XX
Era tempo ormai per Marco di «spiegare le vele» verso la sua Venezia, di cui in quel paese lontano non sentiva nostalgia, ma home sweet home, la casa era dolce e poi le cose avevano un tempo.
Egli tuttavia sentiva che nel vasto mondo il Giappone era il solo paese di cui sarebbe diventato con gioia figlio adottivo perché mille e mille cose gli restavano da vedere e rivedere, così grande era ancora la sorpresa e la felicità nelle sue pupille e nel suo cuore.
Era dunque l’ultimo giorno, una domenica, ed egli lo dedicò al teatro e alla musica classici giapponesi, cioè al teatro Nô e alla musica Gagaku, antichissima e quasi eterna come il sorgere del sole in quel paese così ad oriente. Fu sempre la signorina Momoko Tokugawa, lo spiritello quasi muto e dai mille volti, ad accompagnarlo al teatro che si trovava accanto a un grande parco di divertimenti dove una immensa ruota con cabine colorate girava nell’aria. La signorina Tokugawa, nel suo tradizionalismo amava quel teatro che Marco non aveva mai visto sebbene fosse giunto molti anni prima fino a Venezia e studiava per potervi cantare.
Era un teatro modernissimo, con un palcoscenico, una sorta di passerella perpendicolare a baldacchino che avanzava verso gli spettatori. Marco aveva visto alcune fotografie di costumi Nô ma ora vederli avanzare a passi piccoli e lentissimi nello sfolgorio delle loro maschere e nel fruscio delle larghe sete dei costumi lo lasciò senza fiato. Tutto avveniva nel silenzio generale del foltissimo pubblico, scandito soltanto dal rumore dei tamburelli e dalla voce del dicitore mascherato che aveva impiegato mezz’ora per raggiungere il bordo della passerella con i suoi piccoli passi e infine inginocchiarsi davanti al pubblico. I musicanti, forse quattro, in smoking giapponese e con i loro strumenti a corda stavano chi inginocchiato chi in piedi sulla parte destra del palcoscenico e la scena di fondo era costituita dalla pittura di un grande pino di tipo marittimo ma di specie giapponese piegato dal vento.
Era, come gli spiegò la signorina Tokugawa, una scena fissa e classica, in certo qual modo il simbolo del teatro Nô e insieme del Giappone. Marco naturalmente non capiva nulla di quanto andava recitando con voce profonda di basso il dicitore ma aveva un’idea della trama, se di trama si può parlare, dedotta da un libriccino in inglese. Come al solito, le profondità abissali dell’animo giapponese affioravano come un mostro marino e cioè si trattava di un uomo che ritornava in vita in forma di fantasma per vendicarsi del proprio uccisore. Ma non era tanto la trama che interessava, molto simile per ogni rappresentazione (quel giorno furono tre), quanto altre cose. Era chiaramente un teatro musicale, non tanto per la presenza e il suono degli strumenti classici a corda quanto per il tono del recitativo sia del dicitore sia del coro.
Tra questi spiccava in modo sbalorditivo la voce di una specie di basso profondo, ma dire basso profondo è dire nulla perché la voce veniva raccolta dall’abisso dei polmoni e ne usciva come una sorta di espettoramento straziante di lutto e di dolore: una specie di urlo, però parlato e ritmato che ancora una volta insieme al tamburello di fondo con il suono secco di battuta, riempiva l’aria da respirare di funebre angoscia notturna: un incubo, raffigurato, vivente e ritmato che a Marco rammentò la stessa emozione dei tamburi dell’Ottocento fatti battere per la fucilazione. La poesia consisteva nell’assimilazione dei tre elementi principali: favola, suono e colori dei costumi.
Nonostante i secoli siano passati Marco pensava che anche il teatro Nô stava alle radici di quei fumetti televisivi che già non sono più di moda in Giappone, quei mostruosi Mazinga la cui comprensione è possibile solo ai bambini per la rapidità ossessiva dell’azione. Il teatro Nô, così come voleva l’evoluzione della storia dell’arte umana, è invece lentissimo e tutto lì stava il mistero dello stile e l’immensa differenza tra le due specie di favole. Ma la storia dell’uomo ha voluto cinema e televisione, pensava Marco, e non si discutono i risultati. Il Giappone era tuttavia quello, quel canto-urlo roco, di sventramento mortale, quei passettini, quel ritmo. Nulla più. Marco osservò il pubblico che pensava tradizionale, cioè di persone anziane, tanto astratta era la rappresentazione, ma vide pochissimi chimoni, indossati tutti da persone anziane, specialmente donne. Più volte durante lo spettacolo egli si alzò e andò a curiosare nell’anticamera del teatro dove si vendevano magnifici libri illustrati e anche alcune scatoline mangerecce, perché si annoiava: ma era una strana specie di noia, non dovuta tanto all’incomprensione delle parole del testo, quanto a una nervosa paura data dall’animo giapponese che sempre si riproponeva funebre e fantastico.
Immobile la signorina Tokugawa lo aspettava al suo posto ed egli mai riusciva a vederla come una accompagnatrice ma come una divinità locale dalle mani minuscole di neonato e gli occhi bui e totalmente misteriosi come quelli dei Budda nascosti dalle palpebre. Ella lo accompagnava anche la notte nei sogni e forse lo sapeva o lo sentiva, tanto profonda era l’aura di passione che conteneva: ma anche quella era una passione dal fondo malinconico e solitario come moltissimi abitanti di quel paese e di quelle fantasie. Allo stesso modo e ancora a lei pensava Marco la sera stessa quando, da solo, con un invito che gli aveva procurato l’ambasciatore della Repubblica, assistette ad alcune esecuzioni di musica.
Il concerto avveniva dentro un tempio al centro della città, come sempre nascosto e quasi sepolto da un giardino dove quegli stessi pini che formavano da sfondo al teatro Nô, ma viventi e solenni e tutti piegati verso ovest come piangenti, si innalzavano funebri. Erano le nove e mezzo della sera ma non c’erano lampioni, Marco camminava sulla ghiaia al buio e solo un leggero chiarore giallastro poté condurre i suoi passi. La sagoma della grande pagoda apparve contro il cielo e quella luminescenza color arancio era una porta scorrevole aperta che dava in una sala di preghiera dove stavano come cantando alcuni monaci vestiti di nero, rapati e inginocchiati. Con una specie di libretto battevano e ritmavano quel canto astruso e Marco li spiò per un certo tempo senza essere visto.
Apparivano giovani e senza tempo; Marco, che temeva di aver sbagliato pagoda, si fece avanti senza paura e uno dei bonzi si alzò e si inchinò: Marco sapendo che in Giappone pochissime persone conoscono un’altra lingua mostrò il suo invito e solo allora il giovane bonzo, con sua grande sorpresa, gli disse in inglese che il concerto si svolgeva nel sottosuolo della pagoda immersa nel buio e negli odori di incenso, e lo condusse fino all’imboccatura di una calma scalinata da cui effettivamente usciva un filo di luce. Ma tanto imponente era l’oscurità e il silenzio dell’enorme pagoda sovrastante che era quasi impossibile scorgerlo. Marco vi si infilò ed ecco una hall modernissima con un tavolo dove egli consegnò l’invito e dovette firmare un libro d’onore mettendolo però per traverso perché gli altri, tutti giapponesi già presenti, avevano firmato come d’uso dall’alto in basso.
Entrò nella sala del concerto, anch’essa modernissima e dotata di pareti speciali per assorbire i suoni e si sedette discretamente verso il fondo essendo l’auditorium pieno zeppo: fu subito guardato da tutto il pubblico come il solo occidentale presente, una accompagnatrice lo pregò di andare più avanti e gli fu ceduto un posto di prima fila, esattamente sotto il podio. Già soltanto quel podio era un prodigio di regia, al tempo stesso classica e astratta, trattandosi di un paravento di lamine d’oro ramato su cui battevano le luci di piccoli riflettori lasciando la grande sala nel buio. Quell’oro ramato, come gli era capitato di vedere altra volta in un tempio presso un bonzo malato di estetismo, era lievissimamente screziato e perciò scintillante di spade di luce.
Fu annunciato il primo pezzo e si presentò al centro di quell’oro davanti al paravento un flautista nel suo smoking tradizionale che si inginocchiò su un cuscinetto. Il suo flauto altro non era che una canna di bambù da cui trasse la sua musica solitaria di foresta con altissimi pini. Essa giungeva a Marco come sottili lame di sole che l’attraversavano e subito svanivano forse per il movimento delle nuvole. Mai aveva udito quei suoni, che il flautista pareva cavare da quello zufolo con immensa, mortale fatica e sudore, se non forse nel sottofondo di certe musiche di Stravinskij o di Stockhausen. Ma in questi il sentimento della natura e la sua stessa proiezione astratta esalavano puri come il vento di alte montagne, le nevi e la resina dei pini nel suo colare profumato e impercettibile. Così accadde anche per i concerti successivi, in cui però apparvero due donne, una giovane, una anziana, truccate come bambole di cipria e rossetto e dentro stupendi chimoni. Dunque erano tre strumenti: lo zufolo dell’uno e altri due strumenti a corda affidati alle donne, un chitarrino per la più anziana e una specie di grande cetra poggiata ai piedi per la più giovane. Qui la musica fu accompagnata dal canto, anch’esso straziante, della magnifica voce della donna anziana, e dal sordo vibrare delle corde della più giovane. La donna anziana cavava dalla sua gola certi acuti sottili come rasoi, anzi tutto il suo canto era un acuto metallico e melodioso al tempo stesso, come una lagnanza lontana che veniva dalla foresta. Marco la osservò attentamente, anche qui credette di trovare un parallelo con la sua cultura lontana: e ricordò la Callas, vista a brevissima distanza, e la sua gola e collo nei momenti di maggiore potenza: un uccello, un grande uccello nei suoi gorgheggi e non una persona umana.
Il parallelo non poteva però essere posto in questo senso nel caso della cantante e chitarrista giapponese perché nulla vi era di animale nei movimenti e nei suoni della sua gola, bensì molto di preistorico come nei movimenti lentissimi degli immensi blocchi gelidi dell’era glaciale, nei tempi delle grandi trasformazioni del globo da cui l’animale solo miliardi di anni dopo cominciava ad apparire. Così la vecchia bambola cavava la storia naturale dalle proprie viscere fino alla sua accecante voce accompagnata dal rombo e dal sibilo di altri ghiacciai attraverso le piccole mani della giovane che pizzicavano la cetra. Contro lo sfondo del paravento d’oro i tre artisti parevano tre pupazzi, erano invece tre elfi strambi e multicolori delle fiabe nipponiche, emittenti ultrasuoni. Come trafitto da questi nel profondo, Marco pencolante di sonno andò a letto e dormì per l’ultima notte in Giappone. Ancora in sogno gli apparve la signorina Momoko Tokugawa, quasi a riassumere quelle ultime emozioni e per la prima volta mostrò i bei denti in un sorriso di invito.
Tratto da: Goffredo Parise, L’eleganza è frigida, Adelphi
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