economico tra le nazioni e non con coloro che vorrebbero aumentarlo al massimo. Le idee, il sapere, la scienza, l’ospitalità, il viaggiare, queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma lasciate che le merci siano fatte in casa ogni qualvolta ciò e ragionevolmente e praticamente possibile e, sopratutto, che la finanza sia eminentemente nazionale”.
Nel contesto successivo alla crisi del 2008, Luciano Gallino ha proposto un insieme di riforme dell’architettura finanziaria che muovono nella medesima direzione:
1. drastica riduzione delle dimensioni del sistema finanziario (narrow banking) che preveda tra l’altro la separazione dei depositi dagli investimenti a carattere speculativo e, aggiungiamo noi, una tassazione delle transazioni (tipo Tobin Tax);
2. riduzione e regolazione della “finanza ombra” e del mercato dei derivati;
3. proibizione della vendita di titoli troppo complessi (tipo CDO) e della cartolarizzazione dei crediti;
4. riforma del sistema di controllo (attualmente nelle mani di soggetti privati o controllati da privati) e
riduzione dei compensi dei manager.
Ma è realistico immaginare che la politica abbia oggi la forza e l’indipendenza necessaria per mettere in atto un programma di riforme così incisive come quelle qui auspicate? La risposta ci viene dagli stessi sviluppi successivi alla crisi. Nonostante le devastanti conseguenze sui cittadini e sui bilanci degli stati le risposte da parte del sistema politico sono state decisamente blande (concentrandosi unicamente sui sistemi di regolazione) senza mettere mano ad una riforma strutturale del sistema finanziario finalizzata a ridurne le dimensioni e l’incidenza complessiva. Per quanto difficile sia fare previsioni per il futuro, appare oggi più probabile che il sistema finanziario seguirà una parabola dove ad un crescita tumultuosa seguirà uno scenario di “collasso” più o meno rapido, piuttosto che quella di una progressiva e graduale riduzione e regolamentazione. É probabile ed auspicabile che in questa fase di estrema instabilità si sviluppino, a fianco del sistema finanziario ufficiale, forme di finanza “alternativa” (monete complementari, sistemi finanziari locali), paralleli ed indipendenti, capaci di sfruttare le crepe e gli interstizi che, sempre più ampi, si apriranno nelle maglie del sistema globale in crisi [vedi Faq n.13]. Mano a mano che la crisi del sistema ufficiale si aggraverà queste esperienze di finanza alternativa riceveranno crescente supporto, oltre che da parte dei cittadini e dei territori, anche dalle istituzioni locali, sempre più a corto di risorse provenienti dal centro nazionale.
Letture consigliate
L. Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino, 2011.
K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974 (ed. or. 1944).
J. Tainter, The Collapse of Complex Societies, Cambridge University Press, 1988.
FAQ n. 15 COSA PUO’ FARE LA DECRESCITA AL TEMPO DELLA CRISI PERMANENTE E SISTEMICA (FINANZIARIA, ECONOMICA, AMBIENTALE)?
Non bastano più i cerotti. É necessario riconsiderare e riorientare nel suo insieme il sistema economico e sociale partendo da nuovi principi etici ed ecologici.
L’Occidente, il “primo mondo”, le economie di più antica industrializzazione, il sistema neoliberale capitalistico – chiamiamolo come vogliamo – è entrato in una crisi profonda, non congiunturale e non superabile somministrando ricette preconfezionate. Siamo in presenza di una crisi persistente, multifattoriale, strutturale. Crisi finanziaria e della solvibilità del debito [vedi Faq n.14], crisi economica (è crollata la capacità del sistema produttivo di generare profitti, accumulare capitali, investire, occupare lavoro; una crisi, assieme, di redditività e di sovrapproduzione), crisi energetica e delle materie prime, crisi alimentare (i prezzi sempre più elevati delle commodities rendono difficile l’accesso al cibo per centinaia di milioni di persone), crisi idrica (desertificazione, salinizzazione dei fiumi, inquinamenti, prelievi eccessivi assetano intere regioni del pianeta), crisi climatica (le emissioni di gas serra hanno innescato un surriscaldamento dell’atmosfera che porterà entro il secolo ad aumenti insostenibili della temperatura del globo modificando le correnti marine e i venti), perdita di biodiversità (diminuzione della numerosità delle specie viventi animali e vegetali, marine e terrestri).
É evidente che tutte queste crisi sono correlate e producono un effetto moltiplicatore. Così com’è evidente che l’imperativo della crescita economica ad ogni costo stringe la morsa delle crisi ambientali e sociali. Meglio sarebbe prendere atto che siamo di fatto già entrati in una economia post‐crescita, abbandonando ogni illusoria nostalgia della stagione irripetibile della grande crescita del dopoguerra. Non si presenteranno più quelle condizioni. É giunto a compimento un ciclo economico molto lungo che ci obbliga a riconsiderare il valore delle cose e il senso comune del benessere. Dovremmo imparare a vivere meglio con meno utilizzando ciò che si ha a disposizione, prosperare senza sperperare, usufruire senza dissipare, soddisfare i nostri bisogni e i nostri desideri senza necessariamente cercarli negli scaffali dei supermercati. Insomma, un vero passaggio di fase storica che molti osservatori guardano come ad un cambio di civiltà. Per dirla con Franco Cassano è crollato “il nucleo mitologico costitutivo della modernità contemporanea”: quell’idea di progresso lineare basato su uno sviluppo crescente e infinito delle forze produttive le cui molle sono stati “l’individualismo proprietario, l’arricchimento egoistico, la competitività, il produttivismo, la brama del possesso, il dominio assoluto del denaro, del valore di scambio sull’utilità effettiva delle cose”. All’opposto, il nuovo modello di civilizzazione dovrà poggiare su altri valori etici e altri principi sociali. Di fronte alla crisi, se vogliamo evitare di subire tanto le psicopatologie depressive da “fine del mondo”, quanto le pesantissime conseguenze materiali sui redditi e sull’occupazione, il dovere di noi tutti è trovare delle soluzioni che siano all’altezza della gravità della situazione e capaci da subito di invertire il declino. Nostra convinzione è che la decrescita possa rappresentare una alternativa alla recessione che sia valida per il “99%” della popolazione del globo, che sia capace di offrire soluzioni sia a grande scala, che a scala micro, sia nel lungo periodo, che nel breve. La decrescita, infatti, è un’indicazione di direzione e un metodo, una “matrice” (ha scritto Latouche) generatrice di soluzioni applicabili ovunque e misurabili con il “metro” della diminuzione dell’impronta ecologica e del consumo di natura, da una parte, e, dall’altra, con l’“orologio”
che segna la redistribuzione dei carichi di lavoro tra occupati e inoccupati, tra uomini e donne [vedi Faq n. 7], tra lavoro eteronomo e lavoro scelto, comunitario, conviviale, utile per sé e per gli altri. In una parola usando indicatori della qualità della vita “indifferenti al Pil”. Decrescita come progressiva dissociazione e affrancamento dall’economia di mercato e affermazione di un progetto di autonomia e autogoverno.
Nel concreto delle crisi in atto, decrescita significa:
1. intervenire con tutti gli strumenti necessari per sgonfiare le “bolle finanziarie” e azzerare gran parte del debito pubblico fino a ridimensionare la sfera monetaria e riportare la funzione stessa del denaro alle sue origini di mezzo tecnico ausiliario utile per gli scambi ma non finalizzabile all’accumulazione e alla moltiplicazione della ricchezza. Per questo sarebbe necessario “rimettere barriere al mercato finanziario mondiale e riframmentare gli spazi monetari” (Latouche) [vedi Faq n.13];
2. avviare una conversione ecologica degli apparati energetici e produttivi per ridurre al minimo la dipendenza da fonti fossili; produrre beni che possano durare a lungo evitando ogni forma di inquinamento; coltivare in modi biologici e realizzare la maggiore autosufficienza produttiva su basi locali, senza aver paura di porre in essere misure di protezionismo ecologico e sociale a scala bioregionale [vedi Faq n.2];
3. azzerare l’idea stessa dell’economia come scienza autonoma autoreferenziale per ricondurla a mero strumento contabile al servizio dei bisogni sociali autentici delle popolazioni, che sono: l’impiego di tutta la disponibilità di lavoro, l’equità distributiva, il rispetto della dignità delle persone, la responsabilità sociale e ambientale delle imprese. Nel concreto, si tratta di favorire la diversificazione dei modi di produzione allargando tutte le forme di economia non profittevole, “solidale”, “civile”, “sociale”, non dipendente dal debito [vedi Faq n.17];
4. “Progettare e praticare un diverso modo di vivere, di produrre, di consumare, di amministrare” (Viale), cambiando comportamenti: da individui automi eterodiretti dal marketing a produttori e consumatori consapevoli con vincoli di solidarietà, capaci di essere utili a sé e agli atri. Cittadini che si prendono cura della preservazione dei beni comuni [vedi Faq n. 18];
5. da subito è possibile pensare ad un piano del lavoro straordinario per creare posti di lavoro senza crescita, volto alla conservazione e alla messa in sicurezza dei patrimoni naturali, storico artistici e infrastrutturali, finanziato – oltre che con le politiche fiscali tradizionali – “fuori dall’Euro”, creando nuovi circuiti monetari pubblici nazionalizzati paralleli e indipendenti (monete complementari). Con la creazione, cioè, di una quota di ricchezza nazionale de‐globalizzata e al riparo dai tentacoli della speculazione finanziaria [vedi Faq n.6].
Letture essenziali
Walden Bello, Deglobalizzazione. Idee per una nuova economia mondiale, Baldini Castoldi Dali, 2004. Franco Cassano, L’umiltà del male, Laterza, 2011.
Tim Jackson, Prosperità senza crescita, Edizioni Ambiente, 2011.
Serge Laouche e Didier Harpagès, Il tempo della decrescita, Elèuthera, 2011.
Serge Latouche, Manifesto del dopo sviluppo,
Serge Latouche, intervista su Altrapagina, ottobre 2011.
Henry Mayew, London Labour and the London Poor, 1850‐53
Marino Ruzzenenti, L’autarchia verde, Jaca Book, 2011.
Guido Viale, La conversione ecologica. NdA press, 2011.
Wuppertal Institut, Futuro sostenibile. Le risposte eco‐sociali alle crisi in Europa, Edizioni Ambiente, 2011. www.rianeeisler.com
FAQ n. 16 COME PREPARARE LA TRANSIZIONE, IL PASSAGGIO, IL CAMBIAMENTO? La rivoluzione è già al lavoro nelle micropratiche diffuse e nelle reti.
Nella quarta di copertina del bel saggio di Paul Hawken, Moltitudine inarrestabile (Blessed Unrest, in originale, traducibile letteralmente in “benedetta irrequietezza”), si legge:
“Ogni giorno, in ogni paese, nascono organizzazioni impegnate nella difesa della giustizia sociale e nella promozione della sostenibilità ecologica. Sono piccole, piccolissime, non vengono rilevate dai media tradizionali, il potere politico spesso le ignora o cerca di intralciare e sminuire la loro attività. Queste associazioni non si riconoscono nelle ideologie tradizionali e non fanno riferimento a leader o a istituzioni centrali. Hanno obiettivi che dipendono dai contesti in cui operano e dalla loro storia. Si servono di tecnologie per comunicare e creare network sempre più estesi, e costituiscono il più importante movimento nella storia dell’umanità. Proprio come il sistema immunitario, i cui anticorpi si attivano ogni volta che la nostra salute viene messa in pericolo, Moltitudine inarrestabile dà conto della risposta di milioni di persone alle minacce che vengono portate all’integrità della nostra casa, la Terra, e a quella dei suoi abitanti, tutti noi.”
Questo libro contiene la prima ed evidente risposta alla domanda sul come preparare la transizione, la trasformazione, il cambiamento, dall’attuale sistema socioeconomico dominante, il mercato capitalistico, ad una società equa ed ecologicamente sostenibile. La transizione è già in atto, sta montando come felicemente descritto dalla metafora del sistema immunitario che crea gli anticorpi alla malattia provocata dal mito nefasto ed irresponsabile della crescita infinita in un mondo con risorse finite.
Con il linguaggio della filosofia della scienza si può affermare che le buone pratiche, la nostra “moltitudine inarrestabile”, sono esperimenti che confutano il modello oggi dominante, la teoria economica neoclassica: il sistema dei mercati capitalistici autoregolati che sarebbe l’unico in grado di promuovere il benessere individuale (dell’ homo oeconomicus) e, per sommatoria, il benessere sociale garantendo la libertà individuale, come sostengono le teorie liberiste.
Il catalogo delle “buone pratiche” è davvero vasto: gruppi di acquisto solidali, banche del tempo, laboratori di autoproduzione, l’uso dei free software, microcredito, radio e tv di strada, welfare dal basso di prossimità, last minute market, mobilità dolce e auto condivise, cohausing, cooperative di auto recupero, gestione condivisa dei beni comuni…[vedi Faq n. 17]. Insomma, tutto ciò che ricostruisce legami e rapporti sociali, favorisce relazioni non mercificate, crea empowerment.
A questo punto dobbiamo porci la domanda: è sufficiente che le buone pratiche si sviluppino spontaneamente e, giunto un certo punto di saturazione, determinino un salto di paradigma, ossia sconfiggano la malattia, rendano obsoleta la teoria economica dominante?
A nostro avviso, no. Per due ragioni che ci derivano dall’esperienza storica. La prima ha a che fare con il tempo. Un sistema economico, come quello del mercato capitalistico, si è costruito nell’arco di secoli, creando poco per volta le proprie istituzioni e le proprie teorie di sostegno. Adam Smih ha “scoperto/giustificato” e non “inventato” l’economia politica classica. Ma le nostre generazioni non hanno altrettanto tempo a disposizione per creare una nuova società basata su una diversa economia e su nuove istituzioni che la sorreggano. La limitatezza delle risorse naturali e il sommarsi delle disuguaglianze sociali fanno pendere la bilancia dalla parte del no [vedi FAQ n.2].
La seconda ragione che la storia ci suggerisce è la capacità del sistema capitalistico di mutare, di assorbire le spinte al cambiamento, fagocitandole, piegandole ai propri fini. Anche in questo caso vale una metafora della malattia, quella del virus mutante in grado di aggirare le difese immunitarie. Oppure, paradossalmente, può essere lo stesso sistema immunitario che sviluppandosi disordinatamente crea la malattia autoimmune, distrugge il corpo che vorrebbe difendere. Pensiamo, concretamente, alla green economy che, nelle mani delle forze del mercato, può essere più utile a rigenerare più il capitale che non gli ecosistemi naturali.
Per promuovere il cambiamento, tenuto conto dei due vincoli/pericoli sopra evidenziati, possiamo affermare che la via delle buone pratiche è sbagliata? Assolutamente no, ma possiamo affermare che esse sono la condizione necessaria ma non sufficiente per raggiungere lo scopo.
Occorre allora avere un qualche progetto che ci permetta di raggiungere l’obiettivo nel poco tempo ancora a nostra disposizione. Anche in questo caso possiamo ricavare buone lezioni dalla storia. Un progetto calato dall’alto va incontro al fallimento, perché necessariamente imposto da una minoranza che, per poterlo realizzare, deve ricorrere alla violenza, per cui la cura può essere peggiore del male.
Nel libro citato, Hawken ad un certo punto fa una giusta osservazione: la caratteristica della sua “moltitudine” è quella di avere una scarsa capacità di coesione, di condividere obiettivi a lungo termine. Perché? Perché i soggetti che la compongono sono tanti e sono a diversi livelli e tempi di maturazione, e perché muovono da motivazioni diverse.
Allora la transizione può essere vista come un obiettivo a medio termine, dove le buone pratiche imparano a fare fra loro rete, ad interagire costruendo economia solidale “pezzo a pezzo”, sperimentando e condividendo obiettivi, valori e nuove istituzioni per una nuova economia. Rob Hopkins, animatore del movimento delle Transition Towns così definisce la transizione: “un movimento culturale impegnato nel traghettare la nostra società industrializzata dall’attuale modello economico profondamente basato su una vasta disponibilità di petrolio a basso costo e sulla logica di consumo delle risorse a un nuovo modello sostenibile non dipendente dal petrolio e caratterizzato da un alto livello di resilienza.” .
Fra le varie proposte che si stanno evidenziando, di particolare interesse è quella che punta alla costituzione di distretti di economia solidale: realtà territoriali delimitate dove le buone pratiche si organizzano per rifare comunità in grado di rendersi autonome, almeno per la soddisfazione dei bisogni di sussistenza: mangiare, riscaldarsi, relazionarsi. Il “Km Zero”, le filiere corte, le “8 R” di Latouche sono tutti pezzi di un mosaico che possono trovare nella cornice del distretto una loro coerenza progettuale in grado di innescare un processo di transizione che vada a buon fine.
Letture essenziali
Takis Fotopoulos, Per una democrazia globale, elèuthera 1999.
André Gorz, L’uscita dal capitalismo è già cominciata, in: Ecologica, Galié, 2009.
Paul Hawken, Moltitudine inarrestabile. Come è nato il più grande movimento al mondo e perché nessuno se ne è accorto, Edizioni Ambiente, 2009.
Rob Hopkins, Manuale pratico della transizione, Arianna, 2009.
Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2006.
http://www.retecosol.org/
FAQ n. 17 CHE RUOLO HA L’ECONOMIA ALTERNATIVA E SOLIDALE?
Decrescita ed economia solidale sono complementari. Sono la teoria e la pratica di un movimento unico, ideale e concreto.
Da circa venti anni si stanno moltiplicando, specie nei paesi occidentali, attività che, sia pure in linguaggi diversi, fanno riferimento alla sperimentazione di una economia con caratteristiche ben diverse da quella oggi dominante a livello planetario. Sta cioè emergendo un tentativo, ormai piuttosto diffuso, di verificare le potenzialità di modelli produttivi e di consumo che non abbiano come conseguenza, oltre alla immissione sul mercato di un numero insostenibile di oggetti, la dissipazione di materie prime essenziali e mutazioni drammatiche del clima terrestre, tali da rendere ormai molto realistiche le ipotesi di sparizione della specie umana tra gli abitanti superstiti del pianeta.
Prima di comprendere esattamente quali sono i rapporti esistenti tra questo tipo di economie e il pensiero della decrescita, è necessario tenere conto della continua rielaborazione e diversità delle finalità perseguite, dei contenuti prioritari, delle modalità di rapportarsi al sistema economico dominante e anche delle relazioni intrattenute all’interno e all’esterno delle singolo esperienze. Siamo quindi in presenza di una frammentazione e articolazione che in questa fase storica è anche creatività e capacità di mutazioni continue.
In primo luogo, sono comprese nella definizione di economia solidale tutte le attività economiche che non perseguono le finalità del sistema economico oggi più diffuso, di natura capitalistica e di ispirazione liberista o neo liberista. In particolare sono da essa rifiutati gli obiettivi di crescita, di sviluppo e di espansione illimitati, il perseguimento del profitto ad ogni costo, l’utilizzazione delle persone da parte dei meccanismi economici, il mancato rispettodei diritti umani, della natura.
Le attività di altra economiaperseguono invece il soddisfacimento delle necessità fondamentali e il maggior benessere possibile per il maggior numero di persone, sono dirette all’affermazione di principi di solidarietà e di giustizia, hanno come finalità primaria la valorizzazione delle capacità di tutti coloro che fanno parte delle diverse società. Sono comprese in questa definizione anche le attività che prevedono la parziale o graduale uscita dal sistema economico dominante e le sperimentazioni di stili e modelli completamente nuovi di vita sociale, di redistribuzione delle risorse, di produzione e scambio, di uso corretto di oggetti non dannosi per le persone e la natura.
In secondo luogo, le attivitàdell’economia alternativa e solidaleconsiderano in modo paritetico le iniziative avviate in tutto il mondo, ma attribuiscono particolare attenzione a quanto viene realizzato “nei Sud”, in modo da contribuire a compensare il più rapidamente possibile gli squilibri oggi esistenti.
Inoltre questi embrioni di altra economia considerano la eco‐compatibilità una condizione essenziale per il loro operare. Devono essere previste attività destinate a recuperare e a ricostituire le risorse della terra già fortemente intaccate nelle loro capacità di riproduzione, mentre la salvaguardia dei meccanismi biologici e l’uso di risorse, specie energetiche, riproducibili, sarà considerato un obiettivo assolutamente prioritario. Centrali saranno quindi le ricerche e la progettazione di prodotti che sempre meno incidano sull’uso delle risorse naturali essenziali, terra, acqua e aria per prime, e che promuovano l’utilizzo di risorse energetiche rinnovabili. Tra le priorità sarà anche inclusa la riprogettazione di tutti i prodotti ad alto impatto ambientale, a partire dai cosiddetti prodotti “usa e getta”.
Le “imprese” dell’altra economia, costituite in forme già note o di nuova concezione, si pongono in atteggiamento cooperativo e solidale tra loro. Sono orientate alla creazione di lavoro qualificato ed equamente retribuito, perseguono il miglioramento della qualità dei prodotti secondo criteri di eco‐ compatibilità. Tutto il maggior valore creato viene normalmente reinvestito nelle attività di economia alternativa per favorirne la diffusione.
I contributi dati al sistema produttivo con caratteristiche fortemente e radicalmente innovative comprendono anche un ruolo dell’individuo come consumatore molto diverso da quello attuale, incentrato sulla sobrietà nei consumi, precondizione necessaria per una redistribuzione più equa delle risorse, che consenta a tutti di consumare in modo attivo, consapevole e responsabile, al fine di favorire ed accelerare la transizione all’economia alternativa, anche privilegiando la categoria dell’utilizzo rispetto a quella della proprietà. Le scelte di acquisto e di uso dei prodotti e dei servizi devono essere basate su una conoscenza approfondita delle caratteristiche qualitative e dei costi reali, degli eventuali danni alla salute personale e familiare, all’ambiente e alle popolazioni.
I consumatori devono essere messi in grado di valutare i comportamenti delle aziende produttrici per quanto riguarda il rispetto dell’ambiente, dei diritti umani, civili, sociali e sindacali delle persone e delle comunità. I consumatori che aderiscono all’economia solidale devono considerarsi responsabili delle loro scelte e di quanto viene deciso in tale ambito.
Le relazioni tra persone all’interno dell’economia alternativa devono essere improntate a principi di reciprocità, pariteticità, cooperazione e solidarietà, in modo che le logiche economiche ne risultino mutate in profondità e i rapporti tra persone siano sempre prevalenti sulle logiche di produzione, di scambio e di uso delle risorse. Le attività economiche rispondenti a modelli alternativi a quello oggi dominante devono rispettare norme di trasparenza, devono assicurare la massima inclusione e partecipazione, devono garantire ai livelli più alti la responsabilizzazione delle persone impegnate nella produzione e nello scambio. Le regole di ispirazione democratica devono essere considerate il livello minimo necessario da rispettare, mentre devono essere perseguite e applicate norme di valore superiore che garantiscono il massimo consenso e la massima partecipazione dei soggetti coinvolti.
Naturalmente tutto ciò non può essere ottenuto immediatamente dati i vincoli e le vischiosità del sistema in cui sono immerse le attività alternative, però lo sforzo di attuazione dei principi enunciati deve essere continuo e senza tentennamenti.
I comparti nei quali si articolano le attività dell’economia solidale sono oltre sessanta (non tutti sufficientemente presenti in Italia) ed aumentano continuamente di numero man mano che la creatività riesce a rispondere ai bisogni emergenti.
Quali relazioni si possono stabile tra questo ampio campo di impegno sociale alternativo con il pensiero e le iniziative ispirate alla decrescita?
In primo luogo, è evidente che dopo l’iniziale ispirazione di natura umanitaria (ad esempio il commercio equo e solidale) si può ritenere che gran parte delle premesse analitiche che hanno portato al sistema di pensiero della decrescita (preoccupazioni per i danni arrecati dal mondo globalizzato al pianeta e alla popolazione mondiale, valutazioni dei meccanismi capitalistici più pericolosi, ecc.) si possono pensare oggi come largamente condivise.
Viceversa non si può dimenticare che l’economia solidale è vocata a sperimentare molto concretamente un sistema alternativo a quello dominante, pertanto, date le sue piccole dimensioni, non riesce a porsi come obiettivo il totale superamento del sistema dominante e la sua sostituzione con un paradigma completamente nuovo che è invece la prospettiva continuamente offerta dal pensiero della decrescita. In sostanza si può forse ipotizzare che il pensiero della decrescita in qualche modo rappresenta lo scenario generale all’interno del quale si muovono le diverse esperienze dell’economia alternativa e solidale, che però si pongono al momento degli obiettivi molto più limitati. Ovviamente, in un futuro ormai molto vicino, quando la necessità di cambiamenti radicali per poter finalmente incidere sulle emissioni di anidride carbonica e su tutti gli altri meccanismi di danno ambientale sarà riconosciuta, le persone attive nel movimento dell’economia solidale saranno le prime a poter operare nelle nuove società che si dovranno costruire con molta creatività intorno alle nuove strutture produttive se vogliamo veramente salvaguardare il pianeta e tutte le specie viventi che lo abitano da una sparizione a tempi rapidi.
Letture consigliate
AA.VV. Il capitale delle relazioni, come creare e organizzare gruppi di acquisto e altre reti in 50 storie esemplari, Altreconomia Edizioni, Milano, maggio 2010.
Davide Biolghini, Il popolo dell’economia solidale, EMI, Bologna, 2007.
Roberta Carlini, L’economia del noi. L’Italia che condivide. Laterza, 2011.
M. Di Sisto, Un commercio più equo, Altreconomia Edizioni, Milano, 2011.
G. Mameli, La Sardegna delle eccezioni, CUEC, “Prospettive e società”, Cagliari, maggio 2011
Luca Martinelli, Salviamo il paesaggio, manuale per difendere il territorio da cemento e altri abusi, Altreconomia edizioni, Milano, maggio 2012.
S. Montanari (a cura), Rifiuto, riduco e riciclo, guida alle buone pratiche, Arianna Editrice, Bologna,febbraio 2009.
FAQ n. 18 C’E’ UNA RELAZIONE TRA DECRESCITA E BENI COMUNI?
La preservazione e l’uso condiviso dei beni e dei servizi essenziali alla vita sul pianeta sono lo scopo stesso della decrescita.
Il beni comuni sono l’altra faccia della medaglia della decrescita. Se decrescita a qualcuno può sembrare solo la parte decostruens del discorso (per via della particella “de”, privativa), i beni comuni costituiscono la parte construens della società che auspichiamo. La decrescita, infatti, mira a liberare spazi e tempi di vita dal tritacarne della megamacchina termo‐industriale per lasciare fiorire un’altra idea di società meno in disarmonia con i cicli naturali e meno squilibrata a danno degli esseri umani più deboli. Più si riuscirà a ridurre la sfera delle attività mercificate (dove vige la dittatura dell’accumulo senza fine, del profitto e del Pil), più si potrà allargare la sfera delle attività libere, scelte, volontarie, creative, utili per sé stessi e per gli altri. Se decrescita significa rifiutare le logiche economiche predatorie delle risorse naturali e i meccanismi giuridico‐istituzionali distruttivi delle stesse relazioni umane, il prendersi cura dei beni comuni significa allora rovesciare il modo di pensare al mondo e a noi stessi, dare un senso profondo e un obiettivo etico al fare umano: la preservazione del creato o – se preferiamo usare modi di dire più scientifici – dell’efficienza autorigenerativa degli ecosytem services.
La nozione di bene comune è diventata molto popolare e potente, capace di produrre azioni collettive. Sempre più sovente e sempre più numerosi sono i gruppi sociali, i comitati di utenti di servizi collettivi, i gruppi della cittadinanza attiva, gli abitanti dei territori, i contadini nativi, i mediattivisti, i lavoratori di una fabbrica o di una categoria… che usano la locuzione “bene comune” per qualificare l’oggetto della loro rivendicazione. I servizi idrici, la scuola e la cultura, internet, le foreste, i fiumi, i beni demaniali, le sementi, le infrastrutture, il lavoro e molto altro ancora vengono riconosciti come beni indispensabili e insostituibili per il buon vivere assieme, per rendere effettivi dei diritti fondamentali degli individui. I beni comuni sono le cose che condividiamo e di cui non possiamo fare a meno. Beni che per essere di tutti non possono appartenere in esclusiva ad alcuno. Per tale ragione essi devono essere sottratti alla gestione privatistica e affidati a forme di gestione pubblica partecipata.
Prima di essere delle cose, i beni comuni sono un processo di riconoscimento sociale. Non sono una categoria merceologica da scegliere a catalogo e nemmeno delle poste che si trovano sui capitoli del bilancio dello stato. Ha scritto Raj Patel:
“Ciò che definisce un bene comune è il nesso che si instaura tra gli individui. Nella gestione collettiva del bene gli individui si uniscono e creano una communitas, realizzano un progetto collettivo, operano pratiche condivise (…) La pratica dei common, la gestione collettiva delle risorse comuni, richiede una rete di relazioni sociali finalizzate a tenere a freno gli istinti più vili (egoismo, avidità, soprafazione) e a promuovere un diverso modo di valutare il mondo e di relazionarsi con gli altri”.
I beni comuni sono risorse speciali, beni primari, basilari, originari, nel senso che sono precondizione per poter svolgere qualsiasi attività. Sono ricchezze naturali e lasciti sedimentati dal lavoro creativo svolto dalle generazioni precedenti alle nostre: materie prime e saperi, codici, lingue, norme, sistemi di risorse connettive e sistemi di valori relazionali. Spazi sociali e naturali che forniscono sostentamento, sicurezza, indipendenza e che sono attraversati da rapporti umani improntati alla cooperazione, alla fiducia, alla reciprocità. Essi sono “beni della vita”, come recitano alcune sentenze della Cassazione.
Se la proposta politica della decrescita allude ad una società di comunità aperte, tra loro solidali nella pratica della sussidiarietà, fortemente legate ai territori, che disegnano una rete di democrazie locali basate sulle bioregioni, cioè comunità ecologiche dove l’allevamento, le piante, gli animali, le acque e gli uomini formano un insieme relativamente coerente, allora i beni comuni costituiscono la sostanza delle relazioni sociali tra gli individui e sono l’oggetto stesso del governo.
É il tema dell’empowerment, della “capacitazione”, del coinvolgimento cosciente e responsabile delle persone e della formazione di una cittadinanza attiva che si attiva dal basso attraverso innumerevoli pratiche di autogoverno partecipato, di mutualità, di auto aiuto, di volontaria collaborazione. Così come lo sono i gruppi di acquisto solidale, le banche del tempo, gli orti urbani, i distretti di economia solidale, la microfinanza, le monete complementare, le varie forme di co‐abitazione, le varie forme di mobilità condivisa e dolce, e così via. [vedi Faq n.17].
Insomma, tanti modi per dimostrare, qui e ora, che un altro modo di organizzare i rapporti e le relazioni sociali è possibile. Senza aspettarsi nulla dall’alto, riducendo al minimo possibile deleghe e rappresentanze. Qui si apre uno sconfinato campo di elaborazione e sperimentazione politica per trovare modelli di governo pubblico partecipato (non necessariamente statale) nei processi decisionali e nella gestione pratica dei beni comuni, immediatamente praticabili, declinando la nozione di bene comune come una nuova categoria del politico e del giuridico. Le esperienze avviate dal Comune di Napoli con l’Assessorato ai beni comuni e alla partecipazione e la Rete dei comuni per i beni comuni indicano una via generalizzabile.
Letture essenziali
Paolo Cacciari (a cura di), La società dei beni comuni, Ediesse, 2010.
Cacciari, Carestiato, Passeri (a cura di) , Viaggio nell’Italia dei beni comuni, Marotta & Cafiero, 2012. Ugo Mattei, Beni comuni, un manifesto, Laterza 2011.
Alberto Lucarelli, Beni Comuni. Dalla teoria all’azione politica, Dissensi, 2011.
Raj Patel, Il valore delle cose, Feltrinelli, 2010.
FAQ n. 19 CHE IMPORTANZA DEVE ESSERE RICONOSCIUTA ALLE DIVERSE CULTURE?
Ogni cultura sceglie liberamente la propria strada di liberazione dal paradigma occidentale della crescita.
Quella della decrescita è una proposta fondamentalmente rivolta ai paesi e alle società più sviluppate e industrializzate. È chiaro che non avrebbe senso parlare di decrescita in contesti che non hanno alle spalle decenni di politiche di sviluppo e nei quali la società tradizionale non è stata ancora stravolta dalla logica del consumismo. Tuttavia la proposta della decrescita condivide le critiche ai modelli della crescita e dello sviluppo come forme di occidentalizzazione e di neocolonialismo.
In effetti l’idea di sviluppo è culturalmente relativa e costituisce un’invenzione tutto sommato recente. Che non sia un concetto universalmente condiviso emerge per esempio dal fatto che in molte lingue non occidentali non esiste nemmeno una parola corrispondente. Nulla di strano visto che in molte culture non occidentali non è presente un principio di accumulazione capitalistica. Il termine sviluppo economico nel senso attuale di un processo intrapreso da parte di una società o di un paese è entrato nell’uso comune solo dopo la seconda Guerra mondiale. L’introduzione della categoria di “sviluppo” si è accompagnata immediatamente alla categoria di “sottosviluppo”.
Come è stato notato da diversi autori – da Gilbert Rist a Wolfgang Sachs – questa concezione universalistica e unilineare che ha impregnato la mentalità occidentale ha significato nel rapporto con le proprie alterità nient’altro che il disconoscimento di tutte le diversità culturali e delle complesse visioni del mondo. Tali diversità, espressione di forme diverse di civiltà, sono infatti sottratte ad una dimensione di coevità rispetto alla civiltà occidentale e collocate in un “altro tempo”. È quel dispositivo di negazione della coevità e di allontanamento temporale che Johannes Fabian ha chiamato “allocronismo”. Le diversità sono allontanate e ricollocate nello schema di un’unica storia universale orientata in una stessa direzione, quella appunto del progresso, della crescita e del moderno sviluppo capitalistico occidentale. Dunque le altre culture, le altre forme di vita, le altre forme di organizzazione sociale ed economica non vengono considerate nella loro diversità, ricchezza e compiutezza ma sono ricondotte a posizioni arretrate – primitive, sottosviluppate, ritardatarie – in una scala temporale evolutiva tracciata nel suo percorso della modernità occidentale che si auto‐rappresenta quindi come l’apice della storia. Da questo punto di vista gli altri popoli e le loro culture sono state considerate arretrati e bisognosi di aiuto per definizione. Era necessario aiutare questi paesi che erano rimasti indietro con l’aiuto allo sviluppo e con l’imposizione di politiche di sviluppo. Con molte ragioni dunque Serge Latouche, nei suoi libri ha cercato di mostrare come lo sviluppo sia stato fondamentalmente l’occidentalizzazione di queste realtà.
D’altra parte diversi studiosi hanno sottolineato che in molti paesi del sud del mondo, le politiche di sviluppo sono coincise in gran parte con un processo di interiorizzazione del giudizio dell’altro. Come ha scritto l’antropologo Marshall Sahlins:
Per ‘modernizzarsi’, il popolo deve prima imparare a deplorare ciò che possiede, ciò che ha sempre considerato il suo benessere; inoltre deve disprezzare se stesso, deve biasimare la propria esistenza e conseguentemente desiderare di essere diverso. […] L’umiliazione è una fase importante dello sviluppo economico, una condizione necessaria al ‘decollo’; il ruolo della vergogna è cruciale, in quanto, per desiderare i benefici del ‘progresso’, le sue meraviglie materiali e le sue comodità, tutto quanto gli indigeni ritengono positivo – il senso della dignità personale e del valore dei propri oggetti‐ deve essere screditato. Dietro all’adesione alla religione dello sviluppo si cela dunque l’interiorizzazione da parte del colonizzato dello sguardo del colonizzatore, l’assunzione delle sue idee di bene e di male, di utile e di inutile, di ricchezza e di povertà. Tuttavia il fallimento delle promesse dello sviluppo e dei modelli fondati sulla crescita (che lungi dal garantire un benessere generalizzato nei paesi del sud ha dato vita ad una società fortemente polarizzata con una minoranza ricca ed occidentalizzata ed una maggioranza povera ed espropriata della sua capacità di auto‐produzione e auto‐sostentamento) ha generato negli ultimi decenni una controreazione con forti e diffusi movimenti di critica dei paradigmi dello sviluppo e della crescita. Tanto più che il modello dell’economia consumista ed “estrattivista” genera sempre più resistenze e conflitti nelle comunità locali che si oppongono ad uno sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali locali.
Oggi molte popolazioni, molte comunità ritrovano il senso della propria differenza e della propria cultura e rivendicano un bagaglio di valori, saperi e di pratiche più ecologici, comunitari e più egualitari. Ai modelli e alle parole d’ordine “occidentali” oppongono saperi e concezioni tradizionali, riattualizzate e ripensate alla luce dei conflitti contemporanei: la difesa della “Pacha Mama” contro le devastazioni dei modelli estrattivisti; la riproposizione delle categorie andine del “Sumak kawsay” (quechua), “Suma Qamaña” (aymara) o del “Buen vivir” (spagnolo) che contrappongono la ricerca di una vita vissuta in tutta la sua pienezza, eccellenza e bellezza, al modello della crescita quantitativa e dell’ossessione consumista; la riscoperta delle concezioni indiane di “Swadeshi” o di “Navdanja” che richiamano temi quali la rilocalizzazione, l’autosufficienza o la tutela della biodiversità e della rigenerazione; così come il principio “Ubuntu” di origine bantu e diventato centrale nel nuovo Sud Africa, che richiama l’idea del riconoscimento delle relazioni reciproche che legano ogni persona a tutte le altre, e l’idea di compassione e lealtà verso la comunità. In generale ad una idea di ricchezza tutta materiale ed economica, viene quindi contrapposta un’idea di ricchezza ecologica e sociale, al successo e all’arricchimento individuale viene opposta la ricerca di un benessere comunitario.
Dunque le concezioni economiche e politiche occidentali non sono più prese come modelli indiscussi ma sono sempre più spesso assunte a bersagli polemici e indicate come responsabili di una crisi che non è solo economica e finanziaria ma di civiltà, ovvero della civiltà occidentale. La crisi dell’immaginario colonialista dello sviluppo e della crescita da questo punto di vista apre finalmente la possibilità di un confronto reale tra culture e tradizioni.
La filosofia della decrescita dunque non si propone come nuovo modello universale da esportare in tutto il mondo, ma al contrario come riconoscimento della ricchezza e della resilienza garantita dalla diversità culturale e sociale e come assunzione riflessiva della parzialità e dei limiti dell’esperienza occidentale in uno spirito di rinnovamento e di rigenerazione. La diversità culturale non solo non è scomparsa ma continua a riprodursi dentro e fuori il mondo occidentale.
Letture essenziali
Serge Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
Majid Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Mondadori, Milano, 2005.
Gilbert Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Ega, Torino, 1998.
Marshall Sahlins, 1992, Storie d’altri, Guida Editori, Napoli.
Vandana Shiva, Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino, 1990.
Vandana Shiva, Monoculture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura “scientifica”, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
Vandana Shiva, Biopirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni, Cuen, Napoli, 1999.
Johannes Fabian, Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2000.
Sahlins, op cit. pp. 199‐200. Sullo stesso tema si veda anche Aminata Traoré, L’immaginario violato, Ponte alle grazie, Milano, 2002, pp. 144‐145.
FAQ n. 20 LA DECRESCITA SI PONE IN UNA PROSPETTIVA DI GENERE?
Non ancora, benché non manchino convergenze con le analisi e le pratiche del femminismo.
Come il Titanic, lo sviluppo economico è luminoso e splendente, è considerato inaffondabile. Ma nonostante i suoi caffè, le saune, i negozi di lusso, manca di scialuppe di salvataggio per tutti. Come il Titanic l’economia capitalistica è piena di paratie e luoghi di segregazione che assicurano che donne e bambini saranno i primi, non ad essere salvati, ma a sprofondare negli abissi della povertà.
Da quando Vandana Shiva ha pronunciato queste parole sono trascorsi oltre vent’anni e da allora donne e bambini ci appaiono già nel più profondo degli abissi. Un rapido sguardo alla condizione femminile, così come emerge dai recenti rapporti internazionali, ci presenta un quadro drammatico. A livello mondiale il 70% delle persone considerate povere sono donne; il 78% delle persone analfabete sono donne. Esse svolgono il 67% del lavoro e ottengono il 10% del reddito, compiono gran parte delle attività necessarie alla sussistenza, gestiscono e conservano le risorse naturali, i beni comuni e la biodiversità, ma non hanno accesso alla terra e al credito che in misura minima. Non hanno voce nelle decisioni delle comunità. Povertà delle donne significa sofferenza e morte dei bambini che normalmente sono affidati alle loro cure. Secondo uno studio dell’ International Food Policy Research Institute, “Se le donne e gli uomini avessero un’eguale influenza nei processi decisionali, nell’Africa sub‐sahariana almeno un milione e 700.000 bambini sarebbero adeguatamente nutriti“.
Povertà e discriminazione espongono al rischio di maltrattamenti, alimentano la tratta a scopo di prostituzione, un turpe mercato che coinvolge 175 paesi e che riduce ogni anno in schiavitù sessuale 5.000.000 di donne, di cui 1.000.000 di bambine, inviate per lo più nei paesi occidentali.
Le donne dei paesi del sud del mondo pagano il prezzo più alto della crescita economica, sono le prime vittime del degrado ambientale e dei programmi di sviluppo (dighe, economia di piantagione, sfruttamento del legname). La deforestazione, l’inaridimento dei suoli, la scarsità di acqua rendono sempre più difficile lo svolgimento del lavoro di sussistenza e le donne sono costrette a percorrere distanze sempre più lunghe per raccogliere legna e acqua. Quando, a causa delle migrazioni forzate e della distruzione delle attività tradizionali, coltivare, raccogliere e trasformare i prodotti della terra diventa impossibile, le donne sono considerate un inutile peso per le famiglie, non desiderabili come mogli se non portano con sé la dote, così che in molti paesi si compie costantemente una delle più terribili violenze mai perpetrate contro le donne, ovvero la scelta di non farle nascere. All’inizio del secolo circa 60 milioni di donne mancavano all’appello della demografia mondiale e da allora la situazione è andata peggiorando.
Le donne infine sono le principali vittime delle guerre, in particolare di quelle che si combattono per il controllo delle risorse naturali. Responsabili della coesione e del sostentamento delle comunità, nelle nuove guerre divengono i bersagli privilegiati: dilaniate dalle mine o stuprate in modi efferati al fine di cacciare, terrorizzare e disgregare interi gruppi.
Una tale condizione di violenza e oppressione è spesso sottaciuta e sottovalutata e, soprattutto, è assente dall’analisi economica, considerata estranea al meccanismo produttivo e sulla quale pertanto si può sorvolare. Eppure, comprendere le origini e le cause dell’asimmetria della divisione sessuale del lavoro è imprescindibile per chiunque si ponga in una prospettiva di mutamento. Negli ultimi decenni la riflessione femminista sui temi economici e ambientali, avvalendosi dei numerosissimi studi sull’origine del patriarcato compiuti fin dall’Ottocento, ha indagato in profondità il nesso tra patriarcato e sviluppo capitalistico, tra dominio delle donne e sfruttamento della natura, tra sfruttamento delle donne e il paradigma dell’illimitata accumulazione e crescita.
Da questi studi è emerso che il maggiore ostacolo al processo di umanizzazione delle donne è stato ed è il modo di concepire il lavoro e la produttività che si è affermato con il patriarcato ed è stato portato alle conseguenze estreme dallo sviluppo capitalistico. Nelle società matrifocali la femminilità era il paradigma sociale di tutte le forme di produttività, il principio attivo fondamentale nella produzione della vita. Nella società patriarcale e capitalistica, invece, essa è stata svuotata di tutte le qualità attive, produttive e creative; è equiparata alla passività, ad un “fatto di natura”. Ad essere veramente umane sono considerate le qualità maschili che risiedono nella forza fisica e nel pensiero. Il lavoro delle donne: generare e crescere i figli non è considerata una attività umana e sociale consapevole e determinata storicamente, un’attività che richiede abilità e saperi appresi attraverso il lavoro e la riflessione. In questo processo di apprendimento le donne hanno acquisito una conoscenza profonda delle forze generative della natura, delle piante, degli animali, della terra, esse sono state le prime responsabili della produzione della sussistenza, le prime inventrici dell’agricoltura, hanno sviluppato le prime relazioni produttive con la natura, relazioni di cooperazione e non di dominio. Al contrario, la produttività maschile legata all’allevamento che prese il sopravvento sulle comunità fondate sull’agricoltura, implicava l’applicazione di sistemi di violenza e coercizione nei confronti degli animali, condusse alla guerra per l’estensione dei territori e la riduzione in schiavitù di altri uomini e soprattutto delle donne per avvalersi del loro lavoro e della loro fertilità.
Il pieno sviluppo del modo predatorio di produzione si realizza nel feudalesimo e, soprattutto, nel capitalismo. Già nel ’500 e nel ’600, quando si affermò un’idea di natura come materia inerte, da dominare e sottomettere e consentire lo sfruttamento accelerato e indiscriminato delle risorse naturali in nome della cultura e del progresso, fu lanciata una campagna di terrore contro le donne che distrusse le loro pratiche e i loro saperi e le allontanò dalla vita sociale.
Con l’industrializzazione il processo di proletarizzazione degli uomini andò di pari passo con quello del controllo delle capacità riproduttive delle donne e del dominio sulla natura. Le donne furono relegate nella sfera domestica, espulse dalle attività lavorative, si andò affermando il mito “dell’uomo che mantiene la famiglia” e un’idea angusta di lavoro, associata unicamente al lavoro salariato, quello che produce plusvalore, non quello volto alla soddisfazione dei bisogni umani fondamentali (di veda FAQ 7). Da allora l’economia si è sempre configurata come un sistema ben delimitato dai cui confini sono stati esclusi o marginalizzati molti aspetti della esistenza umana e della natura non umana. Il mercato capitalistico non è che una piccola parte di un tutto che lo sostiene, la punta di un iceberg al di sotto del quale vi è una economia invisibile che include il lavoro di riproduzione e conservazione della vita e che rende possibile ogni altra attività. L’economia di mercato rappresenta dunque un mondo pubblico definito dagli uomini, modellato sulla loro esperienza, slegato dai bisogni fondamentali della vita.
Nella consapevolezza che patriarcato e accumulazione capitalistica su scala mondiale è l’ambito ideologico e strutturale in cui la realtà delle donne va oggi compresa, la prospettiva femminista per una nuova società ha individuato una via di liberazione nella semplicità volontaria, nella riduzione dei consumi che causano povertà, distruzione dell’ambiente e accrescono le forme più brutali di dominio sulle donne. Non una rinuncia, ma un percorso di liberazione che implica l’affermazione di valori negati dall’economia di mercato: l’autosufficienza, la cooperazione, il rispetto di tutti i viventi, la creatività, la gioia del lavoro, una economia morale basata su principi etici che superi la attuale divisione sessuale del lavoro. Come si pone la decrescita di fronte a queste questioni?
Fin dagli anni Novanta alcuni degli autori che hanno posto al centro della propria riflessione la critica alla crescita economica hanno riconosciuto il contributo del pensiero economico femminista e in particolare dell’ecofemminismo, altri hanno messo in rilievo l’assenza del lavoro domestico dal PIL, ma nel complesso non si può dire che il punto di vista di genere si sia affermato nel pensiero della decrescita; al contrario, dalle sue analisi esso è quasi sempre assente, o considerato “tacitamente incluso” in un discorso più ampio, raramente esplicitato, mai articolato.
E tuttavia le convergenze sono molteplici, in particolare quelle che riguardano la critica al consumo e le pratiche di liberazione dei consumatori. Una prospettiva di genere consentirebbe al pensiero e al movimento della decrescita di cogliere l’intreccio dei rapporti di dominio e di includere nel suo progetto il superamento della divisione sessuale del lavoro e nelle sue pratiche l’astensione da tutti quei consumi che contribuiscono allo sfruttamento delle donne nel mondo, che mantengono e promuovono immagini sessiste e soprattutto un’azione decisa contro la disumanizzazione delle donne e la schiavitù sessuale.
Riferimenti bibliografici
Ester Boserup, Il lavoro delle donne. La divisione sessuale del lavoro nello sviluppo economico, Rosenberg & Sellier, 1982.
Maria Rosa Dalla Costa‐Giovanna Dalla Costa (a cura di), Donne, sviluppo e lavoro di riproduzione, Angeli, 1996.
Mary Mellor, Ecofemminismo e eco‐socialismo. Dilemmi di essenzialismo e materialismo, in “Capitalismo, natura e socialismo. Rivista di ecologia socialista”, anno III, n. 1, 1993, pp. 10‐29.
Merchant Carolyn, La morte della natura: le donne, l’ecologia e la rivoluzione scientifica, Rizzoli, 1988. Maria Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale, Zed Books, 1886.
Roy Arundhati, La fine delle illusioni, Guanda, 1999.
Shiva Vandana, Sopravvivere allo sviluppo, trad. it. di Marinella Correggia, Isedi, 1990.
FAQ n. 21 CHE RUOLO AVRA’ L’IMMAGINARIO?
Tra l’incubo della catastrofe e la fede insensata nel progresso, l’alternativa è concepire un pensiero davvero libero.
“Saremmo davvero molto poveri – ha scritto una volta Marie‐Louise von Franz – se fossimo soltanto quello che immaginiamo di essere”.
Nella società di mercato siamo tutti spinti a pensarci come consumatori. Consumatori di prodotti, di immagini, di politica, di relazioni. Gli esseri umani stessi, alla fine, divengono prodotti di consumo. Si esibiscono e si reclamizzano, si comprano e si vendono, si usano e si gettano, come qualsiasi altra merce. Naturalmente nessuno di noi, nemmeno l’individuo più intossicato dal consumo è solo questo. Ma ci comportiamo come se fosse così. Sperimentiamo una forte difficoltà ad immaginarci tranquilli se non siamo circondati da tutta una serie di oggetti e di segni che costituiscono il nostro mondo e i nostri strumenti. Fatichiamo sempre più a relazionarci tra di noi senza un piacere immediato o senza un qualunque fine strumentale. C’è come un’assuefazione a certi modi di vedere, a certi obiettivi condivisi, ma soprattutto a certe abitudini che sono entrate passo dopo passo nella nostra vita e che ci impediscono di immaginare qualcosa di altro e di diverso. Parlare in termini di utilità, di profitto, di guadagno, di azioni, di investimenti, di prestiti, di rate, di tassi di interessi, di crescita, di spread, di derivati, sembra divenuto così comune che la gente non fa più caso a come questo immaginario abbia intossicato il nostro stesso linguaggio, la nostra comunicazione, il pensiero perfino della vita o di noi stessi. Eppure c’è un paradosso che sta crescendo nel cuore del nostro immaginario. In effetti la civiltà che più di ogni altra ha preteso di proiettarsi nel futuro, tramite le tecnologie, tramite la ricerca spasmodica del nuovo e la svalorizzazione del vecchio e del passato, tramite l’ossessione per la crescita, tramite una fiducia illimitata nel meccanismo del credito e delle scommesse finanziarie, è in realtà una civiltà che si sporge sul suo futuro come di fronte ad un baratro, con il dubbio di non poter sopravvivere a se stessa. Questa mercificazione pervasiva che si è estesa anche sul futuro ha in realtà finito col minacciare l’esistenza stessa del presente. Come hanno notato gli psicoanalisti Miguel Benasayag e Gérard Schmit quello a cui stiamo assistendo è il “cambiamento di segno del futuro”, ovvero il passaggio da un futuro‐promessa al futuro‐ minaccia.
Una simile società non ha avvenire, non solo per ragioni ecologiche, ma anche per ragioni antropologiche e sociali. Così non è affatto strano che i paradossi del nostro immaginario si trasformino in incubi. “È facile dar conto del fatto che i poveri del mondo sognano di diventare americani – scriveva Slavoj Zizek ‐, ma cosa mai sognano gli americani benestanti, immobilizzati nel loro benessere? Sognano una catastrofe globale che sconvolgerà la loro vita”. Il nostro inconscio collettivo è abitato dall’attesa della catastrofe. Dalla letteratura al cinema, dai fumetti alla televisione il nostro immaginario, il nostro inconscio collettivo, è saturo di immagini di (auto)distruzione. In qualche misura dunque percepiamo la smisuratezza della nostra potenza distruttiva ma non siamo in grado – o abbiamo paura – di disarmare la nostra civiltà, la nostra tecnologia, la nostra economia. Così il paradosso è che più l’immaginario del progresso, della crescita, dello sviluppo illimitato si spinge avanti e più si richiude l’immagine del futuro e si svuota e si atrofizza il senso del nostro essere umani. L’onnipotenza si capovolge in minaccia contro se stessi. L’illusione della libertà assoluta si tramuta in depressione.
Se un tempo l’umanità era stata attraversata dalle aspirazioni e dall’illusione di una crescita infinita, di un potere infinito, oggi ci troviamo paradossalmente nella condizione di anelare alla onesta e limitata umanità. Come notava Gunther Anders, oggi ci assale “il desiderio disperato, nemico delle macchine, di sbarazzarci di nuovo del titanismo acquistato (o addossatoci) dall’oggi al domani e di poter essere di nuovo uomini come nell’età dell’oro di ieri”. Oggi ci occorre rifuggire non uno ma due incubi. Parlo dell’assuefazione alla catastrofe, nella sua doppia forma della denegazione dell’ottimista tecnologico (“Non esiste nessuna crisi ecologica, nessun cambiamento climatico, nessun picco del petrolio, nessuna estinzione delle specie… la scienza troverà la soluzione, la tecnologia ci salverà”) o del compiacimento, dell’attrazione fatale per l’autoannichilimento (“Non c’è niente da fare, il mondo continuerà anche senza di noi”). In effetti non solo la fiction ma anche la scienza si risolve sempre di più non a prevenire ma a gestire la catastrofe, ci offre strumenti per adattarci alla nuova situazione, dei palliativi per ritardare il peggio. “Una tale scienza – come aveva previsto Guy Debord – può soltanto accompagnare verso la distruzione il mondo che l’ha prodotta e che la possiede; ma è costretta a farlo a occhi aperti”. L’immaginario della decrescita rappresenta oggi il tentativo di trovare un’alternativa a questi due incubi insensati, un ottimismo superficiale e in fondo violento e un pessimismo consolatorio. La realtà dolorosa è che almeno nei paesi più sviluppati non dobbiamo batterci solo contro le multinazionali, contro i governi, ma anche contro le nostre abitudini, i nostri stili di vita, le nostre scelte quotidiane, i nostri pensieri, e le centinaia di atti irriflessi che compiamo ogni giorno. Ha scritto Cornelius Castoriadis:
“Quello che è necessario è una nuova creazione immaginaria di proporzioni sconosciute nel passato, una creazione che metta al centro della vita umana significati diversi dall’espansione della produzione e del consumo, che ponga obiettivi di vita diversi, riconoscibili dagli esseri umani come qualcosa per cui vale la pena vivere […] Questo è necessario non soltanto per evitare la distruzione definitiva dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale degli umani contemporanei”.
In questa prospettiva, ciò che è difficile oggi non è tanto immaginare un futuro alternativo, ma piuttosto concepire la nostra liberazione dalla rete di assuefazioni e dipendenze che ci siamo costruiti. Il pensiero stesso che tante cose, oggetti, abitudini, sicurezze potrebbero scomparire molto velocemente e costringerci in tempi brevi a modificare le nostre abitudini a riorganizzare le nostre vite ci è in buona misura inconcepibile. Per questo, per andare incontro al cambiamento, dobbiamo esercitare il nostro immaginario volgendo gli occhi contemporaneamente verso l’interno e verso l’esterno. Ciò che accade nel mondo attorno a noi, ciò che accade dentro di noi, ciò che accade nell’interazione continua fra i due.
Il tema della decrescita si gioca non in una versione negativa – a contrario – della società della crescita, ma nella costruzione di una pratica sociale più ricca e appassionata, di ciò che può nascere tra di noi, a partire da chi siamo e da quanto siamo disponibili a metterci in gioco. Da questo punto di vista, coloro che si raffigurano la decrescita come una proposta generosa ma utopista, e chi al contrario la immagina come una forma di autocastrazione o di automutilazione, sono entrambi in errore. La decrescita è la riscoperta del desiderio di vivere attraverso l’accettazione profonda della finitezza, della contingenza e dunque della fondamentale fragilità della vita.
Letture essenziali
Gunther Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, p. 252.
Miguel Benasayag, Gerard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005.
Cornelius Castoriadis cit. in Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, Bollati Boringhieri, Torino.
Guy Debord, Il pianeta malato, nottetempo, Roma, 2007. Marie‐Louise von Franz, Il mondo dei sogni, Tea, Milano, 1996. Slavoj Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma, 2002.
FAQ n. 22 QUANTO TEMPO ABBIAMO ANCORA A DISPOSIZIONE ?
Non sono le previsioni di date che ci devono appassionare, ma il processo che conduce alla catastrofe certa se nessuno lo contrasta.
La domanda è molto pericolosa perché risente delle deformazioni giornalistiche dei problemi ambientali, sempre alla ricerca della previsione dell’esperto che fissi in un dato anno l’inizio della catastrofe, come se problemi complessi come l’andamento del clima del pianeta potessero essere definiti in termini di calendario o, peggio, di vaticini o profezie più o meno fantasiose.
Per rispondere bisogna tener conto della complessità delle analisi in corso e dei meccanismi climatici che gli scienziati cercano di interpretare. Un testo di Luca Mercalli, noto climatologo italiano, può aiutarci ad impostare correttamente la risposta.
Dennis Meadows pensa che alla fine faremo qualcosa per evitare il peggio, il collasso globale. […] Il mondo, in definitiva, sceglierà un futuro relativamente sostenibile, ma lo farà tardivamente, costretto da profonde crisi globali. E la situazione, a causa di questo grave ritardo, sarà molto meno gradevole di quella che sarebbe stata creata da un intervento tempestivo. Strada facendo, molti dei meravigliosi tesori ecologici del pianeta andranno distrutti; molte scelte politiche ed economiche desiderabili non saranno più possibili; vi saranno disuguaglianze profonde e persistenti, una società sempre più militarizzata ed estesi conflitti. […] La crescita sarà acclamata e celebrata , anche molto tempo dopo il suo ingresso nel territorio dell’insostenibilità. Il collasso verrà senza il minimo preavviso, cogliendo tutti di sorpresa.
Se non si farà nulla per attenuare il tasso di sfruttamento del pianeta, l’aumento della popolazione mondiale e l’emissione di inquinanti, intorno al 2020, cominceremo ad entrare nel dominio delle crisi
globali che cambieranno pesantemente la nostra vita. In breve, il problema sta nella crescita esponenziale: La crescita esponenziale – il processo che consiste nel raddoppiare, raddoppiare di nuovo e poi raddoppiare ancora – è sorprendente, perché produce molto rapidamente numeri enormi. La nostra mente è invece più abituata a pensare in termini di crescita lineare, cioè in termini di aumento costante in un dato periodo di tempo, e non riesce a cogliere i rischi della crescita esponenziale quando è ancora lontana dai limiti. Può essere utile ricordare cosa avvenne quando all’inventore del gioco degli scacchi il sovrano, pieno di ammirazione, chiese quale ricompensa volesse e accettò sorridendo la richiesta di ricevere un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due per la seconda, quattro per la terza e così via sempre raddoppiando, per poi accorgersi che il suo regno non produceva abbastanza grano per esaudire la richiesta! Meadows invece, che da oltre 40 anni studia l’aggravarsi dei meccanismi di danno ambientale, ha un’idea piuttosto precisa di cosa avverrà quando gli interventi internazionali, per troppo tempo rimandati, non saranno più in grado di modificare i processi che avranno superato il “punto di non ritorno”. Qualche anno dopo, un articolo del Corriere della Sera del 5 maggio 2007, titolava in questi termini: “Le
cure per guarire la Terra. Ci sono solo otto anni di tempo”. Nel testo venivano sintetizzati i risultati del quarto rapporto dell’IPCC, l’Intergovernmental Panel for Climate Change, che sulla base di un’enorme raccolta di ricerche ed esperimenti scientifici, elencava una lunga serie di interventi molto radicali che gli Stati avrebbero dovuto adottare in tempi strettissimi ma che, come il rapporto sottolineava, dovevano essere decisi e realizzati dai singoli governi, completamente responsabili per tali politiche: “Noi non privilegiamo questa o quella soluzione. Spetterà ai decisori politici stabilire cosa è meglio fare nei propri paesi. Noi non raccomandiamo, per esempio, il nucleare piuttosto che le rinnovabili. Diciamo di fare presto. Non c’è rimasto molto tempo per arrestare l’ascesa di gas serra, delle temperature, dei disastri climatici”. Entro il 2015 si dovrà fermare la crescita dei gas serra (obiettivo “stabilizzazione”), dopo si dovrà progressivamente ridurli.
Quali sono i limiti della concentrazione di gas serra, che aumentano rapidamente la temperatura del
pianeta, con i noti effetti di scioglimento dei ghiacci ai poli e dei ghiacciai montani, oltre che per gli spostamenti piuttosto rapidi delle fasce climatiche che influiscono sulle migrazioni degli animali e sulla fioritura delle piante? Per oltre un milione di anni, fino all’inizio della Rivoluzione industriale nel mondo occidentale, le quantità di C02 nell’aria sono sempre rimaste comprese tra circa 170 e 300 parti per milione. A fine ‘800 avevano raggiunto le 285 parti; nel 1938 erano a circa 310; nel 1960 a 315. Nel maggio 2009, nell’osservatorio del monte Mauna Loa , nelle isole Haway, la concentrazione ha toccato le 390 parti pm, valore sconosciuto nella storia del Pianeta nell’ultimo milione di anni. Per comprendere meglio cosa ciò significhi riportiamo un brano del maggior climatologo americano, James Hansen:
“La conclusione di questa analisi è che il valore della CO2 a cui si verifica la transizione tra l’assenza di grandi calotte glaciali e la glaciazione dell’Antartide è 450 ppm, con una incertezza stimata di 100 ppm. Si tratta di un valore che chiarisce con forza quello che può essere considerato il valore di CO2 pericoloso. Se l’umanità dovesse bruciare la maggior parte dei combustibili fossili, raddoppiando o triplicando il livello di C02 dell’epoca preindustriale, la Terra andrà sicuramente verso una condizione caratterizzata dall’assenza di ghiacci, con il livello del mare 75 metri più alto di quello attuale. É difficile dire quanto ci vorrà perché la fusione si realizzi completamente, ma una volta che la disintegrazione delle calotte glaciali sarà avviata, sarà inarrestabile. Dato che la C02 è la forzante climatica oggi dominante, sarebbe ovviamente troppo stupido e pericoloso lasciare che la CO2 stessa si avvicini a 450 ppm.”
Crediamo sia superfluo ricordare che il testo di Hansen è stato scritto nel 2009, che nell’estate del 2010 i ghiacci al Polo Nord si sono sciolti ad una velocità maggiore di quella prevista, che infine, se scomparsa la parte superficiale dei ghiacci polari, dovesse cominciare a sciogliersi il permafrost (il ghiaccio e il metano contenuti nel terreno ghiacciato da migliaia di anni) la quantità di C02 immessa nell’atmosfera sarebbe ancora maggiore. In conclusione, si può dire che non esistono “previsioni di date” più o meno precise relative alla catastrofe che sicuramente si verificherà, o meglio che esistono molte date, ciascuna relativa ai numerosi processi di danno ambientale già in corso, che individuano l’inizio dei fenomeni, il superamento della soglia di rischio, l’avvio di meccanismi di crisi globali non più controllabili e infine il momento dell’evento catastrofico (spesso scatenato dalle interazioni tra danni ambientali diversi). Interventi immediati e con caratteristiche di radicalità e adeguatezza avrebbero dovuti essere adottati parecchi anni fa, sono comunque ancora possibili ma con difficoltà e costi economici crescenti man mano che aumenta il ritardo, finché non sarà superata la soglia di rischio. Poi, si riveleranno praticamente inutili.
Il testo di Mercalli colloca l’inizio delle crisi globali negli anni intorno al 2020, cioè il superamento della soglia di rischio fra otto anni. Saranno interessanti gli aggiornamenti del prossimo Rapporto dell’IPCC, in via di pubblicazione. Qualche scienziato può spostare in avanti o indietro questa soglia di qualche mese, ma in termini di politiche economiche siamo già in un ritardo pauroso con gli interventi e mancano ben pochi anni alla soglia della loro assoluta inutilità. Poi ci saranno solo disastri, sofferenze umane e perdite di vite, sconvolgimenti sulle terre e sui mari, inimmaginabili per tutti coloro che abiteranno ancora il Pianeta.
Letture essenziali
James Hansen, Tempeste, il clima che lasciamo in eredità ai nostri nipoti, l’urgenza di agire, Edizioni Ambiente, Milano, settembre 2010.
Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers, Oltre i limiti dello sviluppo, il Saggiatore, 1992. Luca Mercalli, Che tempo che farà, breve storia del clima con uno sguardo al futuro, Rizzoli, Milano, 2009. Luca Mercalli, Prepariamoci, un piano per salvarci, in un mondo con meno risorse, meno energia, meno abbondanza…e forse più felicità, Chiare Lettere Editore, Milano, maggio 2011.
Nicholas Stern, Clima è vera emergenza, Francesco Brioschi Editore, Milano, 2006 (2009).
FAQ n. 23 COME SI FA A STIMOLARE PROCESSI DIFFUSI DI PRESA DI COSCIENZA?
La decrescita è un processo di decondizionamento e di autorealizzazione.
Dietro questa domanda vi è il desiderio di tutte quelle persone che, avendo raggiunto un sufficiente livello di coscienza su alcuni temi essenziali per l’umanità (dall’esistenza della fame nel mondo al diffondersi della povertà estrema, dalle conseguenze sociali dei movimenti migratori causati da motivi economici o da gravi danni ambientali al perpetuarsi di conflitti armati tra gli stati e al loro interno), desidererebbero fortemente che si diffondessero la conoscenza della realtà e una conseguente presa di coscienza. Altre persone possono nascondere dietro questa domanda un certo numero di tentativi falliti di aggregazione e mobilitazione delle persone. Esigenze derivanti da una fase storica caratterizzata da prospettive drammatiche per l’umanità nel suo complesso in cui però gran parte della popolazione è quasi sempre ignara dei grandi movimenti che interessano interi continenti. Ciò succede perché prevale una informazione /comunicazione molto semplificata, minimalista, che traduce fenomeni sociali rilevanti in banali notizie di cronaca, che trascura gli approfondimenti e ignora le fonti, che considera un fenomeno solo quando diventa di moda. Quasi mai episodi che rivelano mutazioni sociali importanti vengono seguiti con continuità. Nelle società anche più avanzate, dove la maggior parte delle famiglie è dotata di apparecchiature elettroniche, il loro uso a scopo informativo è molto ridotto, mentre la stampa raggiunge percentuale di persone sempre minore. I singoli individui, quindi, anche se apparentemente sono inseriti in un flusso continuo di notizie e di immagini, quasi mai sono nelle condizioni di poter elaborare analisi complesse da fonti diverse, valide anche sul lungo periodo.
C’è di peggio: sappiamo bene che una parte cospicua delle notizie e delle immagini che giungono al grande pubblico è frutto di una distorsione manipolatrice voluta da parte di centri di potere economici multinazionali o di uffici governativi. In questi casi, ovviamente, è ancora più difficile per una persona effettuare analisi ed elaborazioni che abbiano solidi collegamenti con la realtà ed è molto faticoso liberarsi dell’opera di inganno sistematico, non fosse altro che per la scarsità di fonti indipendenti e accessibili di notizie.
Infine c’è da tener conto che la base culturale di molte popolazioni (frutto tanto di programmi scolastici quanto di usi, costumi e ritualità tradizionali) è ancora infarcita di luoghi comuni, miti e pregiudizi che rendono ulteriormente difficile processi autonomi di maturazione, di informazione e di autoformazione. Malgrado tutto sono ancora relativamente molto scarsi i centri culturali, le associazioni e le fonti di informazione che costituiscono delle fonti indipendenti e in genere meglio organizzate di notizie e di analisi. Possiamo quindi condividere il pensiero della Arendt:
“E malgrado il pregiudizio dei giuristi, che spesso parlano della coscienza come di un qualcosa che ogni uomo sano di mente dovrebbe avere, tutto sembra indicare che si tratta di una dote che solo alcuni hanno, di sicuro non tutti, senza che questi pochi siano oltretutto identificabili per la loro professione o per il loro livello di educazione.
Nessun indice sociale o educativo può offrirci la garanzia della presenza o meno di una coscienza.”
In tutti i luoghi in cui mediamente la situazione corrisponde a quella qui descritta, sarà quindi necessario adottare delle metodologie a più fasi: nella prima occorrerà aiutare le persone a riconoscere la propria capacità reale di recepimento di informazioni; poi servirà avviare dei processi di decondizionamento, cioè di liberazione da influssi negativi, di sistema o indotti volontariamente; successivamente dovranno essere messe a disposizione delle tecniche di autoformazione, fornendo strumenti di libera lettura delle realtà circostanti; infine si potranno avviare processi di presa di coscienza di cause e motivi che originano certe situazioni, fornendo strumenti avanzati di lettura e analisi della realtà e suggerendo schemi di valutazione relativi alle soluzioni o alle prospettive utili per intervenire sui problemi affrontati.
Naturalmente questi processi personali liberatori e decisionali possono anche incontrare ostacoli psicologici personali (carenza di autostima, paure di uscire allo scoperto, sottoposizioni ai giudizi altrui, ecc.) che richiederebbero degli interventi di sostegno professionale personalizzati. É solo dopo aver realizzato in tutte le loro fasi questi processi propedeutici, che sarà possibile affrontare un tema specifico e far lavorare un gruppo sufficientemente autonomizzato su un tema che richiede una chiara coscienza e conoscenza della realtà.
Si dovrebbe inoltre pensare ad aumentare la pressione delle associazioni della società civile direttamente sui mezzi e le fonti della comunicazione, non inviando comunicati e articoli sperando che vengano pubblicati, ma svolgendo iniziative di pressione su giornali, radio e televisioni affinché affrontino in maniera responsabili e continuativa i temi cruciali della sopravvivenza della specie umana sul Pianeta Terra.
Le persone che hanno raggiunto un certo livello di coscienza cominceranno a manifestare il loro nuovo stato moltiplicando i loro interessi, cercano di approfondire immediatamente ogni linea di lavoro, presentano nuove idee e curiosità agli altri membri del gruppo, cercano di far entrar nel gruppo altre persone, diventano cioè subito dei promotori e dei moltiplicatori di relazioni. In questa prima fase è molto importante che ci sia chi sostiene i loro tentativi e non riconosca la validità dei loro sforzi: alle prime difficoltà o ai primi ostacoli espressi dal sistema dominante, le persone possono regredire e rientrare in una situazione psicologica analoga a quella di partenza, alla quale spesso si possono aggiungere sensazioni di delusione e di impotenza non facili da superare.
Se invece i loro entusiasmi trovano soddisfazioni anche minime e riconoscimenti affettuosi (anche in presenza di qualche errore più o meno grave), il loro processo di coscientizzazione può continuare ad attraversare fasi di maturazione. É d’altra parte essenziale che questi processi entrino a far parte di campagne e di reti in grado di moltiplicare e rispecchiare con rapidità e senza limiti processi validi di coscientizzazione individuale o di piccoli gruppi e soprattutto di realizzare iniziative ed azioni riconosciute a livello territoriale. La contaminazione deve trovare subito degli strumenti in grado di agevolare la diffusione della presa di coscienza su una scala più ampia. Le metodologie adottate devono ricordare le difficoltà incontrate dai processi individuali, devono estendersi senza interruzioni, non si deve aver paura di ripetizioni e di richiami a distanza di tempo. Un solo evento, anche ben riuscito, non è in grado da solo di sostenere dei processi di coscientizzazione che possono richiedere tempi non brevi.
Si può d’altra parte pensare che il graduale aumento della gravità dei fenomeni climatici e dei danni ambientali cominci a costringere i mezzi di comunicazione di massa e i centri di formazione istituzionali a modificare i loro contenuti e a tener conto della necessità di sostenere delle forme intelligenti di reazione a livello collettivo. C’è da sperare che questa mutazione avvenga prima che eventi catastrofici irreparabili causino sofferenze e perdite umane di dimensioni inaccettabili.
Letture essenziali
Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, a cura di Jerome Kohn, Biblioteca Einaudi, Torino, 2004.
E. Euli, Casca il mondo! Giocare con la catastrofe, Edizioni La Meridiana, Molfetta, 2007.
M. Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Mondadori, Milano, 2003.
FAQ n. 24 CON QUALI METODI SI PUO’ STIMOLARE L’ASSUNZIONE DI RESPONSABILITA’ COLLETTIVE?
Facendo emergere desideri profondi e scelte di altruismo e generosità.
Il concetto di responsabilità è abbastanza usato nelle analisi sociali, anche se spesso non viene rispettato nella vita quotidiana e neanche di fronte ad eventi di una certa importanza che si profilano nella esistenza delle singole persone. É molto facile, ad esempio, discettare delle responsabilità che una coppia si assume quando decide di mettere al mondo un figlio, molto più difficile verificare cosa avviene durante la loro vita (eventualmente anche non più in comune) nei confronti dello stesso figlio. Anche nell’ambito politico e istituzionale si parla spesso delle responsabilità che un presidente, un governo o un parlamento si assumono verso tutti i cittadini, ma poi durante il periodo in cui sono in carica ci si accorge che al massimo si sentono responsabili solo verso certe fasce di popolazione (in genere quelle che li hanno votati), mentre interi territori o aree della società vengono praticamente dimenticati. Quando poi si verificano eventi come la partecipazione ad una guerra o la necessità di intervenire per ridurre i danni di un fenomeno naturale (terremoto, alluvioni), oppure per un danno ambientale causato dall’uomo, si ha molto spesso la sensazione che gli organismi formalmente responsabili rispondano invece a sollecitazioni ben diverse (logiche delle alleanze internazionali, esibizioni della forza militare, occasioni di profitto per entità economiche e così via). É quindi opportuno, specie in situazioni di crisi economica o di condizioni sociali particolarmente depresse, trovare le modalità più adatte per fortificare e diffondere il senso di responsabilità individuale e collettivo. A questo fine può essere utile delineare, in via preliminare, una sommaria analisi dei livelli di responsabilità già presenti nella società, ma soprattutto per valutare l’effettivo grado di rispetto di questi obblighi di verso gli altri e il resto della società.
Quando si propone la prospettiva di una decrescita, cioè di un cambiamento radicale e piuttosto rapido dell’intera struttura socio‐economica, tutto il sistema di valori e di principi di riferimento deve cambiare con la stessa rapidità, anzi deve anticipare le logiche del cambiamento, specie se questo deve avvenire sotto la pressione crescente di determinanti del clima o di componenti della biosfera, quando cioè ogni ritardo e ogni esitazione può aggravare i meccanismi naturali fuori controllo o aumentare in misura intollerabile le perdite di vite umane. Senza dimenticare che ci troviamo in una società che ancora non percepisce a sufficienza i rischi che corre la specie umana. Nella attuale fase storica, particolarmente instabile e tormentata, si pone spesso nelle nostre società il problema dell’esistenza di uomini maturi strutturalmente indifferenti ai grandi problemi ambientali e sociali e di giovani generazioni prive di senso di responsabilità verso gli altri con i quali condividono territorio e comunità. Spesso si imputano queste caratteristiche ai nefasti influssi dei media o alle carenze dell’istruzione, oppure a caratteri congeniti e legati all’etnia di appartenenza. Qui, per rispondere alla domanda, si segue un percorso diverso, puntando a far emergere e a valorizzare desideri profondi e riflessioni personali. Si possono immaginare vari livelli di responsabilità validi nel nostro contesto culturale, partendo da quello estremo (inesistente) di una persona che vive isolata, che rinuncia ai mezzi di comunicazione, che vive di espedienti, che non ritiene di appartenere a nessuna comunità, che trascura la sua persona e le sue esigenze fisiche; è presumibile che a meno di improbabili sussulti psicologici, non percepisca nemmeno lontanamente il concetto. Possiamo poi pensare ad una persona
sufficientemente integrata nella società attuale, che ha o cerca un lavoro. Non appena comincia a svolgere una attività nascono i primi embrioni di responsabilità, verso le scadenze di lavoro, verso i colleghi con i
quali si collabora, magari anche verso i destinatari delle proprie attività (clienti, assistiti, consumatori, ecc.). Però i destinatari finali sono lontani e possono essere cancellati, il lavoro in un ufficio o in una linea di montaggio è collettivo e può permettere una partecipazione passiva o molto limitata. Si può vedere poi che con il progredire dell’età e delle esperienze mutano i desideri, si intravede una famiglia oppure iniziano gli oneri verso genitori, fratelli minori, amici in difficoltà, ecc. Solo se si decide che questi compiti devono
essere compiuti (in nome della tradizione, della cultura, del senso della famiglia, degli eventuali rimproveri degli amici e dei vicini, ecc.) cominciamo a sentire delle vere responsabilità, mentre alcune scelte (convivere con un partner, sposarsi, fare un figlio, ecc.) possono addirittura essere evitate o ritardate, proprio per evitare eccessive responsabilità. In altri casi, il senso di responsabilità personale può emergere e precisarsi
in relazione a compiti o situazioni particolari (gravi malattie in famiglia, servizio militare specie se in zona di guerra, famiglia numerosa, disoccupazione, ecc.), ma può anche dar luogo a fughe e abbandoni, accompagnati spesso da forti sensi di colpa. Si tratta peraltro di un senso di responsabilità derivante da fatti esterni (legami familiari, superiori militari e gerarchici, figli non abbastanza voluti, ecc.) e sopportato non dovuto a una maturazione profonda. Possiamo ritenere che una vera e propria responsabilità personale è strettamente connessa con un progressivo maturarsi delle proprie capacità di scelta, che tengano conto dei fattori esterni ma non siano da essi condizionati. Però il senso di responsabilità discende sempre da propri doveri o desideri, dipendere cioè da una spinta esercitata da imperativi morali (spesso da una educazione religiosa) o da visioni della vita individuale che rispetta certi principi comportamentali. Solo a partire da questo livello si può cominciare a parlare di una responsabilità non più individuale ma attenta alle situazioni sociali della popolazione o del territorio di appartenenza. In genere si manifesta con piccole azioni altruiste come il volontariato nel tempo libero, aiuti a famiglie in difficoltà, assumere posizioni interculturali, sottoscrivere contributi periodici a organismi per le adozioni internazionali o che effettuano interventi di emergenza nei tanti Sud del mondo. Quella che si può definire una responsabilità attiva nasce da una serie di decisioni che portano a scelte di interesse non solo personale ma collettivo. Si aderisce a un partito o ad una organizzazione che svolge attività sociali, si partecipa alla elaborazione di carte dei principi che orientano le iniziative dell’organismo nel quale si opera, si assumono alcuni compiti che comportano responsabilità gestionali o amministrative, che possono anche comportare dei rischi personali. Una responsabilità con forte carica sociale si distingue per delle motivazioni e degli obiettivi che riguardano l’intera collettività di appartenenza e la società in cui si vive ed opera nel suo complesso. Tuttavia il mutare delle proprie condizioni sociali (maggior reddito, incarichi prestigiosi, collocazione in un contesto competitivo, ecc.) possono indurre a variazioni anche repentine di ideali e di scopi, a passaggi ad altre compagini diverse od opposte come ispirazione politica e sociale, ecc.
La responsabilità duratura può essere rappresentata da principi e impegni di natura collettiva che si prolungano nel tempo fino a caratterizzare la persona che li afferma e propaga incessantemente.. Infine, si può configurare un senso di responsabilità che travalica i limiti del proprio contesto sociale e si proietta verso le esigenze e le necessità delle generazioni future, tralasciando di prendere in considerazioni i propri interessi e preoccupandosi attivamente dell’umanità che vivrà successivamente nel pianeta che le avremo lasciato.
Se si accetta più o meno questa approssimativa descrizione, si può ipotizzare che ogni persona debba collocarsi in uno dei livelli e debba esplicitare quali sono i suoi piani o i suoi desideri di passare ai livelli successivi. É evidente che i cambiamenti radicali e piuttosto repentini delineati dal pensiero della decrescita richiederanno quanto prima rapidi passaggi ai livelli superiori e quindi ciascuno potrebbe verificare la propria adeguatezza in termini di capacità di assunzione di responsabilità rispetto agli eventi annunciati. Nelle società immaginate, poi, anche se in termini presumibilmente diversi, si può ritenere che le responsabilità saranno molto maggiori, anche se ripartite in modo più ugualitario tra i cittadini delle culture future; ma al momento non è certo facile elaborare criteri adeguati alle situazioni completamente nuove ancora potenziali e valori di riferimento pressoché sconosciuti.
Letture consigliate
Hannah Arendt, Responsabilità e giudizio, a cura di Jerome Kohn, Biblioteca Einaudi, Torino, 2004 (in partic. testo sulla “Responsabilità collettiva”).
L. R. Brown, Un mondo al bivio, come prevenire il collasso ambientale ed economico, Edizioni Ambiente, Milano, settembre 2011.
T. Jackson, Prosperità senza crescita, economia per il pianeta reale, Edizioni Ambiente, Milano febbraio 2011.
Hans Jonas, Il principio responsabilità, un’etica per la civiltà tecnologica, Biblioteca Einaudi, Torino, 1979 (edizioni italiane 1990 – 2002).
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