La botanica parallela
Nell’antichità la botanica faceva parte di un’unica scienza, che includeva la medicina e le scienze agrarie ed era praticata da filosofi e barbieri. Alla famosa scuola medica di Coo (V secolo a.C.) Ippocrate, e più tardi Aristotele, scrissero i primi abbozzi di una metodologia scientifica. Ma fu Teofrasto, allievo di Aristotele, il primo a sviluppare un rudimentale metodo di osservazione del mondo vegetale. I suoi Historia plantarum e De plantarum causis si ritroveranno poi, tramandati da Dioscoride, fra le frasi e le frasche degli erbari medievali che monaci scrivani componevano nei chiostri fioriti delle badie, ritraendo le piante più umili, ognuna sul suo altarino di zolla, ferme, perfette come i santi, in una solitudine che sfidava il tempo e le stagioni.
Dopo Gutenberg anche le piante avranno una nuova iconografia. Alle delicate velature dell’essenza di petali, applicata con amorevole pazienza, si sostituisce la brutalità del taglio nel legno e l’opaca indifferenza degli inchiostri. Nel 1539 Hieronymus Bock pubblica un’opera, illustrata da tavole xilografiche, in cui l’autore descrive 567 delle seimila specie di piante allora conosciute nel mondo occidentale, includendovi per la prima volta tuberi e funghi. «Questi» scrive «non sono né erbe, né radici, né fiori, né semi, ma soltanto un umidore eccessivo della terra, degli alberi, dei legni marci e di altre cose putrescenti. Da tale umidità si originano tutti i tuberi e i funghi. Questo si può constatare dal fatto che tutti i funghi sopraddetti (in ispecial modo quelli adoperati nelle cucine) crescono principalmente quando il tempo è piovoso o temporalesco. Da questi fatti furono già colpiti in particolar modo gli antichi i quali pensavano che i tuberi, poiché non nascono da alcun seme, fossero in qualche modo collegati col cielo. In tal senso si esprime anche Porfirio quando dice: “Le creature degli dèi si chiamano funghi e tuberi perché non si sviluppano da semi come gli altri viventi”».
Meno di un secolo dopo l’avvento della stampa i Conquistadores e i capitani delle Compagnie delle Indie vuoteranno su un’Europa sbalordita la cornucopia profumata dei giardini e delle giungle che dormivano di là dagli oceani. Migliaia e migliaia di nuove piante dovranno essere frettolosamente nominate e collocate in un sistema di classificazione primitivo e inefficiente. Finalmente, nei primi decenni del XVIII secolo lo scienziato svedese Carlo Linneo redige una tassonomia botanica che sembra essere definitiva; un’anagrafe vegetale dove tutte le piante della Terra, presenti e future, potranno avere un nome, un rango, una descrizione sommaria. Nel 1735 Linneo pubblica il suo Systema Naturae e nel 1753 introduce la nomenclatura binomia che assegna a ogni pianta due nomi latineggianti, uno per il genere e uno per la specie. Oggi 300mila nomi di piante formano un lungo involontario poema che commemora, ricorda, descrive, esalta, celebra le intricate vicende della storia umana.
Tutto sembra pronto per la nuova scienza. Liberati dall’ossessione della tipologia, i botanici si chiedono ora il come e il perché dei comportamenti vegetali. La chimica, la fisica e la genetica provvedono nuovi strumenti di ricerca. La tipologia cede il posto all’etiologia.
La botanica, chiamata a stabilire un rapporto logico e causale fra l’organizzazione morfologica e le funzioni vitali delle piante, servendosi di metodi sperimentali, è ora una scienza moderna. Il futuro sembra sicuramente tracciato – s’insegue il piccolo con un piccolo sempre più piccolo, fino all’infinito. Là, paradossalmente, si pensa, dovrà avvenire l’incontro e la spiegazione di tutto quello che esiste nell’universo.
Ma la prospettiva, al tempo stesso esaltante e confortevole, di un programma di ricerca faticosamente delineatosi attraverso i secoli, e che pareva fissato per sempre nel tempo, sarà profondamente scossa dalle notizie del ritrovamento delle prime piante parallele – un regno sconosciuto le cui caratteristiche di arbitrarietà e di imprevedibilità sembrano sfidare non solo le conoscenze biologiche recentemente acquisite, ma anche le strutture tradizionali della logica.
«Tali organismi» scrive Franco Russoli «la cui corporea esistenza è ora molle ora porosa, ora invece ossea ma fragile, slabbrati a mostrare colonie di semi, bulbi che crescono e lievitano nella cieca ostinazione di una metamorfosi vitale, e sembran lottare contro la resistenza di un mallo soffice ma vischiosamente insuperabile – tali abnormi creature che sfoderano aculei e cornee protuberanze, o si fan corpetto e gonna e frange di fibrilli e pistilli e articolazioni ora di mucosa ora di cartilagine, potrebbero ben appartenere vagamente alle grandi famiglie di una flora di giungla, ambigua, feroce e mostruosamente affascinante. Ma non appartengono ad alcuna specie in natura, né alcun sapientissimo innesto di laboratorio arriverebbe a farle esistere»1. Quando si pensi che nel 1330 fra Odorico da Pordenone aveva descritto, con serafico impegno, una pianta che genera niente di meno che un agnello, e che, ancora nel Seicento, agli albori delle prime autentiche esperienze scientifiche, un Claude Duret parla di alberi che partoriscono animali2, non c’è da meravigliarsi se la scoperta di una botanica le cui leggi sembrano estranee a tutte le leggi naturali conosciute abbia indotto a descrizioni che non sempre riflettono con fedeltà obiettiva la realtà delle nuove piante.
«Che dire» osserva Romeo Tassinelli «di piante che affondano le proprie radici anziché nelle zolle familiari della nostra terra, in un humus onirico, lontanissimo, traendone per la propria esistenzialità succhi eterei immisurabili? Le piante di questo regno sembrano essere estranee al gioco ordinato della selezione naturale e della sopravvivenza della specie. Sfuggono alle tecniche più provate e sicure della metodologia sperimentale e rifiutano i più elementari sistemi di osservazione diretta. La loro etiologia, la loro stessa esistenzialità non sono normalmente collocabili sul nostro pianeta. In fondo» conclude «non si dovrebbe parlare di un regno ma di un’anarchia vegetale»3.
Era chiaro che l’inserimento nella classificazione linneana di piante probabili, tutt’al più possibili, ma comunque estranee alla nostra conosciuta realtà, avrebbe presentato difficoltà insormontabili. Fu Franco Russoli a coniare l’espressione “botanica parallela”, allo stesso tempo nominando e definendo non si sa bene se una scienza o l’insieme degli organismi che ne sono l’oggetto. Ma a volte le parole hanno una saggezza che eccede la loro densità semantica.
Per le sue implicazioni di irrimediabile estraneità, la parola “parallela” liberò gli scienziati dall’incubo di veder sconvolta la tassonomia tradizionale e con essa le fondamenta stesse di tutta la metodologia scientifica moderna. Per quanto abbia ragione il Wolotow quando osserva che, se di due scienze una è parallela, lo è per definizione anche l’altra, pensiamo che la vaporosa ambiguità della parola non può riferirsi che a un regno che esiste fuori dai confini certi della nostra conoscenza. «Avvertiti del suo parallelismo» dice Remo Gavazzi «non ci resta che spostare l’angolo della nostra visione, provocando così nuove direzioni d’indagine e, forse, nuovi strumenti per vedere, comprendere e far nostra una realtà che fino a ieri ci poteva sembrare ostile»4.
Ogni scoperta, anche minore, comporta una ridefinizione di tutto quello che fino a ieri avevamo comodamente accettato come l’unica possibile misura del reale. E così anche la scoperta di questa botanica desueta e inquietante era destinata a sconvolgere l’illusoria integrità delle nostre previe nozioni di realtà e di irrealtà. «Tanto più» dice Dulieu «che è proprio da queste nozioni che le sue piante, misteriosamente estraniate dalle vicende di crescita e di decadimento che si contendono il dominio della biosfera, sembrano trarre i loro succhi vitali per emergere – perennemente immuni, di là dalle normali percezioni e dagli abituali accostamenti mnemonici – in una razionalità autre, ambigua, perversa, da noi inafferrabile. Inafferrabile per la consacrata nozione di realtà che con tanta ostinazione si tiene avvinghiata, come un’edera velenosa, alla nostra logica».
Jacques Dulieu, direttore del Centro di Studi Biologici di Bovences, e redattore della rivista “La Pensée”, deve la sua reputazione internazionale tanto ai suoi famosi esperimenti sul linguaggio vibratorio ed echeggiante degli organismi che vivono nei fondali marini quanto alla sua attenta e originalissima analisi critica di Descartes. Forse fu questa sua duplice vocazione di biologo e di filosofo che lo indusse a occuparsi seriamente e intensamente della nuova botanica.
Contestando le nozioni, ritenute sicure e fondamentali, che dall’Illuminismo in poi erano state le premesse di tutto il nostro operato scientifico, Dulieu raccontò, in una storica intervista per France-Inter, le strane vicende che condussero alla sua crisi intellettuale, alla sua polemica rivalutazione di tutti gli antichi significati e alla formulazione di una nuova metodologia di ricerca per lo studio di fenomeni che la scienza ufficiale rifiutava di riconoscere come realmente esistenti.
La sua drammatica testimonianza volle essere la risposta a quanti negli ambienti intellettuali francesi si domandavano come mai un biologo della sua statura si fosse azzardato, con tanta dichiarata ostinazione, a esplorare nuove traiettorie apparentemente esoteriche, piene d’insidie e dalle mete inevitabilmente precarie, quando la sua reputazione di ricercatore estroso ma prudente sembrava presagirgli un posto sicuro e luminoso nel firmamento delle scienze.
Nella sua intervista alla radio francese Dulieu ricordò che nei primi anni del dopoguerra egli aveva lavorato nel Laboratorio di Biologia Botanica all’Università di Hananpur, nel Bengala, dove aveva avuto occasione di conoscere Hamished Baribhai, noto studioso, oltre che di botanica medicinale, di letteratura sanscrita e in particolar modo dei testi vedici. Quando Dulieu lo conobbe, Baribhai si vantava di aver compiuto da pochi giorni i novant’anni; ma la sua agilità mentale e fisica non aveva nulla da invidiare a quella del giovane ricercatore francese, allora uno dei più promettenti della Sorbonne. I due s’incontravano spesso in un ashram che si trova su un’altura nei pressi del grande tempio dedicato al dio scimmia Hanuman5.
«Un tardo pomeriggio, all’inizio del lungo tramonto, quando la città sembra velarsi di uno smog rossastro il cui odore acre di sterco bruciato giunge fin sulla collina, Hamished Baribhai mi disse: “Tu parli sempre del reale e dell’irreale. Se mi prometti la tua discrezione ti farò vedere un nuovo esperimento. Vieni con me”. Camminammo per mezz’ora nella direzione del fiume Amshipat, finché giungemmo al limite di un bosco di gensane. Là si trovava una capanna di argilla tutta imbiancata di fresco. La porta era chiusa con un lucchetto. Baribhai estrasse dalla sua borsetta un mazzo di chiavi e aprì la porta. “Ecco la tua realtà” disse con un sorriso ironico. Fui costernato da quel che vidi. Nella semioscurità della capanna vi erano due grandi gibboni bianchi. Uno era sdraiato per terra sopra un mucchio di paglia. Sembrava morto; non si mosse per la nostra presenza. L’altro, invece, pur non spostandosi da dove era, cominciò a dondolarsi nervosamente sulle zampe, a mostrare i denti e a emettere piccole grida stridule. “È morta?” chiesi, indicando la scimmia sdraiata, sempre immobile. “Se è morta, lo è anche l’altra” rispose Baribhai. E poi aggiunse, scandendo lentamente le parole: “È una scimmia sola”. Abituato oramai alle boutade polemiche del vecchio, non reagii all’assurda risposta. “Che ci stanno a fare qui, quei due?” chiesi di nuovo scherzando. Ma Baribhai era uscito dalla capanna. Lo seguii per vedere che cosa mai era andato a fare. Benché le scimmie fossero legate a lunghe catene, per prudenza accostai la porta.
«Accanto alla capanna c’era un orticello lungo e stretto, non più grande di un campo di bocce, tutto cintato da una rete di ferro alta come un uomo e bordato da un groviglio di filo spinato. Mi venne in mente l’immagine di un campo di concentramento per nani. All’interno vi erano tre file di piante, alte mezzo metro, tutte perfettamente uguali. A prima vista sembravano pomodori, ma le foglie erano molto regolari di forma e piuttosto gonfie, come quelle di certe crassule. Baribhai estrasse di nuovo le chiavi dalla saccoccia e aprì il cancello. Entrò, e con grande cura staccò tre foglie da una delle piante. Poi uscì, chiuse il cancello, fece scattare il lucchetto e mi mostrò le foglie. “Vuoi vedere la realtà? Vieni con me e guarda bene”.
«Rientrammo nella capanna. La scimmia sdraiata non si era mossa, ma l’altra, alla vista delle foglie si mise in grande agitazione. Un po’ spaventato, senza saper bene perché, mi tenni vicino alla porta. Baribhai tese le foglie alla scimmia. Questa gliele strappò di mano con un gesto fulmineo, poi si appoggiò contro il muro, seduta come un peone messicano, e si mise a mangiarsele con evidente golosità. Ma ecco che a poco a poco, mentre mangiava, i suoi frenetici movimenti si fecero più lenti, gli occhietti, che prima avevano seguito ogni nostro movimento con tanta vivacità, si chiusero, e quando aveva finito la terza foglia scivolò giù lungo la parete per restare supina per terra, come svenuta. Ma nel momento esatto che cadde lì, immobilizzata, l’altra scimmia ebbe come un fremito, aprì gli occhi, emise un lungo gemito e si drizzò sulle gambe, lanciando attorno uno sguardo sospettoso e aggressivo. Dapprima non riuscii ad afferrare il senso di quello che stava succedendo, ma poi a un tratto mi ricordai la frase di Baribhai: “È una scimmia sola”. “Ecco la tua realtà” ripeté per la terza volta il vecchio scienziato. “Andiamo”».
All’intervistatore di France-Inter, che non poté nascondere la sua incredulità, Jacques Dulieu confessò: «Mi reggevo a malapena sulle gambe. Uscimmo. Baribhai chiuse la porta e il lucchetto. Io dovetti sedermi su una delle due cassette che erano poggiate contro il muro della capanna. Baribhai si sedette sull’altra e per un po’ non si sentì che uno sporadico rumore di catene. “Che cosa significa?” chiesi finalmente con un fil di voce. “Andiamo” disse Baribhai, come se non avesse sentito la mia domanda. “Andiamo, prima che si faccia buio”. Ci incamminammo verso l’ashram. Il cielo oramai era infuocato e qua e là nella pianura sottostante fremevano le prime fiammelle. E Baribhai parlò.
«“Mio giovane amico” disse “tu mi hai chiesto che cosa significa. Ebbene, se io potessi risponderti sarei Krishna, Shiva, e Vishnu in uno. Dieci anni fa mi trovavo a Damshapur, nello stato di Orissa, dove un collega mi raccontò delle strane proprietà di una pianta, l’Antala ichsinensis6 (TAV II) che cresce sui pendii del monte Tanduba. I pastori che in quella regione fanno pascolare le loro caprette nere ne colgono le foglie per masticarle. Un giorno chiesi a uno di essi: ‘Perché mastichi quella foglia?’. Egli mi rispose: ‘Perché quando chiudo gli occhi mi sembra di diventare uno specchio; e dentro lo specchio vedo me stesso, rovesciato’. Allora provai anch’io e dopo pochi minuti mi vidi seduto davanti a me stesso come un vecchio amico che era venuto a farmi visita.
«“Dalle ricerche che feci in seguito scoprii che le foglie dell’Antala contengono una sostanza paragonabile alla mescalina, la Metexcalina H. B. Coltivai le piante nel giardino del mio laboratorio, sperimentai con vari innesti di altre piante allucinogene come la Kalypta onirica, e riuscii, dopo molti tentativi, a incrementare e variare gli effetti psichedelici delle foglie. Le piante che hai visto nell’orto vicino alla capanna rappresentano dieci stagioni d’innesti sperimentali, dieci anni di ricerca, e ora sono riuscito a provocare una forma di allucinazione che chiamo ‘parageminazione’. Si manifesta come la sensazione, anzi la certezza, dello sdoppiamento fisico del proprio corpo, mentre la coscienza rimane una sola, intera, relativamente inalterata. Qualche mese fa la provai e ne ebbi una tale paura che decisi di sperimentare soltanto con le scimmie. Si diventa due corpi con una sola coscienza, che si sposta, a seconda delle particolari circostanze, dall’uno all’altro, come un’altalena. Quando un corpo è ‘abitato’ dalla coscienza, l’altro rimane inerte, apparentemente privo di vita. Ma quel che è straordinario e sconvolgente non è l’allucinazione, per strana che sia, ma il fatto che essa sia oggettivamente percepibile da altri. Le ipotesi sono infinite e di fronte a un fenomeno così nuovo e bizzarro potrebbero sembrare tutte valide. Forse le foglie mangiate dalla scimmia emanano effetti allucinogeni secondari in un’area circostante, coinvolgendo anche noi. In quel caso il doppio inerte potrebbe essere una nostra illusione. Forse siamo noi, in certe condizioni, l’oggetto di un’allucinazione della scimmia così come, secondo il Daharna, gli esseri viventi sono i personaggi di un sogno di Krishna. E chissà, forse il fenomeno deve essere annoverato nell’ordine delle nostre abituali realtà, come una nuova, desueta combinazione di esperienze. In fondo” aggiunse il vecchio indiano soprappensiero “la parageminazione è un fenomeno abbastanza banale. Quel che è importante è scoprire sperimentalmente l’esistenza di nuove tangibili categorie di realtà”».
La testimonianza di Dulieu può sembrare irrilevante, sproporzionata, forse estranea agli scopi che ci eravamo prefissi con questo scritto.
L’abbiamo riferita per esteso perché ci pare che essa indichi, seppure in maniera obliqua, le nostre possibilità di sfuggire alle millenarie costrizioni della logica. E soprattutto perché il grande biologo francese, con generosa disponibilità a nuove esperienze, si è dedicato quasi esclusivamente allo studio della botanica parallela, contribuendo in maniera decisiva alla definizione delle basi teoriche della nuova scienza.
Nella sua opera Un autre jardin7, Dulieu si chiede anzitutto: che cosa distingue le piante parallele da quelle cosiddette reali della botanica normale? Per lo scienziato francese si tratta chiaramente di due livelli, o forse addirittura di due qualità del reale: uno di qua e l’altro di là dalla siepe. «Di qua» scrive «nel giardino di tutti i giorni, si ergono tangibili e visibili il rosmarino, il ginepro, la felce, il platano. Per queste piante che hanno con noi un illusorio rapporto di dare e avere, che non ne altera in nulla l’esistenzialità, non siamo che un caso, un incidente, e la nostra presenza, per noi così solida e così pesantemente sentita, non è per loro che un momentaneo vuoto che si sposta nell’aria. La realtà è una qualità che gli appartiene e sulla quale non possiamo esercitare alcun diritto.
«Di là dalla siepe, invece, la realtà è nostra: è condizione assoluta di ogni esistenza. Le piante che vi crescono sono vere perché le vogliamo tali. Se le ritroviamo nella nostra memoria intatte, identiche al primo incontro, è perché le abbiamo vestite con l’immagine che abbiamo di esse, con la pelle opaca della nostra conferma. Le piante che crescono in quel giardino non sono né più reali né meno reali di quelle altre che si piegano al vento della ragione. La loro realtà, da noi assegnata, è semplicemente un’altra».
Che le piante parallele esistano nel contesto di una realtà che non è certo quella “di tutti i giorni” è ovvio al primo sguardo. Benché da lontano la loro appariscente botanicità possa trarci in inganno e farci credere di aver a che fare con uno dei tanti estri della nostra flora, ci accorgiamo ben presto che le piante che abbiamo dinanzi devono appartenere a un altro regno. Isolate in un vuoto immaginario, sembrano sfidare, ferme, indeperibili, il vortice ecologico che le circonda. Quello che infatti maggiormente ci colpisce in esse è l’assenza di una tangibile, familiare sostanza. Questa “amatericità” delle piante parallele è un fenomeno del tutto particolare; quello, forse, che più profondamente le distingue da quelle comuni che gli stanno attorno.
Il termine “amatericità”, coniato da Koolemans, e usato tanto da Dulieu che da Fürhaus, non è forse dei più felici, suggerendo, come fa, il concetto di invisibilità che – a parte certe anomale situazioni – non è generalmente applicabile alla botanica parallela.
“Paramatericità” sarebbe forse una parola più corretta per descrivere la corposità di piante che, semmai, sono caratterizzate da una presenza assai solida, a volte anche troppo invadente e che le rende oggettivamente percettibili al pari di tutte le altre cose della natura, anche se la loro sostanza sfugge a ogni analisi chimica e a ogni conosciuta legge della fisica.
Ma “amatericità” bene evoca quell’apparente assenza di strutture verificabili a livello cellulare e molecolare che accomuna tutte le piante parallele, qualità alla quale ogni singola specie e varietà ne aggiungerà poi altre, più difficilmente definibili e spesso assai più sconcertanti, ma sempre attribuibili a una sostanza abnorme che rifiuta le più elementari costrizioni gravitazionali.
Vi sono piante che appaiono chiaramente in immagini fotografiche, ma che l’occhio umano non può percepire. Ve ne sono che rifiutano le comuni norme della prospettiva mantenendo inalterata la loro grandezza, nonostante la distanza che le separa da noi. Altre, incolori, che in determinate condizioni rivelano un gioco cromatico di rara bellezza. E altre ancora le cui foglie, attraverso gli irrisolubili labirinti delle venature, hanno provocato l’estinzione di un insetto vorace che un tempo minacciava la vegetazione di un intero continente.
La botanica parallela divide le sue piante in due gruppi. Ma, in effetti, la distinzione non indica, come avviene per le piante comuni che sono divise gerarchicamente in inferiori e superiori, due livelli evolutivi, bensì due modi diversi in cui le piante sono da noi percepite. Quelle del primo gruppo sono direttamente percepibili dai nostri sensi e strumenti, mentre quelle del secondo, assai più misteriose ed elusive, non giungono alla nostra conoscenza che indirettamente, attraverso immagini, parole o altri segni simbolici.
Il primo gruppo è certamente il più numeroso e comprende le specie più diffuse. Come osserva Dulieu, le sue piante sono “le più parallele”. Immobili nel tempo, dal momento della strana mutazione che fece scattare la loro metamorfosi, condividono, alcune da millenni, le contingenze meschine del mondo reale. Ma mentre tutt’intorno le piante crescono, si moltiplicano e si disintegrano nell’humus, esse conservano intatta come una immagine la loro identità formale.
Se oggi siamo in grado di percepirle, se le possiamo osservare, misurare, studiare, ciò avviene nonostante l’inquietante assenza di una loro riconoscibile sostanza. Questa “amatericità”, alla quale abbiamo già accennato, sarebbe la conseguenza di un improvviso arresto nel tempo, che per cause non ancora identificate sembra aver colpito, in vari momenti della storia vegetale, particolari specie di piante.
Mentre altre piante oggi estinte si sono disintegrate, lasciandoci come testimonianza della loro vita sulla Terra tutt’al più qualche impronta fossile o una scorza pietrificata, le piante parallele sono, come ha scritto lo Spinder, «fossili di se stesse»8. Né vive, né morte, condizioni che implicherebbero entrambe un normale scorrere del tempo, esse sono, dopo una millenaria immobilità, ancora se stesse, integre nella loro illusoria corposità. È come se fossero state improvvisamente strappate dal tempo, vuotate di materia e significato e consegnate a un altro ordine esistenziale. Quasi fossero la pesante concrezione di un ricordo, non hanno conservato di se stesse che le apparenze esteriori, una tridimensionalità visibile ma priva di sostanza.
Tratto da: Leo Lionni, La botanica parallela, Roma 2012. Prima edizione 1976