Longevità, patologia individuale e sociale. Ma sfoghiamoci almeno a dirla, qualche verità malvista! Vivere oltre un certo limite è subire un lento, prolungato, implacabile martirio. Quanto viveva il pre-uomo dei paleontologi? Se arrivava a vent’anni era molto, poi qualche animale selvatico con denti enormi s’incaricava di togliergli le pulci. Milioni d’anni di vita breve ci hanno educati a comprendere meravigliosamente l’infinita sacralità della morte, a collocare la reale durata della vita in un ignoto Altrove. Un mattino del secolo in cui gli attuali longevi sono nati, ci siamo svegliati, ed ecco la sacralità della morte era sparita, il suo nome diventato impronunciabile, un delirante apparato medico-chirurgico a sbranarne i resti, a far vivere in coma di spavento senza limiti di durata uno stuolo di sventurati Ariel Sharon, una moltitudine di sventurate Englaro. La morte desacralizzata si vendica: «Ah, avete cambiato le regole, e allora godetevi l’accanimento, le dialisi senza fine, gli Alzheimer senza un barlume, i trapianti d’organi strappati a ragazzini sani venduti per fame e trafficati da immonde Tortughe di malavita!».
Un segno di disumanità della cosiddetta politica, uno dei tanti: non preoccuparsi che dei giovani, senza altro saper fare per loro che condannarli al lavoro, al salario, alle riunioni di condominio, a riprodurre in anime innocenti l’infelicità e i vizi dei loro padri e madri. Ma l’empietà e il torvo spettacolo di questa moltiplicazione insensata e tragica di vecchiaie perché non entra nelle diagnosi dei predicanti?
Fino a qualche anno fa, nelle città nostre e d’Occidente, il mio stesso invecchiare senza difficoltà deambulatorie mi rendeva orbo di fronte all’impressionante quantità di gente invalida per schiena e gambe, in avanzata senescenza, tutti sostenuti o sospinti da parenti o da badanti, sguardi gonfi di tristezza, facce oscurate dall’istupidimento. Gli cedevo il passo, ma li vedevo come da un cannocchiale rovesciato, reduci tutti da uno struggle for life che non risparmia nessuno. Adesso, diventato uno di loro, sbendato dal velo d’Iside, li vedo, che a metterli in fila l’Autostrada del Sole non basterebbe. E tutti ci curiamo per durare di più, perché tutta la ricerca, minimamente interessata alla restitutio in integrum dell’essere umano, è massimamente occupata dalla conservazione indefinita di corpi malati in condizioni esistenziali e ambientali che non abbiamo speranza di migliorare. Perciò la vecchiaia è la patologia sociale per antonomasia; una società che non voglia essere di assassini legali è obbligata a farsene carico, e allora l’assassinio assume la grinta dell’assistenza seminegata, tinta o impregnata di sadico, gridante carenze croniche, o fondata sulle possibilità individuali di spendere senza limiti il risparmiato. Ma l’essere o no maltrattati o maltollerati dipende da più o meno di sfortuna; va meglio in rari casi di affetti perduranti, di simpatie alonanti.
Viagraaa!! Una immondizia chimica per ridare le corna cadute al vecchio toro che piange – ecco il rimedio tecnico che ci infilano in tasca per riaccendere uragani di passione condivisa in letti senza speranza! O trapianti di testicoli? (Nessuno ride).
Il desiderio erotico residuale è una variante in più di martirio, per la sua tantalica insoddisfacibilità.
La nostra longevità ha un risvolto di delitto perché la sperimentazione farmacologica costa lo sterminio di milioni di piccoli, e a volte grandi, animali per museruolare e frenare il Tempo divoratore. Si tratta di torture indicibili, si può dirlo un lavorare degno di un uomo questo bell’incremento di pil a prezzo di deboli lamenti dietro la parete bianca, rossi semafori di carneficine in corso?
Nelle case di cura la concentrazione di vecchiaie spezzate dall’anca, dal femore, dal polso, dal gomito, che vedi accompagnate negli ascensori, nei refettori, nelle palestre di riabilitazione, è un continuo pugno di pietà. Esistono esclusivamente per durare e per aver paura di quel che gli accadrà il giorno dopo. I figli li tormentano perché non mangino «quel che gli può far male» e ubbidiscano alle prescrizioni: temono di far trapelare il loro desiderio di accorciargli la vita, perciò li cacciano sempre più spietatamente nella buca senza fondo della perseveranza nel tempo. Amore non ne vedi, è impalpabile o del tutto inesistente negli infernali rapporti familiari, il refrigerio dei sentimenti, della gratitudine manifesta, nella società tecnologica è lingua mozza. I vecchi sono problema e niente, niente, niente altro…
Un problema. Ma sono stati, quando erano pochi, i venerati, i temuti, i legislatori delle giungle antropòfaghe. «Hai ridato il sonno tu, ai miei occhi» canta il Coro della città di Tebe a Edipo scoronato. Solo nei bambini sopravvive, forse, nelle famiglie, la facoltà di sentire la potenza magica salvatrice del vecchio. I bambini ignorano che i vecchi sono stati declassati a problema.
Insolubile, s’intende. Un problema, riconosciuto insolubile, ci riscatta dalla facilità e dalla volgarità. Longevità in eccesso: insolubilità sociale dal volto ambiguo.
Il bambino, provenendo dal regno dei morti, sente nei vecchi la vicinanza al luogo anteriore del nascimento, e questa è la ragione della sua confidenza, anche per quelli non della sua famiglia. Noi vecchi siamo consapevoli, ogni minuto lo siamo, ed è una tremenda sofferenza trovarsi tuffati nella Rimozione, di essere costretti a fingere che più la nostra vita di penuria e di noia si prolunga, più siamo felici di leccarne le impronte sulla sabbia, che sono le stesse dell’Angelo Sterminatore.
Vivere in Morte di Dio è diventato difficilissimo, soltanto gli imbecilli (in verità molto numerosi) non se ne accorgono.
Dai dialoghi con la Morte nel più famoso film di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo. Il Cavaliere crociato Antonius Block gioca a scacchi una partita mortale con l’Angelo nero, e gli confida i dubbi che hanno, per quasi novant’anni, tormentato il grande Regista:
CAVALIERE: Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me in questo modo doloroso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? Mi ascolti?
MORTE: Ti ascolto.
CAVALIERE: Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio che Dio mi sveli il suo volto, che mi parli.
MORTE: Ma Lui tace.
CAVALIERE: Nelle tenebre io lo chiamo, ma è come non esistesse.
MORTE: Forse non esiste.
CAVALIERE: Allora la vita è un assurdo orrore. Nessuno può vivere con la morte davanti agli occhi sapendo che tutto è nulla.
MORTE: La maggior parte della gente non pensa né alla morte né al nulla.
Nel tormento del Cavaliere Block, Bergman recupera, entro i limiti del nostro tempo, per quanto ci è dato, la sacralità della morte. L’anno Zero sta venendo per una quantità di cose, ma il germe del loro ritorno è scritto, per la loro inseparabilità dall’essere. Così la Morte di Dio ride, per la sua essenza mortale, a ogni futuro di divinità assenti. Ma una vita ridotta a un «assurdo orrore», come il Cavaliere dice alla Morte, ed è quella in cui ci hanno conficcati con l’obbligo di non uscirne che ridotti cadaveri viventi, non può essere pensata e vissuta che come una ossessiva vergogna. Conferma la verità dell’aforisma di Ennio Flaiano: «Sei stato condannato alla pena di vivere. La domanda di grazia, respinta».
Tratto da: Guido Ceronetti, Tragico Tascabile
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