Ovunque ci volgiamo nella bufera di rose
La notte è illuminata di spine, e il rombo
Del fogliame, così lieve poc’anzi tra i cespugli,
ora ci segue alle calcagna.
Ingeborg Bachmann
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L’Apocalisse viene dopo. La catastrofe, la caduta degli astri, l’ultimo giorno: tutto questo è aggiunto, interpretato, quasi posticcio. Se in principio fu l’Apocalisse di Giovanni, su ciò che si dice nel testo di partenza è stata rovesciata una rete interpretativa, e apocalittico ha trovato la sua collocazione nei dizionari, accanto a bovarismo, donchisciottesco, kafkiano.
«Tra le parole diventate ormai insoffribili, per la loro laida degenerazione in luoghi comuni, c’è apocalittico, che bisognerebbe gettare in un bagno d’acido a ripulirsi dalle croste vergognose dell’uso improprio e della ripetizione estenuante». Così, perentorio e iconoclasta, Guido Ceronetti.
Nonostante questa affermazione, dire che Ceronetti è scrittore apocalittico non è blasfemo né discutibile. Basta scorrere i suoi interventi sulla stampa, poi raccolti in volume, le sue note critiche. Paolo Milano recensendo nel 1975 La carta è stanca, lo definì «cronista dell’Apocalisse». Ed è rivelatrice la descrizione che di Ceronetti fa il filosofo Cioran:
«La sua aria d’uomo che non è di nessuna parte, la sua aria d’inappartenenza originaria, di predestinazione all’esilio quaggiù, mi ha fatto pensare immediatamente a Myskin. (…) Dà l’impressione di un uomo ferito, allo stesso modo, sarei tentato di aggiungere, di tutti coloro cui fu negato il dono dell’illusione. Tra tutte le persone, le meno insopportabili sono quelle che odiano gli uomini. Non bisogna mai fuggire un misantropo».
E’ necessario tornare, per intendersi, all’opera primaria. La vera Apocalisse è una specie di panopticon che parte dall’abisso e all’abisso ritorna. Giovanni, ovvero il sapiente di Patmos, scrive in forma visionaria l’interpretazione evangelica sul senso della storia umana. Dell’originale greco, un idioma seriale, trascurato, secondo i suoi esegeti, eppure ricco di iperboli e di anafore, è stata fatta da S. Girolamo la versione latina, ma «la traduzione di S. Gerolamo e il testo di Giovanni sono come due cavalli che tirano a bordi contrapposti, che continuamente scartano». Lo svelamento avviene in un passaggio da Dio all’angelo a Giovanni che testimonia quel che vede. Una porta nel cielo è ingresso della visione, una voce ordina di scrivere quel che appare e Giovanni si volta «ut viderem vocem», per vedere la voce. Che è definita voce di molte acque e spada larga, acuta, a due tagli.
Ceronetti è apocalittico se carichiamo la parola di più significati: profezia, paradosso, abisso, preghiera, rivelazione.
Apocalisse è profezia, ma non nel senso del pre-dire né del pre-vedere. Il profeta non vede il futuro, vede il presente. Vede nel presente quello che gli altri non vedono, e dice del presente quello che gli altri non vogliono ascoltare. Il profeta parla prima, parla davanti, in pericolosa confusione tra pro/feta e pro/fessore. Vede, e parla, prima degli altri perché deve far vedere, far ascoltare, torcendo il muso dell’umanità renitente perché sia costretta a guardare. Per questo c’è bisogno di un’altra lingua, e lui, come profeta, ne possiede il vocabolario, se ne può fare traduttore. Apocalisse è anche alfabeto di segni che permetta all’umanità di prevedere le svolte traumatiche del suo cammino, inteso come tempo a termine in una Einbanhstrasse, una benjaminiana strada a senso unico, fitta di segnali da decifrare.
Apocalisse è paradosso, pensiero paradossale nel senso letterale del termine, cioè “al di fuori della doxa”, dell’aborrita opinione comune, che Ceronetti ama provocare e scandalizzare.
Apocalisse è dysangelium, annuncio al negativo, cattiva novella, avviso della fine: «il cielo verrà arrotolato come i fogli di un papiro, le stelle cadranno come fichi da un albero piegato dal vento». «La paura dell’apocalisse – segnala Ceronetti in un articolo sul “Dopo dei Dopi” – si fissa alla paura umana della morte, che come diceva Ingmar Bergman è venire “trasformato da qualcuno in nessuno”. L’errore che fa nodo è nell’immaginare un confine. Ma è metafora inamovibile dal nostro immaginario mentale. Essere liberi dalla rimozione della morte dipende da una modalità del costume linguistico, da uno specifico coraggio linguistico», che svela e nomina l’ora che viene. « “L’imminente è imminente” dice il Corano nella sura della Stella: l’Ora era, è vicina sempre».
Il verbo greco “apokalyptein”, da cui deriva il sostantivo “apokàlypsis” significa, in senso materiale e figurato, “scoprire”, “togliere il velo”, “rivelare qualcosa di nascosto”, svelare o meglio develare. Interessante prossimità con la parola greca “alètheia”, che per indicare la verità passa ancora attraverso un atto di svelamento. Celare, cella, l’avverbio latino “clam”, derivano tutti da kalypto, mentre il greco ha anche krypto da cui cripta ecc. Kalypto è raro nel greco classico, mentre assume importanza in traduzione dell’ebraico “galah”, vocabolo molto presente nell’antico Testamento, che ha il senso della “contemplazione” , e quindi ancora di attenzione sullo sguardo che si volta su se stesso, che fissa e attende. Sguardo vedetta. «Però qualunque sii il punto di questa sera ch’aspetto, si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch’è, o è cqua o llà, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi» scrive Giordano Bruno nelle parole di dedica al Candelaio.
Sicuramente apocalittica è l’immagine che Guido Ceronetti dà del tradurre nella prefazione ai Carmi di Catullo: che è danzare «con un decapitato». Si riferisce in particolare alle traduzioni del “molto lontano da sé” (il greco, il latino, l’ebraico, l’aramaico), condotte instancabilmente, nella sua lunga vita (ha compiuto ottantanni l’estate scorsa).
Nell’introduzione alla sua traduzione da Marziale, oltre a riandare all’eccitazione e al piacere provati nei lontani anni Sessanta, anni impegnati nell’opera di «riscrittura», rappresentati con la posizione di un «inginocchiato sulla pietra dura dei linguaggi morti», raccomanda al lettore di imparare il latino. Così, «invece di Ceronetti – ammonisce il medesimo – leggerai Marziale». Nel Libro dei Salmi dichiara che «nessuno ci darà mai un antico testamento italiano, completo, grande, decisivo: un buon motivo per imparare l’ebraico».
Recentissimamente ha protestato per l’abbandono della Messa in latino, e non per ragioni religiose:
«Non va trascurata la bruttezza, l’imprecisione, l’inadeguatezza delle traduzioni adottate, bibliche e liturgiche, nella messa conciliare. Basterebbe quel “e col tuo spirito”, così letterale e così patata, di risposta a Dominus vobiscum… Che cosa s’intende per spirito? Che cosa rinvia di più al semplice vobiscum dell’officiante lo spiritus della risposta? Basterebbe quello sviante “togli” letterale per tollis in Agnus Dei qui tollis peccata mundi, perché il senso è al mille per mille “porti”, secondo l’imprescindibile origine biblica da Isaia 53,7 dov’è pura metafora e non prefigurazione messianica. L’Agnello divino porta, si carica dei peccati, altro non può fare, non toglie nulla, non cancella nulla, sarebbe una cuccagna! Il senso del verbo latino tollo è pregnante ma anche a portata di dizionario, consiglio di dargli un’occhiata».
Non è la distanza temporale con un testo che spaventa Ceronetti nell’opera di traduzione, ma la confusione che si è ingenerata tra linguaggio comune e Poesia.
«L’orrore della vita ci è rannicchiato dentro, come un perpetuo feto. Ogni nuova traduzione che tento di un testo antico mi porta questa paura: come agirò con lui se non ne conosco il dio? Il dio è introvabile e il rapporto col testo somiglia a un ballo col decapitato. Quando un poeta moderno converte nel proprio linguaggio un poeta antico, avrà compiuto un assassinio. C’è sempre odore di animale abbattuto, dove il passaggio da una poesia a un’altra ha avuto luogo. Al testo di regola bisogna aderire, perché muoia bene: non si può dire che uno che uccida con le proprie mani non aderisca anima e corpo alla sua vittima. Il rapporto testo-traduttore è dei più stretti e mortali, e la distruzione è portata nel testo ancora prima che sia stato tradotto, se si è non troppo stupidamente vissuto».
Ricorre nel pensiero ceronettiano il legame tra traduzione e morte, tra traduzione e linguaggio altro.
Scrive tra i suoi aforismi: «Ecco che cosa è in profondo tradurre: esercitarsi, non in una lingua, ma a morire. Lungo la via si manifestano compagni che non ti abbandoneranno» e anche «Il mistero del linguaggio non è dei soli viventi ma abbraccia i morti». E poi: «Imparare le lingue è soltanto utile. Nelle lingue imparare qualcosa del linguaggio è l’essenziale. Pervenire fino alla parola è l’unica cosa che conti. C’è di più, ancora: toccare il suono, la vibrazione». Nel tradurre dunque si agisce a livello alchemico, perché si può «intravedere dallo spioncino il ribollimento dell’inconoscibile, la presenza costante, dentro le parole che il fornello ha salinizzato, dell’abisso…». Come se la traduzione permettesse di avvicinarsi ad una essenza, ad una energia cosmica, ad un dio; letteralmente, “ut viderem vocem”: per vedere la voce.
In un articolo in cui ripercorre la sua vita come in un esame di coscienza, analizzando il suo mestiere di traduttore Ceronetti riconosce di interpretare i testi con criteri molto personali, «esasperando il movimento tragico, tagliando il più possibile i draghi della pietas intorno all’autonomia della parola sacra. Il dio d’Abramo lo riconosco dal tuono; anche questo è un dio che s’incarna in un linguaggio; la sua verità avrà i limiti di questo linguaggio? E si può tradurre questo Dio in un altro linguaggio, contaminato da altri Dei, da presenze che lo disturbano? Lo faccio bene, dicono: questo aggrava la mia empietà. Il cattivo traduttore non danneggia l’Abitatore dei testi, perché non ne sposta niente; ma la buona traduzione potrebbe riuscire a spostarne qualcosa. So bene di essere fuori da questi testi che ho addentrato. La mia giustificazione è che mi abbiano scelto per far colare in un altro stampo qualche tratto della loro immagine».
I testi dunque che scelgono l’interprete, che lo chiamano per essere aperti.
«L’ultima parola sarà sempre quella di un uomo solo, che scava i fenomeni col proprio pensiero, riceve immagini dall’ignoto, lotta col male morale e metafisico, sente le analogie, profetizza e ragiona. Dobbiamo avere scorte di parole non labili, antiche e moderne, per fulmineamente applicarle, con strabismo infallibile, nei punti inconsueti, nei luoghi improprii, dove c’è più fame e meno speranza di loro».
La questione sta in quel coraggio linguistico di cui si parlava all’inizio e che corrisponde allo sguardo apocalittico, alla fiducia nella parola come carne, come luce “che si mangia” («La langue, rien que la langue,/voilà l’important» è citazione di Céline, riportata da Ceronetti in una sua prefazione) che sia “sfida di parole viventi”, “ferita che ama”, “porta” di un significato importante per la sopravvivenza – non semplicemente la correttezza filologica, anche se è necessaria, ma il passaggio a un livello ulteriore, profondo, che giunga all’inermità dell’uomo. Il traduttore come medico delle parole, «insetto chirurgo» cui piace «specillare qua e là dentro la storia». Medicare che è come pregare: azioni tutte profondamente umane, alle radici dell’umanità.
«Dire uomo è dire preghiera, essere orante, fatto per essere abitato, indossato, riempito d’echi dalla preghiera. […] Si prega, recitando(lo)? Io ne ho ricevuto della calma, traducendo(lo) infinite volte… Tradurre è meditare. Ho meditato realmente solo sui testi che ho tradotto o che ho pensato, sui treni delle letture perdute, come tradotti; su parole isolate ho anche più lungamente meditato; ne ho ricavato, a mia volta, isolamento, si sta come su un scoglio, contenti. Pregare è un po’ come credere che la fine del mondo sia già avvenuta. Parlando del buio siamo già usciti dal buio, la preghiera ne anticipa il dissolvimento del mondo. L’uomo che prega non è necessariamente migliore dell’uomo che non prega! Ma ha uno sfogo, ha nel corpo un foro in più».
E’ interessante notare come in Ceronetti la preghiera e la poesia siano forme di apertura a una conoscenza più profonda della condizione umana, della sua infimità. L’uomo parla sempre de profundis. Il Salmo 130 tradotto da Ceronetti suona «Dalle bassure ti invocherò Signore»: da un luogo profondo non si può che gridare, chiamare l’alto, la disperazione è esclusa. Il nostro chiamare è dall’esistenza, dal cuore, dal nulla, dal deserto. E dio è l’abisso spalancato di cui ha conoscenza la cerva del salmo 42, altro elemento di forte meditazione per Ceronetti. Le bassure sono anche il cespuglio del ginepro, a’arar, da cui il derelitto chiama. Nello Zohar, il Libro dello Splendore, si dice: «Vieni e considera. Il pensiero abissale è il principio di tutto. Per il fatto che è pensiero, si trova all’interno, segreto e non palese. Spingendosi oltre il pensiero giunge laddove si trova il respiro (ruach)» E Dio guarda la preghiera che viene dalla nullità.
«Il vuoto non può che essere orante, non può che attendere. L’attesa è una strana salvezza, chi abbraccia questa forma di tempo non ha altro da fare che attendere, e intanto bramire, lamentarsi, pregare. Più gridiamo frattura, più armonia provochiamo».
Sulla stessa linea riguardo alla preghiera incessante, pur con un retroterra religioso diverso, scrive nel 1967 sul Giornale d’Italia Cristina Campo, altra traduttrice singolare: la giaculatoria che deriva il suo nome appunto da jaculum, dardo o freccia scoccata, il pregare come si pulsa o si respira, sono strumenti di apertura. «E’ certo che se l’uomo conoscesse la sterminata potenza della sua anima quando un costante movimento verticale l’assicuri come un canapo a Dio, persino un mondo qual è il nostro cesserebbe di atterrirlo, e beninteso, di affascinarlo»
La traduzione si apre alla dimensione etica, perché, come sostiene Berman, è «nella sua stessa essenza, animata dal desiderio di aprire l’Estraneo in quanto Estraneo al proprio spazio di lingua».
Quello che in Cristina Campo è composta liturgia, poesia e riti, lentissima precipitazione in attesa di una rivelazione, in Ceronetti è consapevolezza dell’essere “pedina di dolore”, “cammino di morte”, muggito. Per questo negli anni ottanta, dopo le grandi traduzioni bibliche, il Cantico, Giobbe, i Salmi, il Qohelet, più e più volte riscritti, prepara un libro di traduzioni come «manuale di difesa mentale dall’invasione delle tenebre». Lo definisce talismano, parola che tra l’ arabo e il greco (telesmena) significa “cose consacrate”, figure con una loro relazione con gli astri. Si tratta di una antologia di testi tradotti che lungo l’arco dei secoli e delle terre sono «testimoni volontari, non messi apposta, né cercati». Nella postfazione, intitolata “Poesia e solitudine”, dà conto del suo agire.
«Il tragico che si rapprende in parole, che urla nelle scritture ci ha consegnato Salamov, Celine, Beckett, un mucchio d’immagini dove io rovisto tutto il giorno, buco nero della maschera di Dioniso. Del tragico di ieri dovremmo farci scorte come si fa nei rifugi atomici, e rimangiarne instancabili, perché c’è il rischio che ben presto, infelicità e sciagura non siano più che pretesti e vie per l’inebetimento, il rischio che la fascinazione della stupidità e l’eccesso dell’infamia rendano muto anche il tragico, incomprensibili, persino inudibili gli ululati di dolore e non sia lasciato spazio che all’insignificanza»
In lotta con l’inebetimento Ceronetti concepisce una parola profilattica, stornatrice del male, un atto di pietà contro quella tenebra che è tanto avvolgente da far sì che si stenda la propria mano e non si riesca più a vederla. Allora i testi poetici tradotti – dal Corano, a Saffo, a Blake, a frammenti di Zola, a poesie di guerra contemporanea, sono «pane di carta e di carte». Più volte, come un verso molto meditato, cui aderisce con tutto se stesso, Ceronetti richiama il Qohelet 11,1. «gettalo all’acqua il tuo pane/i giorni in cui ne trovi/non li conterai». Ne discute la traduzione, le interpretazioni successive. Nelle parole poetiche ritrova il pane «che avevo gettato alpenè hammaim, sulla faccia dell’acqua, e che credevo relegato nei fondali del Quasi nulla! Che cosa c’è di meglio che ricevere gratitudine in cambio di un quantusculum, nell’infinito, di tenebra scostata?»
«La lettura di questi testi è catarsi: di cui è artefice la lingua, il traduttore non trasmettendo che il sentimento e l’anima in penombra, non può provocarle. In italiano provoca lacrime il suono del Tasso nella Gerusalemme, il suono (non il sentimento) di Leopardi: chi li legga tradotti resta asciuttissimo. Non è la storia della Pia a fare che la voce tremi, è l’inesorabile monacatura del suono nel verso “ ricordati di me che son la Pia” . Allora la traduzione viri sulla cattura di tutti i segmenti mentali occulti che può acchiappare e i combaciamenti di luce possibili, se non vuole restare inerte. Una geografia emotiva».
Su questa strada, anche l’uso di frammenti di traduzioni, come barbagli di luce, la vera e propria ermeneutica del frammento, viene giocata per scostare la tenebra. «Un breve insieme di parole con su impresso un sigillo arcano, di parole viventi, che respirano, non è cosmo, sistema planetario? Non è tutto il finito, tutto l’abisso? Sempre più i presocratici del Diels li si pensa corpus di interi, non mucchietto di code di lucertola. Solo nei frammenti, in ciascun frammento giace l’essenza (è certezza moderna e occidentale) di una rivelazione (pessimisticamente in profondo negata al rotolo, al capitolo intero)».
Non alla grande opera quindi ci si affida ma ai residui, nella consapevolezza che l’uomo non è più altro che essere mortalmente amputato, smembrato, ma pur in questo intero. Sono le immagini di Hernandez a parlare all’ultimo Ceronetti: basta «un pedazo» per vivere; «un residuo di carne è un uomo intero». Il treno delle traduzioni continua ad attraversare la notte senza fine, come dice Hernandez «detenei ese tren agonizzante/que nunca acaba de cruzar la noche» : «fermatelo quel treno in agonia/attraversante notte senza fine». E se il margine si allontana senza per noi poterci entrare, come Mosè nel deserto, almeno il pane gettato nell’acqua avrà condotto altri più vicino alla meta.
Negli ultimi anni un passo ancora in avanti dell’irriducibile Ceronetti lo porta a scommettere e a spendersi sulla lettura ad alta voce, sul teatro di attori o di marionette.
«Molta vita questi testi mi hanno carpita, molta me ne hanno data; oggi vorrei ritrovare i suoni. Chiedo disperatamente aiuto alla scena, a quel vacuum». Ne esce un volumetto, Siamo fragili, spariamo poesia, che non è più solo un’antologia ma è un copione, costruito per passione del verbo magico guaritore, fatto di soffio e di saliva. «Occorre la parola vocale».
Nell’introduzione al libro di Giobbe, aveva scritto: «Soffrire è il mio mestiere d’uomo, e non facendolo passabilmente rischierei di morire scontento. […] Il pane che ho gettato so che lo ritroverò». E nel 1988 aveva progettato una messinscena del testo, un quadernetto per Franco Parenti, che poi si arrestò per la morte di quest’ultimo. Nelle note per la messinscena, pubblicate nell’edizione del libro di Giobbe del 1997, compare il concetto di abisso ma anche di aperto, la sorprendente possibilità che Apocalisse sia oriente.
La voce recitante, debole lume, serpente di latta, può ancora impedire alla tenebra di entrare. E alla voce che chiede:
«Che cosa vuoi?» una voce – voce di bambino, o di sapiente – eternamente risponde: «Vedere se c’eri».
Tratto da Magda Indirei, L’ultima rivelazione
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