Dov’è l’Enel, è la devastazione. Il paesaggio è sconvolto e febbricitante. La torre è smisurata e a servirla molte formiche faticano. Si sta lavorando a un porto fluviale per ricevere la nafta e il carbone per via d’acqua. A Ostiglia, poco lontano, un’altra centrale, tutta a carbone, manda i suoi fumi fin qua, cosí Sermide ne avrà un p0’ di piú. Proprio dov’è l’Enel il Po è piú splendido: con isole, grandi rive in movimento, un dolcissimo lago.
Dell’Eridania c’è uno zuccherificio estinto, un fossile industriale, un enorme granchio morto sulle ghiaie del Po. Una teleferica, che ancora c’è, tirava su dai barconi le barbabietole e le tuffava nello zuccherificio che le trasformava in alimento assassino, per avvelenare il mondo e seminare la carie e il diabete. È ancora in funzione invece una vecchissima fabbrica che pesca acqua (quale acqua!) dal Po, per distribuirla agli agricoltori. Il Corradi, che mi porta dove voglio, sospeso il suo lavoro di meccanico per trasformarsi in autista, entusiasta di avere un giornalista, mi mostra anche la BONLAT, la fabbrica del latte, di cui non ho nessuna curiosità.
Gli scarichi schiumosi delle fabbriche corrono sull’acqua come bande di coniglietti bianchi. – È finito, il Po… – dice il bravo Corradi.
Come non capire che questo cielo, italiano e planetario, è figurativo, e che il suo chiudersi o fendersi, per crescita di vapori e assottigliarsi di strati protettivi, il suo progressivo intossicamento da miasmi umani, ha non soltanto un significato, ma una causa morale? Le società umane civilizzate, guardatele, non sono piú che aggregazioni di follia tenute insieme dalla paura e dalle coercizioni. Un momento, dice Abramo, se si trovassero cinquanta uomini giusti nella città il fuoco della Necessità può essere fermato dalla loro faccia. Non ci sono. Quaranta… dieci… Se non si trovano vuol dire che niente può fermare la Necessità, perché è la Necessità. Resta la scommessa sublime: se mai ci fossero… sfida alla Necessità della nostra impotenza, di una natura in cui sempre l’egoismo e il vizio prevarranno, eccetto che in rari campioni onorati o respinti, come strani fenomeni. Se la faccia di quei cinquanta introvabili apparisse sul Po ecco il Po non sarebbe piú un fiume finito (che ancora scorre, ma che è morto dentro, in quel che la sua anima profonda ha di affine con la nostra, che è morta); e se la faccia di quegli almeno dieci della res reducta ad triarios si mostrasse al cielo, i vapori maledetti si romperebbero e gli abbietti ordigni che spiano questa sventurata fogna abitata, solo perché c’è qualche nave da guerra a solcarla e tante milizie nere e bianche in corsa fra una tromba e un fischietto, si perderebbero come efimere dentro un lago. Consideriamo il cielo sporco e il fiume morto come castigo, invece che come accidente tecnico, come conseguenza del peccato (oscuro, impenetrato sempre: in che peccai bambina? haber nacido ec. aver perduto il centro, adorato gli idoli) e non come una svista, un errore di calcolo: sarebbe già qualcosa, il sollievo, il respiro piú libero, un po’ piú di luce nella mente malata. Sí, il Po è finito… C’è rabbia a pensare: per gli scarichi… No, no! Per il peccato; questo bacio di fatalità rasserena. Il largo davanti al Castello degli Este si chiamava Piazzetta de’ Letamai. Quella era toponomastica! Le città italiane sono diventate opache elettricamente buie, il giorno che nacque la prima Via Garibaldi, il primo Corso Vittorio Emanuele.
Via del Paradiso (un tagliagole). Via del Travaglio… Via delle Vecchie Pescherie… C’era la funesta aria della notte sabatina, slabbrato traffico carnale, assalto al cibo ambulante caldo e al gelato, schiamazzi di bande, movimento di ombre sordide per il vecchio quartiere (9 ottobre).
Tratto da: Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, Einaudi Ed.
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