L’oggetto tempo

Passiamo ora al secondo campo d’indagine dei cantieri del futuro: il tempo, il suo uso, la sua acquisizione e il suo abbandono. Per ragioni connesse alle stagioni, al ritmo dei fluidi nell’organismo delle piante, all’incidenza energetica del sole, all’abbondanza o alla penuria dell’acqua, i vegetali si prendono il loro tempo. Si risolvono allo sviluppo solo quando tutte le circostanze necessarie per lo sviluppo sono presenti. Accelerare il processo li farebbe crescere in condizioni che minaccerebbero la loro stessa vita. Attendono dunque il momento adatto. Il momento buono. Senza credito né debito di tempo. In nessun preciso istante il tempo costituisce un investimento, un oggetto di speculazione: esso è giusto, o non è affatto. L’esempio più valido, eppure quello sul quale si è meno riflettuto, è il seme: la semente in sonno. Il seme trattiene il tempo. In che misura, non lo sappiamo; e nemmeno lui, che attende il momento adatto. Trattiene e cancella il tempo. Tra l’istante della sua nascita dal frutto e il momento della sua crescita, non succede niente. Niente, per settimane, mesi, anni. Talvolta secoli. Questo niente cancella il tempo ma conserva la vita. Forse non ci rendiamo ben conto della straordinaria prestazione di questa vita dormiente. Come si fa a resistere per decenni alle condizioni di vita del deserto, per poi fiorire prontamente in occasione di una pioggia? Come si fa a giacere pazientemente sotto la terra, attendendo l’aratura (il lavoro della talpa?) per svilupparsi? Come si fa a incistarsi tanto efficacemente da resistere al gelo? Come si fa a ridurre la propria respirazione, la propria evaporazione, i propri scambi con l’esterno? Nessun altro organismo è capace di una tale apnea biologica. È il più spettacolare esempio di perfetta e totale economia. E tuttavia il seme è una cosa piccola. È grazie alle sementi che siamo sicuri di poter creare dei paesaggi adatti, poiché esse sanno ciò che noi non sappiamo: la scelta del momento adatto, del tempo giusto. È grazie alle sementi che i giardinieri portano a termine il più onorevole fra i compiti dell’uomo: produrre cibo. Essi hanno tra le mani tanto la vita quanto il tempo, che accompagnano così di stagione in stagione. Ecco perché ogni manipolazione delle sementi, ogni tentativo di esproprio di una specie mediante brevetto – la sterilizzazione d’una specie nella prima generazione o il conseguimento di varietà sterili che spingano al riacquisto – non somiglia soltanto a un crimine; è un crimine.

Il giardiniere di domani non è un giustiziere, non sta a lui ristabilire le regole dell’equità, ma può contare sulle leggi del genio naturale, può comprenderle e assecondarle. Può redistribuire le sementi di propria produzione nell’ambito di un rapporto di gratuità basato sullo scambio fra tempo e potenza inventiva del genio naturale. Non sappiamo con esattezza cosa darà il seme. Sappiamo che ci sorprenderà. Il giardiniere non si scontra con il tempo, lo accompagna. Termino questo percorso nel giardino insistendo sull’oggetto-tempo. Nessun’altra civiltà l’ha così brutalmente maltrattato quanto la nostra. Quelle due nevrosi congiunte che sono la performance e la competitività – poiché rendono l’altro un nemico, non un vicino, e tanto meno un amico – hanno trasformato il percorso in prestazione, il viaggio in spostamento, e la valutazione di ogni cosa in guadagno di tempo attraverso la velocità. Che ne facciamo poi del tempo così guadagnato? Non lo reinvestiamo forse immediatamente in una corsa contro il tempo? Chiunque, pur accidentalmente, non corrisponda alle pretese del sistema si sentirà colpevolizzato, sarà un parassita, un pigro, uno che non ha niente da fare nella società della redditività del tempo, e verrà dunque penalizzato. Nel giardino, il sistema del tempo guadagnato o perduto crolla da sé, non ha semplicemente alcuna ragion d’essere. La terapia naturale del giardinaggio viene dal tempo sospeso, dal tempo che non si domina e che, anzi, in certo qual modo, è quello che ci tiene in piedi. Quando si mette un seme nella terra, con esso è un divenire che si annuncia, mentre il passato si cancella; la nostalgia non ha corso nel giardino. Il giardino è un luogo privilegiato del futuro, un territorio mentale della speranza. Potremmo terminare con queste parole, che aprono la porta su un futuro felice. Prima di concludere, però, propongo un excursus. Rifiutandoci di fondare il nostro sguardo esclusivamente sull’Occidente, andiamo incontro ad altri «mondi», ad altri pensieri, ad altri immaginari, ad altre creazioni, ad altre cosmologie. Il giardino planetario ce ne dà certezza: il modo in cui ci immaginiamo il mondo ha una ripercussione immediata sul modo in cui ce ne occupiamo. Per alcune civiltà, la parola giardino non significa niente. Ero stupito dall’assenza di giardini nei territori degli aborigeni australiani, e le mie domande in proposito restavano senza risposta; questo, fino al giorno in cui venni a conoscenza del messaggio fondamentale di questa civiltà, sotto forma di un lunga poesia dedicata alla creazione11. Lo Spirito, sognando, si rivolse agli esseri viventi e si accertò della loro capacità di sognare, ma, a dispetto di tale capacità, nessuno padroneggiava il «segreto del sogno». Nessuno tranne l’uomo, ultimo essere interrogato nella lista del vivente. Finito questo lungo lavoro, lo Spirito, stanco, si coricò sulla terra, dove oramai riposa. Chi oserebbe disturbarlo, rivoltare il suolo, ferire la terra? Cosa può significare un giardino, entro queste condizioni?

Il mito aborigeno australiano è in consonanza con una storia umana in cui il nomadismo trasformava il territorio in provveditore del bene comune: un giardino senza giardiniere. Tutto il contrario di ciò che abbiamo appena detto. L’ora di «lezione» appena trascorsa potrebbe essere vista anche come una «controlezione» in cui una più avanzata visione del genio naturale, un altro mondo, in sostanza, venga analizzata alla stregua di una minaccia per l’esistenza del giardino e del paesaggio, quali almeno le nostre civiltà li hanno immaginati e sviluppati. Questa prospettiva può forse aiutarci a inventare un modello nuovo, adatto alla finitezza dello spazio e alla fragilità della vita su questo pianeta. Avremmo però bisogno di un po’ di tempo. Non questo tempo dell’urgenza e della competitività, ma quello della creazione, territorio permanente della sovversione, e dunque dell’arte. Invito dunque i perdigiorno, i presunti inutili, i lenti, i sinistrati della velocità a costruire il progetto di domani. Abbiamo bisogno della loro resistenza alla risposta immediata, della loro ca pacità di stupirsi, di prendere tempo e di lasciare che il tempo segua il suo corso. Insieme po tremo soffermarci sulla semplicità di un fiore (fig. 11) che brilla nella luce annunciando un frutto, una nuova avventura, un seme, quindi un’invenzione. Potremo disegnarlo e forse dargli un paesaggio. Potremo ad dirittura dargli un nome. E allora esisterà.

Tratto da: Gilles Clément, Giardini, paesaggio e genio naturale, trad. it. Giuseppe Lucchesini, Macerata 2013.

Titolo originale Jardins, paysage et génie naturel; prima edizione Parigi 2012.