‘Paesaggio’, ‘territorio’, ‘ambiente’: questi termini non sono sinonimi, eppure coprono, da diverse angolature di discorso e sotto differenti profili storici, lessicali e giuridici, lo stesso identico spazio, che è poi quello in cui si svolge (non dimentichiamolo) la vita d’ogni giorno di noi cittadini […]
Lo spazio in cui viviamo non è mai ‘neutro’. Fu spazio di natura, con le sue continuità e i suoi sconvolgimenti, fino a quando l’uomo prese a imprimervi i propri segni, trasformandolo profondamente a propria somiglianza. Lo spazio dell’uomo è riflesso e memoria della storia e della società, anzi delle storie e delle società che lo hanno plasmato nel tempo, che lo plasmano oggi per gli uomini e le donne di domani. La modificazione dello spazio naturale ad opera dell’uomo è stata sempre più intensa nel tempo e cresce ancora, seguendo l’inarrestabile aumento della popolazione, un processo sempre più preoccupante per le risorse che consuma, le disuguaglianze che perpetua, i problemi che suscita, a cominciare dal più elementare: l’alimentazione […]
La polarità città-campagna, nelle sue mille varianti storiche e geo-culturali, ha ogni volta riproposto (ma non risolto) il contrasto originario fra spazio naturale e spazio urbano; e questo contrasto è reso più acuto dalle mille interferenze reciproche, dalla stessa difficoltà di tracciare un confine netto fra l’ordine della natura e quello della cultura. La forma urbana ha conosciuto nel tempo una continua e indeterminata espansione a spese dello spazio naturale, fino a risolversi (o a dissolversi) nelle megalopoli odierne, nelle conurbazioni apparentemente involontarie, in un generalizzato urban sprawl. […] Non c’è vissuto individuale senza uno spazio circostante, che è insieme naturale e sociale: eppure l’individuo, anche se tutto della sua vita dipende dalla sanità dello spazio che lo circonda, ben di rado riesce a controllarlo; più spesso, ne è sopraffatto. Sanità dello spazio, in senso prima di tutto letterale […] Sanità dello spazio, anche, in senso culturale: lo sviluppo delle società moderne e di alcuni valori fondamentali (libertà, democrazia, uguaglianza) si è accompagnato alla creazione collettiva di una sorta di codice dello spazio, «contemporaneamente architettonico, urbanistico e politico, un linguaggio comune agli abitanti delle campagne e delle città, alle autorità, agli artisti» (Lefebvre). L’Italia fra Medioevo a Rinascimento fu il luogo massimo in cui questo codice fu costituito e affinato: esso orientò al tempo stesso la produzione (collettiva) dello spazio sociale e la capacità (individuale) di ‘leggerlo’, anche inconsapevolmente. Lo spazio ordinato secondo un codice riconoscibile e condiviso era carico di senso: perciò offrì per secoli a ciascuno non solo le coordinate fisiche del proprio vissuto, ma una viva immagine della propria appartenenza, l’identità collettiva in cui rispecchiarsi, da cui trarre forza e alimento […]
[A partire almeno dagli anni Venti del Novecento, invece] Questa nuova urbanizzazione tende ad annullare l’equilibrio città-campagna, anzi infrange o nega ogni codice storico-culturale dello spazio perché è al servizio dell’industrializzazione, di cui adotta pratiche e strategie, ponendo il mercato al di sopra di ogni altro valore. La distruzione dei codici di organizzazione dello spazio, delle loro valenze storiche, memoriali e simboliche in favore di un’indiscriminata cementificazione al solo servizio del ‘dio mercato’ comporta una drammatica perdita di significati. Lo spazio sociale, di per sé carico di funzioni e di senso, viene travolto dal meccanismo consumistico di una violenta rottamazione, diventa esso stesso una merce, ‘vale’ non perché possiamo viverlo, ma solo in quanto può essere occupato, ‘prezzato’, cannibalizzato. […] (pp. 49-54)
Paesaggi, disagi
[…] Il paesaggio è la geografia volontaria che l’uomo plasma (e muta incessantemente) intorno a sé. Perciò «le belle contrade» del paesaggio italiano (la formula è di Piero Camporesi) hanno una nascita e una storia. Si tratta in realtà di due processi intrecciati in modo indissolubile: da un lato, il lento modellarsi del paesaggio per l’opera delle generazioni di contadini e di feudatari, di allevatori e di sacerdoti; dall’altro, il gran discorrere sul paesaggio, che coinvolge non solo chi ci vive e lo va modificando, ma anche i viaggiatori, gli scrittori, i pittori […]
Nei riti e nei racconti del Grand Tour, come nei dipinti che ne sublimavano l’esperienza fissando col pennello palazzi e paesaggi, la spola fra natura e cultura (fra città e campagna) fu il principale asse portante. Quello che più unifica queste due dimensioni complementari è la veduta…Città dense di uomini e di edifici, ma anche di valori, che a chi le guarda da lontano dettano in un lampo tutte le regole del gioco: mura serrate, arroccate dietro a cinture di orti; le torri del Comune o del principe che gareggiano con quelle del vescovo; il colore speciale a ogni città, per la pietra delle cave vicine o per l’argilla di quei mattoni; pensili giardini urbani che slargano la trama delle vie e delle piazze, vi annettono frammenti di campagna, chiome d’alberi. Città magnete che attraggono lo sguardo, creano aspettative, promettono cattedrali coperte d’affreschi e palazzi ricchi di vita, conventi abitati dalla preghiera e la musica dei teatri; evocano menti creative, mani operose. E per converso, affacciandosi dalla città (guardandosi indietro), le sicure promesse degli idilli campestri: quiete greggi, macchie scure dei boschi, contadini curvi nei campi, ville e fattorie che li punteggiano. Nobili le moli delle chiese e dei palazzi, egualmente nobile il paesaggio disegnato dalle nude mani dell’agricoltore, dall’aratro e dal bue: avvolte, città e campagna, da uno stesso spazio produttivo; ma anche da una stessa cura, da uno stesso sguardo (quello degli italiani). Da una sola cultura, da un’unica armonia, da un legame solidale. Cultura e natura non si opponevano, si integravano e si specchiavano l’una nell’altra: «in origine cultura significava agricoltura, attività che gli antichi Romani tenevano in molto rispetto», e «si riferisce innanzitutto al rapporto dell’uomo con la natura nel senso di coltivarla e prenderne cura, per renderla un’abitazione adatta a lui»; di qui «il rapporto quanto mai stretto fra cultura e natura, la creazione del famoso paesaggio italiano» (Hannah Arendt) […] Quest’Italia che fu non era immobile, cambiava anzi ogni giorno, ogni ora: ma cambiava sotto quello sguardo vigile e inconsapevolmente amoroso. Cambiava piano, cambiava con cura. Come se ognuno, dal contadino al principe, sapesse egualmente bene che nessuna torre mai dev’essere più alta di quella del Comune (o del duomo), che nessun folto di ulivi dev’esser mai spianato. Che nessuna veduta dev’essere alterata o turbata senza misura e senza ragione, cioè senza pensarne e crearne una migliore; che mai lo sguardo deve posarsi su una bruttura. Quei mutamenti anche profondi, ma sempre meditati, furono per secoli il frutto maturo di una mediazione mentale e sociale fra l’eredità del passato e qualche ipotesi per il futuro: ma quali che fossero desideri e progetti, l’ago della bussola era sempre fisso su un saldo senso di familiarità dello spazio vitale. Familiarità nel viverlo conservandolo, ma soprattutto nel modificarlo senza violarne il messaggio, l’eredità e i valori. Entro quell’orizzonte città e campagna, in un fitto dialogo natura-cultura, si guardano e si riconoscono mutuamente. L’una sa dell’altra tutto l’essenziale, lo vive come il proprio (necessario) complemento e rovescio. Non c’è uomo o donna, dal servo al gran signore, che non respiri quei valori: come l’aria. E di più prezioso non c’è proprio nulla. […]
È dal primo Novecento che qualcosa si spezza. Già erano in corso per tutta Europa grandiosi processi di mutamento (industrializzazione, crescita demografica, alfabetizzazione, alimentazione, progressi medici e cura del corpo). Già era in corso una nuova modalità di produzione dello spazio (economico e culturale), che intrecciava i luoghi di abitazione e le fabbriche, compenetrando l’una dell’altra l’industria e la città. Su questo sfondo, l’Italia da poco unita si sente di colpo arretrata rispetto ai Paesi con cui vuole ormai competere, e nell’affanno di inseguirli comincia a perdere qualcosa di sé. Si estende e si radica, specialmente al Nord, il nuovo paesaggio industriale, a cui la città deve subordinarsi. La fabbrica condiziona la città anche quando non c’è (basta la voglia di ‘modernità’ identificata con l’industria), e la tendenza a un paesaggio ‘modernamente’ invaso dalle ciminiere contagia il paesaggio reale, penetra le coscienze e guida i desideri. Nasce e si radica la voluttà dell’alveare, la voglia di imbrancarsi nella plebe urbana, e con essa la certezza che il proprio benessere richieda l’autoriduzione a ingranaggio produttivo, pretenda l’autodissoluzione in un habitat anonimo nei suoi avvilenti rituali di massa, purché sia etichettato come ‘moderno’. La città cambia (chiare griglie di strade ciascuna col proprio nome, nuove misure igieniche, trasporti, scuole e ospedali), e la nuova tecnologia sociale ne fa un dispositivo finalizzato alla produzione, che induce aspettative, prescrive comportamenti, sradica e reindirizza la fantasia e la memoria. L’antico habitat col suo prodigioso equilibrio fra natura e cultura dà luogo a nuove modalità del vivere entro spazi sempre più alieni a chi li abita; la felice familiarità dello spazio ‘indigeno’ viene spazzata via da una voluta estraneità. Si perde nel vuoto la terra natale. […]
Nascono nuovi orizzonti, nuovi paesaggi: lo spazio industriale sfiora, anzi invade la città (e la mente), mutandone senza dirlo spirito e forma. Nel gran discorrere che da subito se ne fa, queste drammatiche mutazioni vanno inevitabilmente sotto il segno del ‘progresso’. Sono ‘buone’ di per sé perché legate a potenti meccanismi culturali, a modelli che nessuno oserebbe contestare, come il crescente adeguarsi dell’Italia alle grandi nazioni europee, il crescente benessere individuale che richiede più industria, più produzione, più consumo del suolo. […]
Eppure, di quell’antico modello del Bel Paese resiste, allora e fino ad oggi, più d’una traccia. Le straordinarie diseguaglianze economiche e culturali, ma anche le asperità del suolo e la difficoltà nei trasporti, ‘salvano’ numerosissime sacche di paesaggio, villaggi d’altura e valli incontaminate, città poco industrializzate e ‘centri storici’ che hanno maggior coscienza di sé e fanno qualcosa per preservarsi, vaste aree del Paese troppo povere per poter cambiare. Le norme a tutela del paesaggio fanno di tutto per arginare «le ingiustificate devastazioni che si van consumando contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo» (sono parole di Benedetto Croce, allora ministro, in una relazione al Senato, 1920). La geografia interiore si adatta ai nuovi valori, e anche mentre borghi e città sono assediati da periferie offensive, ognuno impara a ‘ritagliare’ entro il proprio orizzonte vedute ancora accettabili, paesaggi ancora intatti, frammenti di un modello antico che viene ripensato, riscoperto e rilanciato anche da nuove modalità del viaggio e del turismo, dall’insediarsi saltuario di abitanti di (altre) città nei paesi abbandonati, dal disseminarsi di seconde case. A quel che resta della trama di paesaggi rurali e urbani, un tempo limpida e compatta, si sovrappone l’ordito di una nuova archeologia della mente, che riconosce il paesaggio storico (anche quando sia più frammentario), lo classifica e lo presceglie, lo sente più ‘proprio’, e davanti alle invasioni di architetture industriali e di squallide periferie ora le accetta come una dolorosa necessità ora le rimuove dal proprio orizzonte interiore […]
Questi meccanismi di rimozione spiegano meglio d’ogni altra ipotesi il «silenzio degli utenti che subiscono le manipolazioni degli spazi e della loro vita quotidiana» di cui parlava Henri Lefebvre. Una volta avvilito a strumento o a merce, il paesaggio respinge, si fa estraneo; e il paesaggio inospitale genera un profondo disagio psicofisico, che trova rimedio e rifugio nei paesaggi ospitali ancora tanto frequenti: vagheggiandoli nella memoria (come un malato può coltivare i ricordi d’infanzia in un letto d’ospedale), frequentandoli quel che si può, andandone in cerca in escursioni e vacanze quando è possibile. Il paesaggio tende a sdoppiarsi: da un lato quello, idillico e a volte finto e ‘costruito’, delle cartoline e del relax, di villaggi vacanza e agriturismi; dall’altro lo spazio degradato in cui si vive, e si torna a vivere, rassegnati, dopo il ‘riposo’. Anche quando lo spazio vissuto nella quotidianità ci respinge e ci disgusta siamo obbligati ad accettarlo; e tuttavia la memoria dei paesaggi storici può esser tanto forte da indurci a guardare orride periferie e fabbriche in rovina con occhio insieme indignato e indulgente: come errori da correggere, ma anche come anomalie, eccezioni deplorevoli ma tutto sommato marginali. Rassegnati ormai alle devastazioni che ci feriscono ogni giorno, rifiutiamo di vedere quel che dovremmo: che l’anomalia sta diventando la regola, che l’eccezione si va trasformando in modello unico di sviluppo, che l’urban sprawl sta mangiandosi città e campagna, che intere generazioni di italiani (milioni di persone) non hanno più nella loro geografia interiore nessun paesaggio armonioso da ricordare, nulla su cui fantasticare. La città orizzontale, diffusa e dispersa, cresce su se stessa, si sparge intorno come una colata lavica. […]
L’ambiente che noi abbiamo creato a sua volta ci condiziona: ci fa membri di una comunità se possiamo riconoscerci in esso, ci spinge alla violenza quando quel che ci circonda è alienante. La piccola criminalità diffusa è molto maggiore nei quartieri più degradati, nelle periferie più squallide: «quando una norma di convivenza sociale [e tale è la gradevolezza del paesaggio] viene violata, la gente tende subito a violare altre norme o regole, e il disordine sociale si diffonde» (Kees Keizer). […] (pp. 66-77)
L’Italia si fa in tre: paesaggio, territorio, ambiente
Sul paesaggio è in corso da decenni fra Stato e Regioni un duro conflitto che indebolisce i poteri pubblici, defunzionalizzando le amministrazioni e deresponsabilizzandole. Ma questa sorda lotta non è il solo nemico del nostro paesaggio. Con essa s’intrecciano almeno altri due fattori che vale la pena di discutere brevemente: il progressivo emergere della nozione di ‘ambiente’ e, in anni più recenti, il rapporto fra la normativa italiana e la Convenzione europea sul paesaggio.
La nozione di ambiente non c’era nella Costituzione del 1948, ma venne imponendosi più tardi, con la diffusione della cultura ambientalista e dei relativi linguaggi. Il tema entrò nella discussione pubblica in Italia grazie alla «Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio» (la cosiddetta Commissione Franceschini), istituita in base alla L. 310 del 1964. Fu nei lavori di questa Commissione che venne a consolidarsi [in Italia] l’espressione oggi corrente ‘beni culturali’ […]
Negli atti della Commissione, pubblicati nel 1967, i «beni culturali ambientali» erano una categoria a sé, come i beni archeologici e storico-artistici o quelli archivistici e librari. Essi venivano definiti come «le zone corografiche costituenti paesaggi, naturali o trasformati adopera dell’uomo», ma includevano anche «le strutture insediative, urbane e non urbane, che, presentando particolare pregio per i loro valori di civiltà, devono essere conservate al godimento della collettività» (Dichiarazione XXXIX, Atti, I, p. 69). Si tentava qui, suggerendola al legislatore, una piena ricomposizione fra ‘paesaggio’ e ‘urbanistica’, e infatti «beni culturali ambientali» venivano raggruppati in «due grandi classi di beni, quelli di tipo paesaggistico e quelli di tipo urbanistico». Si ricordavano con rilievo anche le situazioni ‘intermedie’ («strutture insediative non urbane come castelli, torri, abbazie, borghi, casolari, ville, case coloniche, villaggi di pescatori ecc.»); ad esse si dava anzi implicitamente la funzione di raccordo fra le città e, le campagne.
Consapevole del dissidio fra materia paesaggistica e materia urbanistica, la Commissione Franceschini dichiarò che la trasformazione degli insediamenti urbani «non può farsi unicamente in funzione delle condizioni economiche e sociali emergenti, ma deve essere, considerata come bene culturale in fieri, che esige particolari tutele ed interventi» mediante «l’inscindibile ed irrinunciabile presenza delle istanze culturali» che possono condurre «alla creazione di significativi paesaggi urbani» (Atti, I, p. 73). L’efficacia di questo principio doveva esser garantita dal forte nesso fra i piani regolatori comunali e la «dichiarazione di bene culturale ambientale», promossa dalle Soprintendenze ma anche dai privati cittadini: un ritorno, in sede amministrativa anziché giudiziaria, all’’azione popolare’ prevista nella prima versione della legge Rava [legge n. 364 del 20 giugno 1909]. Queste proposte erano contenute entro un quadro assai ricco e immaginativo; ma esso, nonostante le speranze di allora, cadde nel vuoto. Il punto centrale doveva essere l’istituzione di una Amministrazione autonoma dei beni culturali, con un Consiglio Nazionale composto da esperti con competenze specifiche di settore e presieduto dal ministro della Pubblica Istruzione. Essa doveva essere strutturata con «ampia autonomia normativa e organizzativa, sistema contabile di tipo aziendale, bilancio di cassa con aggiustamenti periodici» (Atti, I, p. 91), e ne dovevano dipendere le Soprintendenze, intese come «apparato scientifico e tecnico». La nuova categoria concettuale e giuridica di «beni culturali ambientali», in quel contesto, era intesa non solo a ricomporre la dicotomia fra urbanistica e paesaggio, ma anche a raccordare fortemente il paesaggio (anche urbano) con il patrimonio archeologico e storico-artistico.
Ma nella Relazione Franceschini la nozione di ‘ambiente’ era di fatto solo un’estensione di quella di ‘paesaggio’ dell’art. 9 Cost., e non conteneva ancora connotazioni essenziali che intanto andavano prendendo piede in Italia come in tutta Europa. La nuova nozione di ‘ambiente’ come bene giuridico soggetto a tutela si riferirà assai presto, invece, al regime dei suoli e delle acque, alla salvaguardia (o all’inquinamento) dell’aria, delle risorse naturali e del territorio, alla protezione (o al degrado) della biosfera, alle variazioni del clima, e così via, in senso prevalentemente ‘quantitativo’ (con riferimento ai massimi livelli ‘accettabili’ di alterazione ambientale). Tuttavia, la nozione di ‘ambiente’ spesso verrà allargata fino a includervi anche quella, di per sé essenzialmente ‘qualitativa’, di ‘paesaggio’. […] (pp. 222-224)
Ambiente, paesaggio, bene comune.
[…] La Corte Costituzionale, chiamata a dirimere i conflitti fra Stato e Regioni, seppe oltrepassarne le strettoie e giunse a elaborare una concezione giuridica di ‘ambiente’ coerente col sistema di valori della Costituzione repubblicana, ma anche in linea con le più avanzate riflessioni sul tema a livello mondiale.
La Corte doveva affrontare simultaneamente due ben diversi ordini di problemi. Da un lato, le eccezioni di incostituzionalità sollevate dalle Regioni imponevano di definire la loro sfera di competenza in relazione a quella dello Stato, cioè di precisare la gerarchia fra gli artt. 9 e 117 della Costituzione. Dall’altro, il richiamo sempre più frequente alla nozione di ‘ambiente’, ancora mal definita e utilizzata come tacito argomento da una parte e dall’altra, richiedeva di precisarla: compito arduo, visto che essa non era neppure menzionata nella Costituzione. L’uno e l’altro fine furono raggiunti con un intenso lavoro interpretativo imperniato sull’art. 9 Cost., e in particolare sulla nozione di ‘paesaggio’ come oggetto di tutela giuridica; ma anche sull’art. 32 Cost. (diritto alla salute). […] La stessa sentenza n. 239 del 1982 provò anche a definire la «protezione dell’ambiente», che il D.P.R. 616 del 1977 aveva incluso nella materia urbanistica di competenza regionale. Ne dette, anzi, due definizioni, una più estensiva e una più ristretta. Secondo la prima, essa include, «oltre la protezione ambientale, collegata all’assetto urbanistico del territorio, anche la tutela del paesaggio, la tutela della salute nonché la difesa del suolo, dell’aria e dell’acqua dall’inquinamento». Ma passando all’esame del caso in giudizio, questa definizione onnicomprensiva – e con essa le competenze regionali – viene circoscritta intendendola in senso strettamente urbanistico. Fra le due definizioni della materia ambientale di questa sentenza non c’è piena armonia, e perciò forse ha ragione chi l’ha definita un sostanziale fallimento; eppure, essa ha aperto una strada importante, collegando per la prima volta tutela del paesaggio e diritto alla salute. E su questa scia che negli anni 1985-87 le sentenze della Consulta giungeranno a delineare un quadro coerente su due punti cruciali: il rapporto tra paesaggio, territorio e ambiente e la definizione dell’ambiente come bene giuridico oggetto di tutela. Nel 1985, la sentenza n. 94 tracciò una concezione fortemente unitaria delle nozioni di ‘territorio’ e di ‘ambiente’, aggregandole intorno a quella di ‘paesaggio’, a cui corrisponde un valore costituzionale primario. Infatti «il paesaggio, unitamente al patrimonio storico ed artistico della Nazione, costituisce un valore cui la Costituzione ha conferito straordinario rilievo, collocando la norma che fa carico alla Repubblica di tutelarlo tra i principii fondamentali dell’ordinamento». La tutela del paesaggio «non può venire realisticamente concepita in termini statici, di assoluta immodificabilità dei valori paesaggistici registrati in un momento dato, ma deve, invece, attuarsi dinamicamente e cioè tenendo conto delle esigenze poste dallo sviluppo socio-economico del paese per quanto la soddisfazione di esse può incidere sul territorio e sull’ambiente». Un’altra sentenza dello stesso anno (n. 359) respinse i ricorsi di cinque Regioni secondo cui la mera richiesta di informazioni sulle autorizzazioni paesistiche da parte degli organi dello Stato costituirebbe «invasione di competenze riservate alla Regione». In questo contesto, la Corte accostò ancora a quello dell’art. 9 Cost. un altro valore costituzionale primario, il diritto alla salute di cui all’art. 32; e ribadì che, parlando di paesaggio, l’art. 9 Cost. «erige il valore estetico-culturale riferito (anche) alla forma del territorio a valore primario dell’ordinamento», e che pertanto le Regioni sono «obbligate a collaborare con l’amministrazione statale nell’attività di tutela»; in nessun caso si può «ritenere la disciplina paesaggistica primaria subordinata all’urbanistica o addirittura inclusa in essa». In quello stesso 1985, la legge Galasso, estendendo ampiamente le zone soggette a vincolo paesaggistico, aggravò il conflitto fra Stato e Regioni. Secondo alcune Regioni, con quella legge lo Stato stava «invadendo la sfera regionale» riassorbendo «competenze specifiche in materia ambientale», in particolare sull’agricoltura e sull’urbanistica, già trasferite alle Regioni con il ‘secondo decentramento’ del 1977; altre Regioni, nello stesso spirito, impugnarono la norma Galasso che dava al Ministero potere sostitutivo per i piani paesistici, in caso di inadempienza delle amministrazioni regionali. Accogliendo gli argomenti dell’Avvocatura dello Stato, la Consulta respinse questi ricorsi, ribadendo l’esigenza di una «tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell’intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale», e ciò in piena aderenza «al precetto dell’art. 9 Cost., il quale, secondo una scelta operata al più alto livello dell’ordinamento, assume il detto valore come primario, cioè come insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro» (sentenza n. 151/1986). Quanto ai poteri sostitutivi del Ministero per i piani paesistici, la Corte decise che «lo spessore dei poteri attribuiti allo Stato» dalla legge Galasso è commisurato alla «tutela, in relazione alla primarietà ed essenzialità del valore che ne è oggetto» (sentenza n. 153/1986).
La chiara interpretazione dell’art. 9 Cost. che emerge da queste sentenze era la necessaria premessa per una più stringente definizione della nozione giuridica di ‘ambiente’, quale si ebbe infine in tre sentenze del 1987. Nella prima (n. 167), la Corte adottò la formula «tutela ambientale del paesaggio», affermando che «il patrimonio paesaggistico e ambientale costituisce eminente valore cui la Costituzione ha conferito spiccato rilievo (art. 9), imponendo alla Repubblica di perseguirne il fine precipuo di tutela»: si suggeriva in tal modo che la nozione costituzionale di ‘paesaggio’ dovesse intendersi anche nel nuovo senso di ‘ambiente’. Ancor più esplicita in tal senso fu la sentenza n. 210. Per definire il «rischio di crisi ambientale» e la «valutazione di impatto ambientale» (v.i.a.), la Corte riconobbe «lo sforzo in atto di dare un riconoscimento specifico alla salvaguardia dell’ambiente come diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività e di creare istituti giuridici per la sua protezione», puntando «ad una concezione unitaria del bene ambientale comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali», al fine di «proteggere valori costituzionali primari (artt. 9 e 32 Cost.)». L’ambiente perciò «comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue componenti), l’esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni». Da questa concezione, assai vicina alla nuova concezione giuridica di ‘comunità di vita’, discende «la repressione del danno ambientale cioè del pregiudizio arrecato, da qualsiasi attività volontaria o colposa, alla persona, agli animali, alle piante e alle risorse naturali (acqua, aria, suolo, mare), che costituisce offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente». Analogamente, in una terza sentenza dello stesso anno (n. 641), «l’ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti». La tutela ambientale è «imposta da precetti costituzionali (artt. 9 e 32), per cui assurge a valore primario e assoluto».
Tutte queste sentenze della Corte Costituzionale vanno lette ‘in crescendo’. L’incisiva definizione della tutela ambientale come valore costituzionale primario e assoluto fu l’esito di un efficace lavoro interpretativo fondato prima sul semplice accostamento, e poi sulla combinazione moltiplicativa dell’art. 9 (tutela del paesaggio) con l’art. 32 (tutela della salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività») In tal modo la nozione di ‘ambiente’, che pur non figurava nella Costituzione del 1948, venne scolpita dai giudici secondo lo spirito della Costituzione, mostrandone la straordinaria vitalità e lungimiranza. La tutela ambientale si legava così strettamente ad altri interessi costituzionalmente rilevanti, entro un sistema di relazioni, di valori e di principi che sono espressione dell’interesse diffuso dei cittadini. Stella polare di questo processo interpretativo non fu l’intrico di norme della legislazione ordinaria (anche regionale), bensì l’interesse collettivo, il bene pubblico dei cittadini: per questo il danno ambientale non fu inteso come un danno civilistico di natura individuale, bensì come un danno pubblico, nel senso che colpisce la collettività e lo Stato che la rappresenta e la incarna, e come tale dev’essere risarcito. Ma se l’ambiente è un bene comune, l’interesse pubblico dello Stato coincide con il diritto individuale, fondamentale e inviolabile, alla sua fruizione e tutela. In questo sistema di valori, la nozione di ambiente creata dalla Corte si innestava su quella di territorio, ed era consustanziale al paesaggio. (pp. 236-242)
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, che è oggi la legge fondamentale di tutela, è nato sul terreno assai accidentato che abbiamo per sommi capi descritto, e ovviamente ne ha ereditato le luci e le ombre. Il suo iter comincia con la legge 137 del 2002, che conteneva svariate deleghe al governo (allora come oggi presieduto da Berlusconi), fra l’altro per la «codificazione delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali», adeguandole agli artt. 117 e 118 Cost. dopo la riforma del Titolo V (art. 10). Il Codice, in quanto decreto delegato, fu approvato dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro Giuliano Urbani (D.Lgs. 42 del 22 gennaio 2004), e poi integrato e corretto dal successivo governo Berlusconi, quando ministro dei Beni Culturali era Rocco Buttiglione (DD.Lgs. 156 e 157 del 24 marzo 2006), e dal II governo Prodi, quando titolare del Ministero era Francesco Rutelli (DD.Lgs. 62 e 63 del 26 marzo 2008). […] Il Codice prosegue la tradizione legislativa italiana in materia, inglobandone i tratti essenziali: di fatto esso è per molti aspetti una nuova formulazione delle due leggi Bottai del 1939, che a loro volta risalivano alla legge di tutela del patrimonio culturale del 1909 e a quella sul paesaggio del 1922; ma ha dovuto naturalmente far perno sull’art. 9 Cost., nonché includere molte altre norme, per esempio quelle della legge Galasso del 1985. […] Le Disposizioni generali del Codice (Parte I, artt. 1-9) formano un ‘cappello’ comune alle parti II (Beni culturali, artt. 10-130) e III (Beni paesaggistici, artt. 131- 159). Beni culturali e beni paesaggistici costituiscono nel Codice un insieme denominato «patrimonio culturale» (art. 2 c. 1), con espresso riferimento all’art. 9 Cost. (art. 1 c. 1): ad esso si riferiscono le definizioni di tutela e valorizzazione, due aspetti che «concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura» (art. 1 c. 2). Come si è detto, la distinzione speciosa e impraticabile fra ‘tutela’ e ‘valorizzazione’ era stata introdotta allo scopo di creare per le Regioni un nuovo spazio di azione (la ‘valorizzazione’, appunto), lasciando allo Stato in via residuale la sola ‘tutela’[…] Il ‘fuoco amico’ fra enti pubblici ha logorato le stesse parole chiave che essi usano come armi retoriche per difendere (o estendere) l’ambito dei propri poteri. In particolare, la ‘valorizzazione’ è stata sempre più spesso intesa (a destra come a sinistra) in un senso meramente o prevalentemente economico […] ma il Codice non ha potuto né affrontare né risolvere il nodo inestricabile creato dal mancato coordinamento fra la legge sul paesaggio (1939) e quella sull’urbanistica (1942), un nodo che si è poi radicato nella Costituzione del 1948 (artt. 9 e 117), impantanandosi nelle contraddizioni del nuovo Titolo V. La disciplina del Codice ha dunque dovuto tentare una difficile mediazione fra un ‘dover essere’ in cui ‘territorio’, ‘paesaggio’ e ‘ambiente’ siano una sola realtà tangibile, e non tre divergenti torrenti di parole, e la pregressa situazione normativa, che è un labirinto irto di incoerenze e di conflitti. […]
L’accresciuta conflittualità Stato-Regioni favorita dal nuovo Titolo V aveva intanto provocato una giurisprudenza costituzionale sempre più fitta e determinata, che proprio nelle fasi di scrittura del Codice produsse alcune importanti sentenze, dove la distribuzione delle competenze e dei poteri è definita secondo la naturale gerarchia dei valori costituzionali. […] Per un’efficace azione di tutela era necessario regolare, e mettere fra loro in armonia e in gerarchia, due meccanismi assai diversi: da un lato il vincolo paesaggistico ‘puntiforme’, dall’altro la politica dei piani paesistici di larga estensione e respiro. Quella del vincolo era stata la filosofia di fondo della legge Croce del 1922: ‘ritagliare’ porzioni più o meno ampie di territorio assoggettandole a vincoli particolari in nome del loro «importante interesse pubblico», e dunque vietandone l’edificabilità, o consentendola solo con specifiche autorizzazioni. Il regime dei vincoli sorresse anche l’impalcatura della legge Bottai del 1939, che tuttavia introdusse un’altra e più sofisticata disciplina, un’altra filosofia: quella dei «piani territoriali paesistici», che Giovannoni vedeva come lo strumento principe di gestione delle necessarie mutazioni del paesaggio «sottraendole al capriccio del singolo». Ma lo strumento della pianificazione non entrò mai veramente in funzione perché non si provvide mai definirne ruolo e competenze rispetto al sistema di piani territoriali previsto dalla legge urbanistica del 1942; anzi, queste due anime della pianificazione ebbero entrambe la loro ‘proiezione’ costituzionale nel 1948, rispettivamente agli artt. 9 e 117. Quando decollarono le autonomie regionali (1972), i decreti delegati assegnarono alle Regioni, almeno sulla carta, tanto i «piani territoriali di coordinamento» della legge urbanistica che i «piani territoriali paesistici» della legge Bottai. Pareva un’occasione per ricomporre in uno le due anime della pianificazione, ma non fu così. Il trasferimento alle Regioni dei piani paesistici oltrepassava i limiti posti dalla legge-delega e ‘bypassava’ tacitamente l’art. 9 Cost., ma questa forzatura non fu portata fino in fondo. Il regime dei vincoli restò infatti in mano alle Soprintendenze, e i «piani territoriali paesistici» entrarono in una sorta di limbo, in una terra di nessuno: non vi provvedeva lo Stato, perché erano stati trasferiti alle Regioni; e non vi provvedevano le Regioni, perché non avevano sufficienti competenze sulle aree vincolate. Anzi, la pianificazione urbanistica (rilanciata con la ‘legge ponte’ n. 1967, che modificava quella del 1942) finì col surrogare le inefficacie della tutela paesaggistica, ma in modo desultorio e dipendente dagli strumenti urbanistici locali; insomma, la tutela del paesaggio in modo uniforme su tutto il territorio nazionale prescritta dall’art. 9 Cost. non è stata mai totalmente efficace. Il sistema dei vincoli aveva trovato lenta e graduale applicazione, e le zone da vincolarsi venivano di volta in volta individuate e aggiunte alla lista per cura delle Soprintendenze e del Ministero; ma da quando le autonomie regionali avevano creato nuovi interessi e una nuova interlocuzione, ogni tentativo di imporre nuovi vincoli nelle aree via via segnalate come di pubblico interesse veniva a scontrarsi con le volontà di Regioni e Comuni di mantenere pieno controllo sul proprio territorio. Dilagavano intanto in tutta Italia le costruzioni abusive, e nel 1985 il governo Craxi varava il primo condono edilizio, introducendo la pessima abitudine di legittimare per legge la violazione della legge. Le esigue ‘multe’ destinate a sanare gli abusi dovevano avere, nelle intenzioni di quel governo, la funzione di sanare il disavanzo nei pubblici bilanci, ma il monito della Consulta secondo cui il condono è misura eccezionale e non reiterabile era destinato a non essere ascoltato. La legge Galasso, come si è visto, fu una forte reazione a questa situazione ormai fuori controllo. […]
La mappa finale di questa danza dell’assurdo è desolante: a regime, lo Stato con le sue Soprintendenze aggrappato all’unico strumento residuo, il vincolo, e intento a difenderlo arroccandosi su qualche annullamento postumo delle autorizzazioni comunali; gli strumenti di pianificazione in mano alle Regioni, che li usano poco e spesso male, e intanto, nel vuoto così creato, sub-delegano ai Comuni il potere di autorizzazione paesaggistica; infine, lo strumento ‘straordinario’ del condono che periodicamente garantisce l’impunità ai distruttori del paesaggio. Nella contrapposizione (e non integrazione) tra due modelli alternativi, la tutela del paesaggio e il governo del territorio, il diretto asservimento alle ragioni della politica locale ha la meglio sulle specifiche competenze in materia paesaggistica, spesso presenti nelle Soprintendenze; e sul parere dei funzionari di Stato indipendenti (ma sempre meno) dal potere politico prevale il pulviscolo di una serie di decisioni sconnesse di singoli funzionari comunali, quasi sempre sprovvisti di ogni autentica competenza professionale ma in compenso alle immediate dipendenze di sindaci e assessori e delle loro opzioni clientelari ed elettorali. E mentre il Consiglio di Stato stabilisce che il titolo edilizio e il titolo paesaggistico sono autonomi e distinti (Sez. V, n. 87 del 14 gennaio 2003), i Comuni, a ciò sub-delegati dalle Regioni, li rilasciano regolarmente entrambi con parere della commissione edilizia, talvolta integrata con un ‘esperto di paesaggio’ la cui esperienza e competenza nessuno ha verificato. […]
Non entrerò qui nel merito dei cambiamenti intervenuti nella versione 2006 del Codice, per concentrarmi invece sulla sua versione finale (2008). Essa punta sulla «cooperazione tra amministrazioni pubbliche per la conservazione e la valorizzazione del paesaggio» (art. 133). Tale cooperazione comincia dai piani paesistici: «le Regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici», da elaborarsi in ogni caso «congiuntamente tra Ministero e Regioni» (art. 135 C. 1), dopo un’accurata ricognizione del territorio (art. 143), e coordinando strettamente fra loro, nel rispetto delle competenze di legge, la pianificazione paesaggistica e quella urbanistica (art. 145). Inoltre, nelle fasi di redazione dei piani paesaggistici è prevista «la partecipazione dei soggetti interessati e delle associazioni portatrici di interessi diffusi» (art. 144): la tutela del paesaggio (in quanto luogo dell’identità collettiva e della responsabilità sociale) è dunque intesa come il punto d’incontro di processi partecipativi. Piani che, come talune Regioni si ostinano a fare, non rispettino questi vincoli partecipativi o procedurali sono dunque ‘non-piani’ e sono di nullo valore.
Poiché il paesaggio è da tutelarsi «relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali» (art. 131 c. 2), e anche «la valorizzazione del paesaggio concorre a promuovere lo sviluppo della cultura» (art. 131 c. 5), assumono un ruolo centrale nel Codice le «specifiche normative d’uso», e cioè le prescrizioni tese a conservare le morfologie dei paesaggi, a riqualificare le aree degradate, ad «assicurare il minor consumo del territorio» (art. 135 c. 4). «Il notevole interesse pubblico» è il criterio dominante per sottoporre a particolare tutela (e restrizioni) specifiche porzioni di paesaggio, che includono per esempio i centri e i nuclei storici, gli alberi monumentali, i punti di vista panoramici, le singolarità geologiche, e così via (art. 136). Questa disposizione include tutte le «aree tutelate per legge», e cioè le tipologie della legge Galasso, come le fasce costiere per 300 metri dalla linea di battigia, i monti, i parchi, i boschi e le foreste, i vulcani, le zone archeologiche (art. 142). […]
L’antica concezione del paesaggio come bene comune e la priorità del pubblico interesse sull’arbitrio dei proprietari si trovano in tal modo riaffermati, in piena continuità con le leggi Croce e Bottai. Perciò ogni autorizzazione che riguardi le aree vincolate comporta un vaglio previo di compatibilità paesaggistica, che non è più demandato alle sole valutazioni di opportunità degli enti territoriali, ma richiede anche la specifica competenza degli organi statali di tutela; inoltre, speciali Commissioni locali per il paesaggio nominate dalle Regioni contribuiscono alle procedure di autorizzazione (art. 148). La nuova normativa valorizza dunque fortemente la dimensione tecnica e professionale del vaglio di compatibilità paesaggistica: questa è infatti la sola strada seria per render possibile la prevalenza del «valore primario e assoluto» del paesaggio, secondo la giurisprudenza costituzionale. La ‘discrezionalità tecnica’ del parere di un soprintendente professionalmente attrezzato deve fondarsi sulla valutazione autonoma delle proposte di interventi, vagliandole rispetto ai soli dati della natura e della storia del luogo; essa è dunque qualitativamente diversa della ‘discrezionalità amministrativa’, che troppo spesso subordina i valori del paesaggio a trattative negoziali con ‘tutti gli interessi in gioco’, compresi quelli della speculazione mascherata da ‘sviluppo’ e del basso clientelismo etichettato come ‘politica’.
Ma chi veglierà sull’osservanza delle prescrizioni di tutela? Modificando la vecchia disciplina, il decreto integrativo e correttivo del Codice del 2008 ha introdotto il parere previo da parte del soprintendente, con valore vincolante fino a quando non sia stato redatto il piano paesaggistico congiunto, con il conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici. I proprietari delle aree vincolate possono dunque prefigurare qualsiasi progetto, ma non possono principiare i lavori prima della necessaria autorizzazione paesaggistica, che non può mai esser rilasciata per condono o in sanatoria (art. 146 cc. 2-4). Alla procedura di autorizzazione partecipano le Regioni, che devono avvalersi «di propri uffici dotati di adeguate competenze tecnico-scientifiche e idonee risorse strumentali» (art. 146 c. 6). Il potere di sub-delega dalle Regioni ai Comuni, che come abbiamo visto è stato fonte di gravissimi inconvenienti, viene ora nettamente limitato: possono esser delegate le Province, associazioni fra Comuni, o anche Comuni singoli, ma solo se «dispongono di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche», da definirsi con parametri uniformi su tutto il territorio nazionale (artt. 146 c. 6, e 159), e garantendo «la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia» (ancora art. 146 c. 6); in altri termini, i Comuni più grandi, o le associazioni di Comuni (o le Province) sono invitati a dotarsi di adeguati uffici tecnici paesaggistici, separati da quelli urbanistici. La compatibilità di nuovi progetti coi valori paesaggistici da tutelare viene così distinta chiaramente dal mero titolo edilizio, e affidata a un giudizio tecnico competente e autonomo; e il potere autorizzativo dei Comuni viene graduato in relazione alla loro capacità e volontà di dotarsi delle necessarie competenze professionali e organizzative. Tuttavia, va ricordato che su questo e altri punti la proposta elaborata dalla Commissione ministeriale per il Codice (quella di cui anch’io ho fatto parte) conteneva norme più rigorose ed efficaci, che il governo accettò poi di indebolire significativamente in sede di Conferenza unificata Stato-Regioni, in particolare rinunciando a un adeguato vaglio tecnico di compatibilità delle varianti urbanistiche con i vincoli paesaggistici.
Un ultimo punto va toccato brevemente: il rapporto con la Convenzione europea sul paesaggio. L’art. 132 la menziona espressamente, ma ribadendo che «la ripartizione delle competenze in materia di paesaggio è stabilita in conformità ai principi costituzionali». […] La Convenzione propone un’idea di paesaggio come «bene finito e consumabile, che richiede azioni di governo consapevoli»; queste azioni vanno esercitate in Italia secondo «un livello di governo unitario… il solo in grado di assicurare una gestione coerente con l’esigenza di conservare i tratti [del paesaggio] che costituiscono l’elemento caratterizzante il territorio nazionale». In definitiva, è la Costituzione che stabilisce la ripartizione delle competenze, sulla base del prioritario interesse pubblico e dell’esigenza di assicurare forme di tutela unitarie in tutto il territorio nazionale.
Fin qui sul Codice. Ma questa carta delle buone intenzioni si infrange contro continui meccanismi di vanificazione. La norma transitoria (art. 159) che rinviava al I° gennaio 2009 l’entrata in vigore della nuova disciplina di autorizzazione paesaggistica è stata ripetutamente rinnovata, rimandando di sei mesi in sei mesi l’attuazione del Codice. Nuove norme sono state concepite, a livello statale e a livello regionale, in spregio e in deroga a quelle del Codice. Sotto la sbrindellata bandiera della ‘semplificazione’, la manovra fiscale 2010 (D.L. 78 del I° maggio 20I0, convertito nella L. 122 del 30 luglio 2010) ha annullato le garanzie del Codice imprigionando i soprintendenti entro il meccanismo iugulatorio delle ‘conferenze di servizi’. Viene così riesumato e radicalizzato il principio del silenzio-assenso, fino a ieri inapplicabile «agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico» (leggi n. 241 del 1990, n. 537 del 1993, n. 8o del 2005); e questo anche se la Corte Costituzionale ha ripetutamente dichiarato che in questa materia «il silenzio dell’Amministrazione preposta non può avere valore di assenso» (sentenza n. 404 del 1997).
La stessa ‘manovra d’estate’ aveva inizialmente previsto una nuova disciplina dei titoli edilizi, in cui la d.i.a. (dichiarazione di inizio attività) veniva totalmente declassata in s.c.i.a (segnalazione certificata di inizio attività), di fatto un’autocertificazione a cura dell’impresa o di un tecnico di sua fiducia, che elude ogni successivo controllo («l’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata alla data della presentazione della segnalazione»). Si sarebbe in tal modo annientato il sistema del Codice invitando a edificare, anche in zone vincolate, senza alcuna autorizzazione, e lasciando alle Soprintendenze solo l’opzione di tentare un blocco dei lavori, purché entro 30 giorni o «in presenza di un danno grave e irreparabile per il patrimonio artistico, l’ambiente, la salute». Per moral suasion del Capo dello Stato a presidio dell’art. 9 Cost., questa selvaggia deregulation è stata modificata prima dell’approvazione definitiva, escludendola quando vi siano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali.
Tuttavia, l’applicazione della s.c.i.a. al territorio non vincolato infligge (come ha rilevato Giuseppe Galasso sul «Corriere della Sera» del 17 luglio 2010) un colpo mortale all’idea della pianificazione paesaggistica, e capovolge la logica del Codice, riproponendo il muro-contro-muro fra ‘vincolo’ e ‘piano’, fra ‘paesaggio’ e ‘urbanistica’. Si perpetua, inoltre, il dissennato divorzio fra ‘paesaggio’ e ‘ambiente’: infatti la s.c.i.a. può essere impunemente applicata nelle aree senza vincolo paesaggistico ma ambientalmente sensibili, per esempio nelle zone sismiche o nelle ‘zone insalubri’, dove insediamenti industriali a rischio, depositi di carburante e così via potranno essere ampliati a dismisura senza il minimo controllo. Intanto, il governo si appresta a varare, in applicazione dell’art. 146 c. 9 del Codice, il Regolamento per la semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche per gli «interventi di lieve entità» (così il Codice); ma nella bozza approvata dal Consiglio dei ministri il 10 giugno 2010 classifica come ‘di lieve entità’ gli incrementi volumetrici fino al 10% o fino a 100 metri cubi, demolizioni e ricostruzioni nel rispetto della sagoma e della volumetria, e altre modifiche tutt’altro che lievi. […] (pp. 259-272)
Noi, i cittadini. Fuori luogo.
[…] Il degrado di cui stiamo parlando non riguarda solo la forma del paesaggio o dell’ambiente, e nemmeno solo gli inquinamenti, i veleni, le sofferenze che ne nascono e ci affliggono. Riguarda un complessivo declino della società italiana, della vita politica, delle regole del vivere comune. Riguarda la corruzione diffusa, l’uso disinvolto delle leggi, l’enorme evasione fiscale tollerata (cioè autorizzata) da governi d’ogni segno, il ruolo delle mafie nella vita pubblica e nell’economia. Riguarda la manipolazione delle notizie e la monetizzazione d’ogni valore, il cartellino del prezzo attaccato alle Dolomiti e ai quadri di Caravaggio, riguarda gli slogan perversi sui ‘giacimenti di petrolio’ dell’Italia, sul nostro patrimonio visto come un serbatoio da svuotarsi in fretta per far cassa, senza nulla lasciare alle generazioni future. Riguarda la bassa sicurezza sui luoghi di lavoro, la crisi della Sanità, le differenze sempre più marcate da Regione a Regione che violano l’egual diritto alla salute di tutti i cittadini (art. 32 Cost.). Ma questo vastissimo orizzonte di crisi non è una buona ragione per rinunciare a un discorso specifico sull’ambiente e sul paesaggio, né per metterlo in sordina perché «ci sarebbe ben altro di cui parlare». […] È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe. […]
È oggi più che mai necessario parlare di paesaggio. Lo è perché ognuno dei problemi che ci affliggono (dunque anche il paesaggio) merita una specifica attenzione. Ma anche perché il paesaggio è «un entre deux fra la sfera dell’individuo e la sfera della vita collettiva» (Massimo Quaini), e dunque rappresenta una straordinaria cartina di tornasole, un test per intendere come il cittadino vive se stesso in relazione all’ambiente che lo circonda e alla comunità in cui vive. Quale importanza annette alla propria salute fisica e mentale, quale ruolo assegna alla storia, alla cultura, all’identità dei propri luoghi e del Paese, in qual modo interpreta la gerarchia fra l’immediato vantaggio del singolo e il pubblico interesse della collettività, fra i tempi corti degli affaristi senza scrupoli e la lungimiranza della Costituzione. Se è in grado di comprendere che i danni al paesaggio ci colpiscono tutti, come cittadinanza ma anche come individui: uno per uno. […]
Il paesaggio è il protagonista di questo libro. E un protagonista che cambia nome volentieri, si chiama talvolta ‘ambiente’, talvolta ‘territorio’: e sotto ogni avatar suscita cupidigia, innesca nuove norme, attrae altri barbari, provoca nuove aggressioni. E invece no. Protagonisti di questo libro siamo noi, i cittadini, che nel paesaggio territorio ambiente viviamo la nostra vita ogni giorno.
Che respiriamo l’aria inquinata dai suoli martoriati, e assistiamo alla morte dell’agricoltura di qualità in favore di prodotti sempre più insapori. Noi, che vediamo spianare dune costiere, abbattere oliveti e pinete, ricoprire di cemento spiagge e prati montani, vediamo boschi che invadono valli già coltivate a vigneto, mentre altri boschi vengono selvaggiamente abbattuti. Noi, che dalle generazioni passate abbiamo avuto in dono un’Italia ricca di valori ambientali, e non sapremo fare altrettanto con le generazioni future; che stiamo tradendo noi stessi e i nostri figli. Noi, che vediamo le nostre città dilagare e dissolversi in anonime periferie-sprawl, e sappiamo che in quell’ambiente senz’anima cresceranno milioni di cittadini, nessuno dei quali saprà davvero che cosa è (meglio: che cosa fu) il paesaggio italiano fino a ieri celebrato.
Siamo, ci sentiamo fuori luogo. Siamo spaesati, in senso sia metaforico che letterale. Non ci riconosciamo negli orizzonti (fisici e politici) che ci circondano. […] I nostri centri storici, eredità preziosa ma fragile, tendono a perdersi entro le periferie che li assediano, capovolgendo ogni gerarchia: piazze medievali, cattedrali e palazzi comunali stanno per diventare una sorta di quartiere dei giochi o di shopping center artificiale, più simile alle evocazioni di cartapesta di Las Vegas che alle città di Dante e di Palladio. […]
Figli di una lunga stagione in cui ogni dissenso e ogni proposta doveva passare attraverso la voce dei partiti, stentiamo ad accorgerci che i partiti di oggi sono intenti a tutt’altro. Sopraffatti dalla complessità dei problemi, aspettiamo che qualcun altro se ne faccia carico, ma non vogliamo vedere che le vittime di questo rimando a ‘qualcun altro’ siamo noi stessi; troppo spesso ci chiudiamo in un imbarazzato silenzio.
Ma è davvero fuori luogo prendere la parola, in quanto cittadini, quando intorno a noi «una minoranza senza principi distrugge un patrimonio che appartiene alle generazioni che verranno» (Theodore Roosevelt)? Siamo tanto smemorati ed estraniati dal nostro ambiente, ci sentiamo tanto fuori luogo da doverci rassegnare al silenzio degli ignavi? (pp.282-287)
Cantiere di smontaggio
[…] Per ricomporre in uno le diverse visioni, e tornare dai tornei di parole alla concretezza, sempre più minacciosa, dell’ambiente che ci circonda, è necessario ripartire da capo. Da capo non vuol dire ‘da zero’, vuol dire ripartire dalla legittima difesa della nostra salute e del nostro benessere, vuol dire ripartire da un senso alto e generoso della nostra comunità di cittadini, del pubblico interesse, dei diritti delle generazioni future: un tema, quest’ultimo, che è oggi sempre più esplorato, ma che non è affatto una novità. Questo e non altro volle dire, infatti, la radicatissima tradizione della publica utilitas e del bene comune che oggi si vuole estirpare come fosse gramigna. Questo e non altro vuol dire la lungimirante architettura di valori massimamente rappresentata dalla nostra Costituzione, molto citata e poco attuata. Per ‘ripartire da capo’ occorre farlo collegialmente: i cittadini da cittadini (sforzandosi di capire il gergo degli specialisti), gli esperti usando al meglio le proprie competenze di settore, ma ricordandosi di essere prima di tutto cittadini, e che è loro dovere rispettare, se e in quanto professionisti, alti principi etici e deontologici. […]
Lo statuto dei beni pubblici è complesso, perché essi sono «dispersi in mille rivoli, in classificazioni formalistiche del Codice Civile, nonché in una miriade di leggi e leggine speciali» (Ugo Mattei): perciò la Commissione Rodotà ha provato a metter ordine, usando come guida i valori della Costituzione, poiché – scrive ancora Mattei – «il regime giuridico dei beni pubblici costituisce il fondamento economico e culturale più importante per la realizzazione del disegno di società contenuto nella Costituzione stessa». La Commissione Rodotà ha individuato alcune categorie fondamentali per riorganizzare la materia dei beni comuni, «che si sottraggono alla logica proprietaria tanto pubblica quanto privata, per mettere al centro una dimensione collettiva di fruizione diretta di lungo periodo». Queste le categorie proposte:
1. beni sovrani ad appartenenza pubblica necessaria, «che appartengono alla stessa essenza di uno Stato sovrano», «prioritari rispetto alla possibilità stessa di governare», essenziali insomma alla sovranità dello Stato, come spiagge, reti stradali e ferroviarie, acquedotti, porti e aeroporti;
2. beni pubblici sociali, «fortemente finalizzati, attraverso un vincolo di scopo, agli aspetti misti e sociali del nostro disegno costituzionale», come ospedali, scuole, università;
3. beni pubblici fruttiferi, non vincolati necessariamente all’uso pubblico e perciò sostanzialmente disponibili, ma con «un caveat generale, molto importante»: questi beni «fanno pur sempre parte del patrimonio per così dire ‘liquido’ di tutti noi». Tutti i cittadini italiani «sono titolari pro quota di beni pubblici», onde eventuali alienazioni comportano garanzie e compensazioni per tutti i titolari di tale portafoglio collettivo di proprietà.
La Commissione Rodotà ha lavorato dal giugno 2007 al febbraio 2008. Le sue proposte, di gran lunga le migliori e le più conformi al dettato costituzionale che mai siano state avanzate, sono finora cadute nel vuoto. In luogo di questa concezione dei beni pubblici, che rispetta la Carta e l’interesse dei cittadini come collettività e come singoli, si è avviato un processo diametralmente opposto, che sotto l’etichetta di ‘federalismo demaniale’ borseggia il portafoglio proprietario della cittadinanza (e di ciascuno di noi) e lo ridistribuisce a Regioni ed enti locali, utilizzandolo come una sorta di salvadanaio di terracotta, da fare a pezzi per prelevarne ogni spicciolo e disperderlo al vento. In base alla legge Calderoli, lo Stato cede 19.005 unità del proprio demanio, per un valore nominale di oltre 3 miliardi di euro. Passano a Comuni, Province e Regioni beni del demanio idrico e marittimo, caserme e aeroporti, catene montuose, e così via. Il trasferimento di proprietà comporta che una parte di questi beni diventerà immediatamente disponibile alla vendita. Un’altra porzione passerà invece al demanio degli enti locali e delle Regioni, cioè resterà inalienabile sulla carta: ma la stessa legge prevede una forma strisciante di privatizzazione, e cioè il versamento gratuito di beni pubblici (anche demaniali) in fondi immobiliari di proprietà privata (purché i privati versino nello stesso fondo beni di proprietà equivalente). Si capisce così come mai il monte Cristallo sia stato valutato 259.459 euro, e le intere Dolomiti 866.294 euro («Il Gazzettino», 4 agosto 2010): perché sono destinati a fondi immobiliari, in cui i privati verseranno proprietà di valore ‘equivalente’ onde assumerne il pieno controllo. Fu dunque per questo che quasi 700.000 italiani d’ogni provincia (età media 25 anni) morirono sul fronte della Prima guerra mondiale.
Il ‘federalismo demaniale’ è stato reclamizzato, per esempio dal presidente della Regione Veneto Zaia, come la «restituzione ai legittimi proprietari» (cioè ai cittadini di quella Regione o di quel Comune) di beni indebitamente sottratti da uno Stato-ladrone: un argomento che ha convinto l’’opposizione’, tanto è vero che l’IdV ha votato a favore, il Pd si è astenuto. Tanta concordia non è dovuta a distrazione: evidentemente non solo a destra si condivide il disegno di utilizzare i beni pubblici, come dice la legge Calderoli, «anche alienandoli per produrre ricchezza a beneficio della collettività territoriale», cioè non degli italiani nel cui portafoglio proprietario quei beni erano fino a ieri. «Produrre ricchezza» vuol dire vendere, visto lo stato disastrato delle finanze locali (la manovra Tremonti 2010 ha tagliato a Regioni ed enti locali altri 15 miliardi nel triennio), e visto che secondo leggi recenti i Comuni devono obbligatoriamente presentare ogni anno un «piano di alienazioni immobiliari» allegato al bilancio di previsione; la legge, inoltre, li incoraggia a produrre, intascando una tangente, varianti urbanistiche che consentano la cementificazione del proprio territorio. Come ha scritto efficacemente Galli della Loggia («Corriere della Sera», 2 agosto 2010), «fino ad oggi gli italiani potevano pensare di essere, in quanto tali, padroni del proprio Paese. Ora non più». Col passaggio di ogni decisione dallo Stato a giunte e assessori locali, continua Galli della Loggia, «sappiamo per esperienza che cosa dobbiamo aspettarci: la rovina definitiva del paesaggio e del patrimonio naturalistico del nostro Paese, la sua totale mercificazione-cementificazione. Come accaduto altre mille volte in passato, infatti, élite politiche e amministrazioni locali – anche al Nord, con buona pace dei leghisti – fanno a gara nello stravolgere e distruggere il nuovo patrimonio acquisito sotto la spinta coalizzata degli interessi privati forti e insieme delle minute richieste dei loro elettori, delle invincibili tentazioni tangentizie o magari, nel caso migliore, dei progetti più strampalati. Ci si accorgerà a quel punto di come nei fatti, in questo come in molti altri campi, il potere centrale e le sue amministrazioni diano ben maggiori garanzie d’onestà e d’efficacia di qualunque altro: sia perché comunque gestiti da un personale più capace e selezionato, sia perché più sottoposti al controllo dei media e perciò dell’opinione pubblica. Ma a quel punto sarà troppo tardi. A quel punto, infatti, l’Italia non ci sarà davvero più perché anche dal punto di vista fisico essa sarà virtualmente sparita. E insieme saranno svaniti i valori ambientali e culturali che per secoli essa ha rappresentato». [cit. Galli della Loggia] (pp. 288-294)
Mente locale
[…In molti] esempi, dal microcosmo di un problema locale può nascere, grazie all’associazionismo, alle discussioni, al confronto di cittadini fra loro, all’uso accorto della comunicazione via Web, l’acuta coscienza che il paesaggio è il grande malato d’Italia. Perciò questi comitati sorgono ogni giorno in ogni cantuccio d’Italia: sul traballante scenario italiano del 2010 sono un fatto nuovo molto importante perché capillare, ramificato, massiccio. Perché è la prova lampante della distanza crescente fra i pochi che gestiscono il territorio tra menzogne e furbizie e la moltitudine dei cittadini che non ne possono più. […] [Sul tema dell’acqua] sono stati i cittadini a dettare i tempi, e alle loro indicazioni i parlamentari non possono sottrarsi. Grandi temi sono davanti a noi. La conoscenza come bene comune, l’acqua (e non solo) come bene comune. Qui le persone mostrano più consapevolezza del ceto politico… E necessario trovare forme di collegamento che consentano ad un’opinione pubblica avvertita di dare continuità alle sue iniziative grazie alle opportunità offerte da Internet?» (Stefano Rodotà, Azione civica contro il bavaglio, in «la Repubblica», 17 maggio 2010). Sì, è necessario. Anzi urgente. Partendo da una rete di mille conoscenze locali di disastri e di problemi, è essenziale costruire una rete nazionale, che vincerà la sua battaglia se saprà far leva sull’azione civica come iniziativa volontaria, gratuita, una sorta di legittima difesa di se stessi fatta in nome del bene comune. […] In questo meccanismo di partecipazione, è molto importante il desiderio di ogni singolo cittadino di entrare in gioco personalmente e di essere riconosciuto; di non consumare passivamente l’informazione, ma anzi di contribuire attivamente a crearla.
La conoscenza locale elaborata attraverso la diretta esperienza dei luoghi, attraverso la continua interazione con l’ambiente e col suo modificarsi, è una forza vitale nella conservazione degli ecosistemi e dei paesaggi (lo riconosce la Convenzione sulla biodiversità, 1992, sottoscritta anche dall’Italia). Quando è in gioco la sorte di un intero orizzonte di vita in cui riconoscersi – un orizzonte che può includere musei e monumenti, fiumi, isole, paesaggi, flora e fauna -, l’impegno dei cittadini di quel luogo è ovviamente centrale. Essi possono essere al tempo stesso gli interpreti della conoscenza locale e i guardiani della sua conservazione. Possono sapere meglio di chiunque altro (e senza campagne d’informazione o di ‘fidelizzazione’) perché vale la pena di tenere bene in vista alcuni punti di riferimento, alcune coordinate chiave della loro vita. Possono sapere in che cosa, o fino a che punto, il loro paesaggio può sopportare modificazioni senza perdere la propria anima. «L’attività del vivere e del conoscere uno spazio è un tipo speciale di attività cognitiva», anzi è al centro stesso delle attività della mente. «Il processo di adattamento tra un individuo, un gruppo ed un luogo» genera una forma di «territorialità umana» che «ha a che fare con la sopravvivenza, sociale e culturale oltre che fisica, con l’apprendimento e la cognizione» (Franco La Cecla). Su questa conoscenza locale si fonda l’insistenza della Convenzione europea sul paesaggio sulla «percezione delle popolazioni» come elemento cardine nella definizione dei paesaggi. È un punto importante, ma solo se la percezione locale non agisce come un fattore di decostruzione e di disgregazione, riducendo la tutela a un pulviscolo di scelte puntiformi e incoerenti fra loro. Solo se, pur facendo mente locale luogo per luogo, vorremo agganciare le singole ‘percezioni’ a una visione più ampia e garantita, legata a un sicuro sistema di valori, quale è offerto in Italia dalla Costituzione e dalla mappa delle norme e degli istituti di tutela. C’è una ragione in più per far leva sulla conoscenza locale parlando di paesaggio. È una ragione molto importante: la nostra salute, del corpo e della mente. Ci sono infatti cose che non solo è utile sapere, ma è necessario non tenere per sé: chiunque si accorga di un pernicioso inquinamento, per esempio di un fiume che passa in città o di una discarica nei prati dietro casa, non può limitarsi a organizzare il proprio trasloco (ammesso che possa permetterselo), ma ha il dovere di avvertire i concittadini e le autorità che possono intervenire e rimediare. La lotta all’inquinamento ambientale fa parte ormai di una sensibilità molto diffusa, perciò chi pratica cinicamente il business dell’inquinamento deve far di tutto per nasconderlo (così è accaduto con i rifiuti tossici nel mare della Maddalena). Ma dovremmo essere molto più consapevoli che l’invasione di scorie velenose e illecite nelle nostre campagne e nelle nostre città si accompagna spessissimo a speculazioni edilizie ai danni (anche) del paesaggio e dell’ambiente urbano. […]
Ma c’è un altro tipo di inquinamento, ancor meno avvertito e segnalato dai media: l’inquinamento antropico, lo stress da devastazione del paesaggio, il burnout (esaurimento e disinteresse) generato dal sentirsi ‘fuori luogo’ in casa propria. Già negli anni Cinquanta Ernesto De Martino parlava efficacemente di «angoscia territoriale»: ma pensava all’ansia da sradicamento, quella dell’emigrante strappato ai propri orizzonti, quella che in tedesco si chiama Heimweh e in portoghese saudade. Oggi è su un’altra variante di angoscia territoriale che si appuntano molte nuove ricerche: quella di chi resta nei propri luoghi ma non li riconosce più, insomma una sorta di saudade indirizzata non nello spazio ma nel tempo, verso i nostri luoghi del cuore ormai irriconoscibili perché mostri di cemento li hanno trasformati nell’incubo di un nuovo paesaggio italiano. Sempre più chiaramente emerge da nuove ricerche di sociologi, psicologi, antropologi che lo spazio in cui viviamo (paesaggio-ambiente) costituisce un formidabile capitale sociale, in senso non solo simbolico ma propriamente cognitivo. Ci fornisce coordinate di vita, di comportamento e di memoria, determinate dall’equilibrio (variabile) fra la stratificazione dei segni nel tempo e la relativa stabilità dell’insieme. Costruisce la nostra identità individuale e quella, collettiva, delle comunità di vita a cui apparteniamo. Fonda e assicura la collettività intergenerazionale, garantisce un diritto di cittadinanza aperto non solo alle generazioni future, ma anche ai nuovi italiani di oggi e di domani (gli immigrati). […] (pp. 297-302)
‘Azione popolare’.
[…] Dobbiamo saper recuperare il senso della nostra storia, ricordarci che l’Italia ha avuto un ruolo guida planetario nella storia e nelle strategie della tutela, e che lo ha meritato per la qualità della cultura della conservazione diffusa fra i cittadini di ogni parte del Paese e di ogni classe sociale. Non dobbiamo cercare modelli forestieri, né invocare i commons per rietichettare i beni comuni che abbiamo sempre avuto, ma difendere quelli che abbiamo ancora, prima che i soliti noti provvedano a completare la rapina. Non dobbiamo sentirci ‘indietro’, per poi farci prendere a rimorchio da altre culture; dobbiamo portare la nostra cultura e la nostra tradizione come una dote preziosissima nel concerto europeo, e ambire a fare della nostra ‘eccezione culturale’ legittimata dalla storia un progetto politico per l’Europa che verrà. […]
Dobbiamo essere convinti (e convincere altri cittadini) che la qualità del paesaggio e dell’ambiente non è un lusso, ma una necessità. È un investimento sul nostro futuro e rappresenta, come mostrano trenta secoli di storia italiana, un valore cruciale che ha natura non solo culturale, ma civile ed economica. Influenza direttamente, anzi innerva, la qualità della vita, la felicità degli individui e la ricchezza della vita comune. Non può essere svenduta al profitto di pochi predatori senza scrupoli. A nessun prezzo. Dobbiamo combattere la disintegrazione del paesaggio-ambiente-territorio, concretissimo spazio in cui viviamo, la sua trasformazione in astratta nuvola di parole, subito frantumata fra diverse discipline sorde l’una all’altra, subito polverizzata in un’incomprensibile mappa di competenze amministrative, di attribuzioni e di conflitti.
Dobbiamo battere il miserevole ma frequente controargomento secondo cui la devastazione del paesaggio e dell’ambiente si farebbe non per il profitto di pochi, ma per mantenere o accrescere il livello di occupazione. […] Dobbiamo generare e diffondere la coscienza non solo dei problemi, ma delle soluzioni possibili. […]
Cuore di questa azione dev’essere la convinzione, moralmente e giuridicamente fondata, che l’ambiente, il paesaggio, il territorio (comunque definiti) sono un bene comune, sul quale tutti abbiamo, individualmente e collettivamente, non solo un passivo diritto di fruizione, ma un attivo diritto-dovere di protezione e di difesa. La comunità dei cittadini nel suo insieme (ma anche il sottoinsieme formato da un’associazione nazionale, provinciale, locale, o da un gruppo di pressione che difenda dalla distruzione un bosco, una valle, un’isola) è in questo senso un soggetto plurimo, della stessa natura delle ‘comunanze’ marchigiane, che ancora gestiscono collettivamente le risorse del tempo e del suolo, o dei titolari degli usi civici. Il «popolo», che la Costituzione colloca al centro della vita civile (sin dall’art. 1: «La sovranità appartiene al popolo»), può dunque agire in propria difesa, come espressamente prevede l’art. 118 della Costituzione, secondo cui «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale»; perciò la legge sul danno ambientale riconobbe che «le associazioni di protezione ambientale… possono denunciare i fatti lesivi di beni ambientali dei quali siano a conoscenza» (L. 349/1986, art. 13). Difendere il bene comune oggi vuol dire partire dalla nuovissima nozione giuridica di «comunità di vita», vuol dire ripensare la società in termini di «etica ambientalista».
Esercitare l’azione popolare vuol dire essere consapevoli del ‘diritto di resistenza’, che secondo Giuseppe Dossetti doveva entrare nella Costituzione (intervento alla Costituente, 21 novembre 1946). Le parole di quell’articolo mancato vanno rilette e meditate come un alto ed efficace manifesto della dignità del cittadino davanti al degrado delle istituzioni: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino». Azione popolare è dunque anche diritto e dovere di resistenza collettiva al degrado delle città e delle campagne, al sacco del paesaggio.
Azione popolare nel contesto odierno vuol dire alcune cose diverse, ma convergenti. Vuol dire promuovere in modo capillare (facendo mente locale) singole azioni di contrasto alla devastazione barbarica che ci circonda: ed è quello che le Associazioni nazionali e i Comitati locali fanno molto spesso, e talora con efficacia e successo. Andrebbe fatto ancor più spesso e ancor meglio: e se qualcuno vorrà chiamarla class action per sentirsi alla moda, poco importa purché sia efficace. Azione popolare vuol dire ‘mettere in rete’ le azioni singole, ma anche gli atti coraggiosi di alcuni pubblici amministratori, da Renato Soru, con la sua incisiva azione per la protezione del paesaggio e della memoria storica in Sardegna, al sindaco di Mantova Fiorenza Brioni che ha arrestato la selvaggia cementificazione del paesaggio di Mantegna e ne è stata ripagata, anche ad opera del suo partito, da una sconfitta elettorale; a Domenico Finiguerra, sindaco di un comune minuscolo in provincia di Milano (Cassinetta di Lugagnano), che ha detto stop al consumo di suolo nel suo territorio. Vuol dire utilizzare al massimo e al meglio le crescenti possibilità di networking offerte dallo sviluppo del Web e dei social networks come Facebook per diffondere informazioni, analisi, consapevolezza. Vuol dire esplorare con assiduità e competenza tutte le possibilità legali, per il singolo cittadino e per le associazioni, di esercitare efficacemente e senza sconti il diritto civile di opporsi al saccheggio del territorio rivendicando il primato del pubblico interesse. Vuol dire non accontentarsi di lamentele, appelli e raccolte di firme, ma impegnare tempo ed energie in azioni legali condotte nello spirito della Costituzione, facendo esplodere le contraddizioni insanabili fra il dettato costituzionale e le leggi che lo ignorano e lo aggirano, attaccando frontalmente i contrasti, all’interno della legislazione ordinaria, tra le norme di garanzia e gli ‘stati di eccezione’, le deroghe e i condoni che le annientano.
Azione popolare vuol dire, insomma, non sentirsi più fuori luogo, riconquistare per sé un pieno diritto di cittadinanza, in nome della moralità, della legalità, della storia e del diritto. Perché già nel diritto romano azione popolare e bene comune sono due facce della stessa medaglia. Perché essere cittadini vuol dire essere consapevoli dei legami di solidarietà sociale che sono il cuore e il lievito della nostra Costituzione.
Vedere il bene comune come il fondamento della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza, rivendicare il pubblico interesse, cioè i diritti delle generazioni future. Nella colpevole inerzia di troppi politici (di maggioranza e ‘opposizione’), resta un soggetto che può e deve formulare questi pensieri e questi progetti, lavorando per tradurli in realtà. Noi, i cittadini. (pp. 306-313)
Tratto da: Salvatore Settis, Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino 2010.
Join the Discussion