Ralph Waldo Emerson, che essendosi dedicato per tutta la vita al giardinaggio doveva saperla lunga, una volta disse che un’infestante è semplicemente una pianta di cui non abbiamo ancora scoperto le virtù: quella di «infestante» non è una categoria della natura ma un costrutto umano, un difetto della nostra percezione. Questo tipo di atteggiamento, che scaturisce da un antico filone americano di pensiero romantico sulla natura selvaggia, può metterci nei pasticci. Quanto meno ci mise me: infatti quando seminai la mia prima aiuola fiorita avevo in mente la bella idea di Emerson, e il risultato non fu altrettanto bello.
Avendo letto forse troppi scritti di Emerson e troppi libri di giardinaggio che sostengono i «giardini naturali» e mettono la parola infestante tra virgolette con un’aria di intesa (segno inequivocabile di raffinatezza ecologica), cercai di allestire un’aiuola che fosse il più «naturale» possibile. Escludendo qualsiasi tipo di geometria (troppo artificiale!), delimitai nel prato un’area dalla sagoma più o meno simile a un seme di fagiolo, asportai le zolle con l’erba e divisi il terreno nudo in parti irregolari che circoscrissi in modo approssimativo con un po’ di calce. Poi presi delle bustine di semi di piante annuali – fiordalisi, nasturzi, nicoziane, cosmee, papaveri (sia quelli della California sia la varietà Shirley), cleomi, zinnie e girasoli – e gettai una manciata di ciascuna in quelle aree irregolari, lasciando che i semi cadessero ovunque decidesse la natura. E niente file: la disposizione di quest’aiuola sarebbe stata naturale. Sparsi poi sui semi del terreno sciolto, innaffiai e attesi che germinassero.
La prima pianta a germogliare fu l’amaranto, benché all’epoca fossi così ignorante da pensare che i protagonisti di quell’esordio tanto esuberante dovessero essere zinnie o girasoli. In precedenza non avevo mai incontrato l’amaranto (non cresceva in nessun altro luogo della proprietà), e così non capii che si trattava di un’infestante finché non mi accorsi che stava spuntando in ognuna delle suddivisioni irregolari della mia aiuola. In capo a una settimana, quest’ultima era interamente tappezzata di amaranti robusti e lanuginosi, ed era chiaro che, se volevo veder crescere le mie annuali, avrei dovuto cominciare a estirparli. Il fatto che non avessi creato file o camminamenti rese difficile l’operazione, ma riuscii comunque a diradare i vigorosi amaranti, così che le mie annuali, grate per l’intervento a loro favore, spuntarono finalmente dal terreno. Trovando il campo relativamente sgombro, cominciarono a crescere sul serio.
Quella prima estate, il mio piccolo prato naturale di annuali prosperò, conformandosi abbastanza bene all’immagine che avevo in mente quando lo avevo seminato. Distese disordinate di fiordalisi color del cielo confluivano senza soluzione di continuità in dense chiazze di papaveri rossi e arancio, dietro alle quali si ergevano, come grandi torri, i girasoli. I nasturzi riversavano le loro foglie rotonde in bei monticelli bassi punteggiati di cremisi e giallo limone, mentre le cleomi descrivevano in alto, nell’aria, le loro intricate architetture. Ben presto liberare questo fitto intreccio dalle infestanti fu pressoché impossibile, ma dopo lo spavento preso con l’amaranto avevo adottato nei confronti degli ospiti non invitati una politica di relativo laissez-faire. Le infestanti che si trasferivano nell’aiuola erano quelle con cui ero disposto a tentare la convivenza: la balsamina (una sgargiante parente dei fiori di vetro, con i petali color arancio), Alopecurus, il trifoglio, la borsapastore, la poco appariscente Galinsoga, e la carota selvatica, il tipo di erba che Emerson doveva avere in mente, con i suoi fiori simili a ricami color avorio (non meno belli di qualunque fiore coltivato) e con radici commestibili simili a carote. Quel primo anno si insinuò nell’aiuola anche una bella rampicante, rifugiatasi lì dal prato circostante. Avanzò avvolgendosi sui gambi dei girasoli e in agosto dischiuse fiori bianchi a forma di tromba, che ricordavano il convolvolo. Che diritto avevo, io, di cacciar via questa delicata rampicante? Di decidere che i fiori piantati da me fossero più belli di quelli seminati dal vento? Mi piaceva l’aspetto spontaneo del mio giardino, il modo pacifico in cui le mie cultivar sembravano andare d’accordo con le loro parenti selvatiche. E mi piaceva il fatto di non essere nevrotico verso le «infestanti». Chiamatemi Ecology Boy.
Quell’estate decisi che in effetti le «infestanti» avevano una reputazione ingiustamente negativa. Ripensavo al giardino di mio nonno, al suo approccio poco illuminato e totalitario nei confronti delle erbacce; ogni giorno perlustrava le sue ordinatissime file, decapitando il minimo sbaffo di verde con la sua zappa vigilante. Hippie, sindacati ed erbacce: all’epoca, queste tre cose lo mandavano tutte in bestia – alla fine degli anni Sessanta mio nonno era ormai un uomo anziano –, e tutte e tre scatenavano la sua furia reazionaria. E forse, poiché poteva fare pochissimo per fermare la marcia degli hippie e delle maestranze organizzate, si scagliò contro le infestanti in modo ancor più fanatico. Era uno di quei giardinieri che strappavano le erbacce ovunque: non solo dal suo terreno o da quello di altre persone, ma anche dai parcheggi e dalle fioriere davanti ai negozi. Il suo mondo, allora, era sotto assedio, e per lui le erbacce rappresentavano l’avanguardia delle forze del caos. Probabilmente, se fosse vissuto abbastanza per vederlo, il mio piccolo giardino selvatico – questo be-in vegetale senz’ordine, questo Haight Ashbury orticolturale – gli avrebbe spezzato il cuore.
Tratto da: Michael Pollan, Una seconda natura, Educazione di un giardiniere, Adelphi
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