Chi sta uccidendo la città storica? Chi la circonda di periferie senz’anima, chi sventra palazzi storici per lottizzarne gli spazi, chi mortifica le cattedrali con arroganti grattacieli, chi propugna “piani casa” per sopraelevare i caseggiati con incongrue escrescenze? Sono i titolari della politica, certo; sono costruttori e speculatori edilizi, sono mafie che investono “nel mattone” le loro enormi liquidità; sono cittadini comuni, pronti a cogliere ogni occasione per perseguire il proprio tornaconto. Ma sono, anche, architetti e ingegneri e geometri e urbanisti, che per cinica inclinazione o per ignoranza, per denaro o per acquiescenza a un committente o a un politicante, sono autori o complici del saccheggio delle città storiche e dei paesaggi. È per loro opera che crescono senza regole i suburbi, che città e campagne si popolano di architetture di sopraffazione, che viene devastata la memoria culturale e depotenziato il futuro delle collettività. Eppure, ogni critica è messa a tacere mediante il ricatto di “grandi firme” di architetti-icona o altri artifizi retorici, dall’elogio della modernità e del grattacielo alla proclamazione delle qualità estetiche di ogni possibile operazione immobiliare.
La creatività dell’architetto-artista viene rivendicata anche quando opera a spese delle regole, dei contesti, della sorte di chi vivrà e lavorerà nei nuovi edifici. Come ha scritto Robert Venturi, «l’architettura moderna è intollerante, gli architetti preferiscono alterare i contesti esistenti anziché potenziarli» (Learning from Las Vegas, 1972): ma l’architetto che snatura irreversibilmente i contesti lo fa di regola per conto terzi, mettendosi al servizio di chi paga in denaro (il committente) o in favori (la politica). Le virtú estetiche delle architetture, vantate dagli stessi progettisti e dai critici, mascherano il cinismo delle operazioni finanziarie e immobiliari che le hanno innescate. La legittimazione estetica de-responsabilizza l’architetto e vale come alibi per i suoi committenti: è il «fenomeno della copertura professionale» di operazioni speculative ad opera di grandi architetti, bollato da Giancarlo De Carlo.
Ma davvero l’architetto opera in un empireo dominato dalla sola ragione estetica e senza alcun rapporto con la società, la cittadinanza, la memoria culturale? È vero il contrario: il suo mestiere ha un forte e capillare impatto sulla vita di tutti attraverso le modificazioni dell’ambiente urbano e del paesaggio, cioè delle condizioni prime non solo della vita quotidiana dei cittadini e delle comunità, ma anche delle dinamiche della società civile. Dobbiamo dunque chiederci: nel mestiere dell’architetto esiste un’etica professionale? Un architetto deve solo obbedire alle richieste del suo committente, oppure, quando progetta e costruisce un edificio o trasforma un paesaggio o una città, deve avere in mente un piú ampio orizzonte? Deve impostare il proprio lavoro tenendo conto del contesto storico, naturale, ambientale in cui opera, o può prescinderne piú o meno totalmente? Progettando un edificio a Venezia, per esempio, deve tener conto del suo tessuto urbano e della sua storia, o concepirlo invece come qualcosa che, calando da un altro pianeta, possa inserirsi indifferentemente a Venezia, a Chongqing, a Dubai?
L’urgenza di questo tema è stata ben colta da Rem Koolhaas, che introducendo il catalogo della Biennale di architettura 2014, da lui curata, cosi scrive: l’economia di mercato ha corroso la dimensione morale dell’architettura […] costretta a muoversi entro il sistema neoliberista di cui Ronald Reagan è stato il proto architetto.
Less Aesthetics, More Ethics era stato, a dire il vero, il titolo-bandiera di un’altra Biennale, quella del 2000; ma il curatore Massimiliano Fuksas dichiarava in catalogo che è sconsigliabile cercare per questo titolo qualsiasi significato etimologico o filologico, nè bisogna spendere mesi a discutere se è l’estetica che include l’etica o viceversa. Spero sinceramente che a nessuno venga in mente la brillante idea di rispolverare le tre teorie di Kant. La vera risposta è nella novantina di installazioni della Biennale. Abbiamo posto il problema, e credo che molte delle opere esposte ci diano le risposte che cerchiamo. Ma stiamo parlando di un laboratorio di idee, ed è troppo presto per trarne qualsiasi conclusione. Questa mostra significa solo l’inizio di un processo, di un investimento nel futuro.
Parole sfuggenti ed elusive, come ha notato Neil Leach (in Architecture and its Ethical Dilemmas, ed. N. Ray, 2005). L’estetizzazione dell’architettura, scrive Leach, comporta
la rimozione di ogni preoccupazione sociale, economica e politica […] una specie di “drenaggio” di queste dimensioni disturbanti […] È un’estetizzazione che induce una sorta di intorpidimento, e riduce perfino il dolore al livello di un’immagine seducente: in questo processo, i contenuti politici e sociali possono essere fagocitati, diluiti e negati. La seduzione dell’immagine opera contro qualsiasi senso, anche implicito, di impegno sociale. Gli architetti, a quel che pare, sono particolarmente inclini a un’estetica che trasforma in feticcio l’immagine esteriore ed effimera. Il mondo viene cosí estetizzato, ma anche anestetizzato. In un orizzonte di immagini elettrizzanti, l’estetica dell’architettura minaccia di diventare l’anestesia dell’architettura.
L’estetizzazione dell’architettura uccide l’etica perché, usata per legittimare operazioni immobiliari, è diventata essa stessa un meccanismo di mercato, e in nome del profitto chiude gli occhi davanti a temi di cui nessuna morale può fare a meno: la socialità, la giustizia, il diritto alla città. Eppure, scrive Anthony Vidler,
non c’è mai stato un momento piú propizio di questo per rivisitare il tema delle responsabilità morali dell’architettura; e tuttavia l’abisso fra i discorsi specialistici sulla pianificazione urbana e le politiche dell’architettura e la comunità dei cittadini non è mai stato tanto grande.
La risposta non va cercata nelle teorie di filosofi e antropologi, ma nell’autocoscienza degli architetti e nella loro pratica professionale. Negli ultimi anni, l’italiana Lina Bo Bardi, laureata in architettura a Roma nel 1939 ma attiva in Brasile dal 1946 alla morte (1992), è diventata simbolo di questa consapevolezza, tanto piú necessaria quanto piú rara (Z. de A. Lima, Lina Bo Bardi, 2013). Decisa a battersi in favore di una «coscienza collettiva dell’architettura» in cui la libertà dell’architetto «è soprattutto un problema sociale, che va visto dall’interno delle strutture politiche, e non dall’esterno», Lina Bo Bardi criticava duramente la deriva estetizzante di Oscar Niemeyer:
L’architettura può essere soffocata dalle forme, dalle composizioni, dall’aura di monumentalità […] Chi progetta nel proprio studio sfogliando riviste di architettura senza pensare [alla comunità a cui gli edifici sono destinati] creerà solo edifici e città astratte. [Gli architetti] devono mettere al primo posto non il proprio individualismo formalizzante, ma la propria consapevolezza di volersi rendere utili alla gente mettendo al loro servizio la propria arte ed esperienza. […] Questo è il vero significato dell’architettura oggi. Non è forse, l’architetto moderno, costruttore di città, quartieri e case, un combattente attivo nel campo della giustizia sociale? Non deve forse alimentare in sé il dubbio morale, la coscienza dell’ingiustizia umana, un sentimento acuto di responsabilità collettiva, e di conseguenza il desiderio di lottare per conseguire un fine positivo, moralmente positivo? (arquitetura ou Arquitetura, in «Crônicas de arte, de história, de costume, de cultura da vida», 1958).
Per lei, l’architettura dominata dall’estetica deve cedere il passo a un’Architettura con la A maiuscola, informata da preoccupazioni etiche, sociali, politiche; e in essa il lavoro dell’architetto va vissuto come un dovere civico che comporta forti responsabilità morali. Negli scritti e negli edifici di Lina Bo Bardi
l’architettura esercita un effetto vivificante e unificante, quale è possibile soltanto quando la necessità di una vita sociale migliore è genuinamente importante per l’immaginazione dell’architetto (M. Filler, in «New York Review of Books», 22 maggio 2014).
Il profilo etico, o deontologico, delle professioni non è in prima linea nella nostra epoca attenta quasi solo al cartellino del prezzo. Inoltre, in alcune professioni questo profilo è stato sempre piú marcato ed esplicito che in altre. Forse il caso piú chiaro è quello della professione medica, e del connesso Giuramento di Ippocrate. Il suo testo, attribuito allo stesso Ippocrate, si può datare intorno al 400 a. C.; la sua fortuna in età moderna comincia con le scuole mediche del Cinquecento, fu rilanciata in Francia dopo la Rivoluzione, poi riaffermata con la dichiarazione di Ginevra della World Medical Association (1948). Il giuramento è ancora in uso in alcuni Paesi: in Gran Bretagna, per esempio, una versione aggiornata è stata lanciata dalla British Medical Association nel 1996. Ne esistono varie redazioni, non solo in greco, ma in latino e in tutte le lingue europee; tuttavia, alcuni punti chiave restano costanti, in particolare il solenne giuramento del medico:
Regolerò ogni prescrizione per il giovamento dei malati secondo le mie possibilità e il mio giudizio; e giuro che mi asterrò dal recar loro qualsiasi danno e offesa […] In qualsiasi casa io entri, giuro che vi entrerò solo per il bene dei malati, astenendomi da ogni offesa volontaria e da ogni abuso.
Sarebbe facile trasferire, per analogia o per metafora, gli stessi principî al mestiere dell’architetto, poiché il paesaggio e la città sono la materializzazione del corpo sociale. Ma si può tentare un passo avanti partendo da Vitruvio, un architetto dell’età di Augusto che è per noi molto importante non perché si conoscano gli edifici che pur dovette costruire, ma per via del suo trattato De architectura, una vasta opera in dieci libri che ha avuto enorme importanza nella tradizione europea, a partire almeno da Leon Battista Alberti e dall’edizione di Daniele Barbaro con disegni di Andrea Palladio (1556).
All’inizio del primo libro, Vitruvio delinea la figura dell’architetto ideale indicandone le caratteristiche salienti:
La scienza dell’architetto richiede l’apporto di molte discipline e di conoscenze relative a svariati campi. Egli dev’essere in grado di giudicare i prodotti di ogni altra arte. La sua competenza nasce da due componenti: quella pratica, che è la costruzione [ fabrica], e quella teorica [ratiocinatio]. La fabrica consiste nell’esercizio continuato e ripetuto dell’esperienza costruttiva, che si concreta quando l’architetto di sua propria mano, sulla base di un disegno progettuale, realizza l’edificio desiderato. La ratiocinatio consiste nella capacità di esporre e spiegare gli edifici, una volta costruiti con debita diligenza, secondo computi matematici e proporzionali. Perciò gli architetti che costruiscono senza una cultura adeguata non hanno un esito corrispondente al loro sforzo; mentre quelli che si impegnano sulla sola teoria inseguono un’ombra, e non la realtà. Solo chi padroneggia sia la pratica che la teoria è dotato di tutte le armi necessarie e può conseguire pieno successo […] L’architetto deve dunque avere ingegno naturale ma anche sapersi sottoporre alle regole dell’arte […] Deve avere cultura letteraria, essere esperto nel disegno, preparato in geometria e ricco di cognizioni storiche; deve avere nozioni di filosofia e di musica, saper qualcosa di medicina e di diritto, ma anche di astronomia e astrologia.
Per ciascuna delle virtú intellettuali (e delle competenze) del suo architetto ideale, Vitruvio dà poi un’articolata motivazione. Per esempio, insiste, occorrono all’architetto nozioni di ottica onde poter «determinare la distribuzione della luce negli edifici calcolandone l’esposizione ai diversi punti cardinali»; le nozioni mediche gli servono per studiare il clima e fare in modo che le abitazioni siano salubri; mentre la filosofia deve insegnare all’architetto a essere «generoso e non arrogante, leale e non avido di denaro, moralmente integro e attento alla propria reputazione». È mai possibile a un uomo solo accumulare tante cognizioni? Sí, risponde Vitruvio, perché tutti i campi del sapere sono fra loro connessi; ma solo a patto che l’architetto venga educato in tutte le discipline necessarie al suo mestiere. La formazione dell’architetto è dunque funzionale alla qualità del suo lavoro, nonché alla deontologia propria del suo mestiere.
Potremmo prendere, uno per uno, i requisiti dell’architetto elencati e argomentati da Vitruvio, e costruirne un “giuramento di Vitruvio”, facendone il perfetto equivalente del giuramento di Ippocrate. Se chiunque costruisce oggi in Italia avesse fatto un simile giuramento e vi tenesse fede, nessuno avrebbe osato mai edificare numerosissime abitazioni a un passo dalle piú velenose discariche di Campania: poiché conoscerebbe «le proprietà dell’aria e dei luoghi, che possono essere salubri o malsani», e si sentirebbe moralmente impegnato a costruire solo «abitazioni salubri». Se gli architetti sapessero qualcosa di diritto, si preoccuperebbero molto piú spesso di rispettare la legalità. Se chi costruisce a Venezia sapesse unire fabrica e ratiocinatio (esperienza costruttiva e riflessione teorica), nessun intervento prescinderebbe mai dalle condizioni fisiche e dalle pratiche edificatorie di quella città.
In un “giuramento di Vitruvio” vi sarebbe molto bisogno di un ingrediente della formazione dell’architetto a cui Vitruvio dava grande importanza: la storia. L’architetto di Vitruvio, infatti «è opportuno che conosca molti racconti storici». Il curriculum formativo, al tempo di Vitruvio, non comprendeva un insegnamento formale di storia, e perciò egli si riferisce, al plurale, alle “storie” che l’architetto deve conoscere. Ma ha senso, oggi, che un architetto conosca la storia, anzi quale storia (o quali “storie”) deve conoscere? La World Medical Association continua ad aggiornare il giuramento di Ippocrate (ad esempio, cancellandone il divieto di aborto), e in tal modo ne riafferma implicitamente la perenne attualità: analogamente, anche noi dovremmo chiederci quali delle qualità che Vitruvio chiedeva all’architetto siano ancora attuali. L’astrologia certo non lo è piú. Ma la storia è ancora fra queste? Nelle scuole di architettura, lo è sempre meno; e sempre meno lo è la storia dell’arte, e perfino la storia dell’architettura: quasi che la memoria storica del nostro passato sia un peso gravoso di cui liberarsi per vivere uno smemorato presente. La stagione postmoderna ci ha lasciato una pesante eredità: ha fatto degli stili architettonici del passato un immobile repertorio di equivalenze, un vocabolario di elementi staccati, un campionario da supermercato per corrispondenza, da cui prelevare ad arbitrio frammenti lessicali da usare come citazioni.
Si è venuto imponendo dappertutto, anche nelle scuole di architettura, un riduttivo presentismo che in nome della globalizzazione (nello spazio) restringe e immiserisce il nostro orizzonte (nel tempo). Lo aveva lucidamente previsto già nel 1944 T. S. Eliot:
Nel nostro tempo, quando gli uomini sembrano piú inclini che mai a confondere la saggezza con la conoscenza e la conoscenza con l’informazione, sta prendendo forma un nuovo tipo di provincialismo, che forse merita un nuovo nome. È il provincialismo non dello spazio, ma del tempo. Per esso la storia è solo cronaca di invenzioni umane che dopo aver reso un qualche servizio vanno cestinate. Per esso il mondo appartiene solo ai viventi, e chi è morto non conta nulla. È un provincialismo minaccioso: spinge tutti i popoli del globo a essere provinciali insieme, e a chi non vuole esserlo non resta che fare l’eremita.
“Presentismo”, una parola usata specialmente in Francia, è il “nuovo nome” preconizzato da Eliot per questo nuovo provincialismo oggi imperante. Ma lo studio della storia serve da antidoto al presentismo? Davvero può essere utile a un architetto? Secondo un detto molto abusato, «la storia è maestra della vita». Ma proviamo a capovolgerlo, quel detto: proviamo a dire che, al contrario, la vita è maestra della storia (Gaetano De Sanctis, 1916). Sono, infatti, le urgenze del presente che ci spingono a rileggere le vicende del passato non come mero accumulo di dati eruditi, non come polveroso archivio, ma come memoria vivente e critica delle comunità umane. Solo cosí la consapevolezza del passato può farsi lievito per il presente, serbatoio di energie e di idee per costruire il futuro. L’architetto non “fa storia” per mestiere, ma il suo mestiere è vuoto e miserevole senza la storia: perché la storia, cioè la consapevolezza della memoria culturale collettiva, è fondamento della responsabilità. Per converso, chi pone l’estetica delle forme in luogo della storia propugna un’architettura irresponsabile (verso la società) e servile (verso la committenza).
La storia di cui l’architetto ha bisogno non è solo Vitruvio, Palladio, Wright. Dev’essere anche la storia recente del Paese e della città dove ogni architetto intende operare. In Italia, l’architetto deve sapere che, a fronte di un altissimo statuto costituzionale della tutela dei paesaggi e del patrimonio artistico e di una normativa di settore assai complessa, la storia recente dimostra un enorme «divario fra le salvaguardie cartacee e l’operare concreto» (Federico Caffè). A Venezia, nessun architetto può ignorare che la città si sta svuotando, rischia di diventare un theme park punteggiato di seconde e terze case, perde non solo abitanti ma energie creative, vita sociale, ricchezza culturale, si umilia a scenario per veloci apparizioni di turisti frettolosi. E dunque nessun architetto dovrebbe mai prestarsi a costruire nulla – non un ponte, non un terrazzo, non una finestra – che favorisca la morte della città storica negandone l’unicità.
Ma è necessario sgombrare il campo da un pesante equivoco. Chi difende Venezia e le altre città storiche non pretende di ibernarle in una condizione perpetuamente uguale, e meno che mai di respingerle nel falso paradiso di una nostalgia del passato. Chiede, al contrario, di considerare la città e le sue architetture come la viva proiezione della cittadinanza, delle donne e degli uomini che vivono a Venezia o che vorrebbero viverci, ma sono obbligati a fuggirne. Chiede di considerare il corpo fisico della città insieme con la sua anima, di pensarne la tessitura insieme con la carne e il sangue dei suoi cittadini; di considerare l’architettura come un aspetto essenziale del diritto alla città, di cui siano parte essenziale la funzione sociale della proprietà e il diritto al lavoro dei cittadini. Ma del diritto alla città deve far parte anche l’inventiva dell’architetto, la sua abilità di restituire all’uso (o al riuso) gli spazi storici, o di potenziarli con nuove architetture conformi al codice genetico della città. Se non altro, perché una Venezia senza spessore storico non avrebbe mai ispirato Manhattan.
Sir Isaiah Berlin amava citare in tedesco l’aforisma Menschen sind meine Landschaft, “il mio paesaggio sono gli uomini”. Lo sono, a maggior ragione, le città: un paesaggio di cittadini e per i cittadini, e non il passivo teatro della rendita fondiaria e delle speculazioni edilizie. Gli architetti devono contribuire a fare delle città e dei paesaggi lo specchio della democrazia, l’incarnazione dei principî della vita civile, la proiezione del desiderio di “viver bene” la nostra vita presente, ma anche dell’imperativo etico di lasciare alle generazioni future un ambiente e una trama di città che siano degni di quel che noi abbiamo ereditato. All’architetto dobbiamo chiedere di stipulare un nuovo patto con la società, di prestare un nuovo “giuramento” di fedeltà ai principî, di sviluppare una autocoscienza che contribuisca alla trama della vita civile interpretando le esigenze di giustizia e di equità che vengono dalla società. In Italia, facendo propri i principî del bene comune che intridono la Carta costituzionale.
Il “giuramento di Vitruvio” non ha nulla di passatista, anzi è solidamente fondato sul presente e orientato al futuro. Per esempio, la forte ingiunzione di Vitruvio, che agli architetti del suo tempo richiedeva cognizioni di medicina perché garantissero la salubrità delle abitazioni, trova un’eco nella Costituzione italiana, dove la tutela del paesaggio (art. 9) è in forte relazione con il diritto alla salute come «interesse della collettività» (art. 32). Sulla base della convergenza tra questi due articoli la tutela dell’ambiente è (lo ha stabilito la Corte Costituzionale) un «valore costituzionale primario e assoluto» in quanto espressione di un interesse diffuso dei cittadini. Questo nesso fra medicina e architettura, in linea con la piú avanzata cultura ambientalistica e con le battaglie per il diritto alla città e il bene comune, ha radici etiche prima che estetiche. Alla città (e al paesaggio) “da guardare” esige di sostituire una città (e un paesaggio) “da vivere”: la salubrità raccomandata da Vitruvio, prescritta dalla Costituzione italiana, rivendicata dai movimenti ambientalisti in tutto il mondo, dev’essere la salute del corpo e quella dell’anima, la salute dell’individuo e quella della comunità dei cittadini.
Delicata e preziosa, moribonda secondo alcuni, bisognosa di “modernizzarsi” secondo altri, Venezia è oggi come non mai un luogo di contraddizioni. Può diventare il luogo d’elezione per rilanciare la salubrità del vivere civile, il diritto alla città, l’etica dell’architetto. Per mettere in opera un “giuramento di Vitruvio” che sia consapevole del Giuramento di Ippocrate, fedele allo spirito della Costituzione italiana, in forte sintonia con il movimento mondiale per il diritto alla città.
Tratto da: Salvatore Settis, Se Venezia muore, Giulio Einaudi Editore
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