Ogni giorno, intorno a noi, scompaiono dei luoghi. Angoli di mondo creati dall’uomo e dalla natura, carichi di un senso che indoviniamo senza mai comprenderlo del tutto, ma dotati di un carattere, di una voce propria: un frutteto che appare tra i campi di mais, protetto da una staccionata; una chiesa in cui da tempo nessuno viene più a pregare; il muro di un cortile di periferia su cui si arrampica un rosaio; o un albero secolare in cui tutto un mondo di uccelli, insetti e muschio ha trovato asilo.
L’esistenza di questi luoghi è sempre appesa a un filo. Il progresso, che come dice Pasolini omologa e annienta tutto ciò che incontra sul suo cammino, non tollera né volentieri né a lungo le eccezioni. E un luogo è un’eccezione. Una singolarità, uno strappo nel paesaggio uniforme e impersonale della modernità. A modo suo, un atto di sovversione.
La nostra epoca ha assistito alla nascita dei «non luoghi»: i centri commerciali, gli aeroporti, gli spazi verdi, i quartieri di servizi, le zone residenziali… Scenografie inanimate davanti alle quali si svolgono le nostre esistenze di uomini ridotti a semplici utenti consumatori di spazi. Pianificati, concepiti a tavolino negli studi degli urbanisti e dei professionisti dell’assetto del territorio, i non luoghi scendono sempre dall’alto. E i principi da cui nascono, economici o puramente funzionali, valgono per qualsiasi punto del globo.
Un luogo invece è un mondo a sé. Ci si orienta facilmente perché possiede sempre una destra e una sinistra, un alto e un basso, un centro. È espressione di un ordine che comprendiamo d’istinto e con il quale possiamo identificarci. Come se vi ritrovassimo, anche quando entriamo per la prima volta, qualcosa che ci apparteneva e che forse neppure sapevamo di aver smarrito. Qualcosa di intimamente nostro che riscopriamo come nuovo. Penetrare in un luogo vuol dire sempre tornare, ritrovare qualcosa di perduto, che si manifesta ora come dono.
Tutto ciò avviene perché un luogo è una creazione stratificata, organica, prodotta dal lento lavorio del tempo, degli elementi naturali e dall’azione, volontaria o meno, degli uomini. È forse questo a conferirgli il suo spessore poetico, la sua intensità, e quella luce indefinibile che caratterizza ogni vero luogo, anche il più umile o quotidiano.
E se gli spazi della modernità rispondono solo ai bisogni materiali e quantificabili degli utenti, il luogo sembra soddisfare un’aspirazione più profonda dell’uomo, di cui raramente tengono conto i progetti urbanistici. Quella di abitare un mondo che possieda un senso, un ordine profondo capace di legarlo a un territorio, al colore della luce, alla storia che si è accumulata in un angolo di terra, ai suoi suoni e ai suoi odori. Che importa se questo senso resta spesso inafferrabile? È la sua presenza che cerchiamo prima di ogni cosa. Ed è della sua assenza nel nostro paesaggio quotidiano che soffriamo.
È per questa ragione che un luogo sembra poter esistere solo ai margini della modernità, nelle tante periferie del mondo, là dove l’oblio o l’incuria degli uomini gli hanno permesso di sopravvivere, dove crescono felicemente il muschio e le felci. Al punto che è lecito chiedersi se un luogo non sia altro, nel paesaggio contemporaneo, che il frutto di un caso, se la condizione della sua esistenza non sia l’abbandono.
Così è un miracolo ogni volta che ci imbattiamo in un posto come quelli evocati all’inizio: veri luoghi che, per usare una frase fatta, ma in questo caso esatta, ci rapiscono. Ci sottraggono cioè al tempo ordinario, quello della Storia, e alla rete di spazi neutri della vita contemporanea. Ci immettono, senza che ci rendiamo necessariamente conto del passaggio, in un cerchio magico, un tempo dilatato: un oltre-tempo.
Cos’è la gioia che ci pervade, allora? Come spiegare la sensazione che proviamo, di stupore, di turbamento e di piacere, se non addirittura di felicità, quando ci troviamo improvvisamente in un luogo «abitato»? E abitato da cosa o da chi?
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Che sia delicato come un convegno furtivo o violento come una rivelazione improvvisa, l’incontro con il luogo è sempre un evento. Ne usciamo ogni volta trasformati, con l’impressione che qualcosa sia accaduto realmente in quegli istanti in cui il mondo ha avuto luogo e il luogo si è fatto mondo, e che una vera e propria epifania dello spazio si sia prodotta.
Alcuni poeti contemporanei hanno raccontato quest’esperienza. Philippe Jaccottet, per esempio, in una poesia scritta negli anni Quaranta a Ninfa, a sud di Roma:
In questo giardino la voce delle acque non si prosciuga,
sarà una lavandaia? o forse le ninfe laggiù?
La mia voce non riesce a mescolarsi a quelle
che mi sfiorano, si allontanano da me e passano infedeli,
restano solo queste rose che si sfogliano
nell’erba in cui ogni voce, col tempo, viene meno.
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Chi conosce Ninfa, dove l’acqua scorre tra gli alberi rigogliosi, le rose e le rovine di un borgo medievale, comprenderà il turbamento di cui parla Jaccottet. Già ai tempi di Plinio il Vecchio, quando in quest’angolo solitario della pianura Pontina sorgeva solo un tempio dedicato alle ninfe, i viaggiatori erano vittime di strani e meravigliosi miraggi. Il giardino lussureggiante, dall’aspetto a tratti quasi selvatico, che qui è stato piantato nel Novecento, non ha fatto altro che rendere più manifesto l’antico carattere sacro del posto.
Ma cosa viene rivelato in questo modo? Da dove giunge la voce che crediamo di sentire? Domande destinate a restare aperte… L’epifania, come sempre, lascia più domande che certezze. Di fronte al luogo ci ritroviamo, ogni volta, nell’atto di chi interroga e nonostante ciò questa esperienza ci radica saldamente nel presente, rassicurandoci, anche se solo per qualche istante, rispetto al nostro posto nel mondo.
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Un luogo in cui fu edificato un tempio è, beninteso, un haut-lieu, come si dice in francese, un luogo alto. Il sentimento del sacro vi rimane a volte per anni o per secoli (se l’ombra, appunto, lo protegge) dopo che il posto ha perso la sua funzione di spazio di culto. Resta fisicamente percepibile, quasi comprensibile anche per i moderni, che dell’antico culto sanno poco o nulla. Questo sentimento, quest’aura sacra, è forse uno dei tratti distintivi di ogni vero luogo. Una presenza.
In un altro testo Jaccottet racconta la scoperta casuale della rovina di una cappella, sperduta nella campagna del sud della Francia, durante una passeggiata solitaria. Il carattere sacro del sito è semplicemente dovuto alla forza poetica che questo possiede, al suo valore in quanto luogo, più che alla sua antica funzione religiosa. E ancora una volta sorgono pressanti gli interrogativi:
Cos’è un luogo? Cosa fa sì che in un luogo come quello di cui ho parlato all’inizio di questo libro qualcuno abbia innalzato un tempio, più tardi trasformato in cappella, se non la presenza di una fonte e il sentimento oscuro di avervi trovato un «centro»? (…) Mormorante più che eclatante, un’armonia si lascia intravedere. Allora non si ha più voglia di lasciare questo posto, o di fare il minimo movimento; si è costretti, o meglio portati al raccoglimento. Questo recinto di muri sgretolati in cui crescono le querce, dove di tanto in tanto passano correndo un coniglio selvatico o una pernice, non sarebbe la nostra chiesa?
Il sentimento del sacro che scaturisce dall’incontro con il luogo ha contorni destinati a restare vaghi. Non può e non vuole farsi religione. E nemmeno teme il dubbio, perché non appartiene all’ordine della teologia ma a quello della poesia.
Per i Romani, ogni angolo della Terra era abitato da una divinità minore, un genius loci. Ciò che ai loro occhi distingueva uno «spazio» (generico, senza tratti individuali) da un «luogo» era il fatto che il luogo era unico, irripetibile, assolutamente singolare grazie, appunto, alla presenza del piccolo dio senza nome. Il mondo dei Romani era pieno di divino e il poeta Servio poteva affermare: «Nullus locus sine genio».
Insediarsi da qualche parte, costruire una casa, una fortificazione, o fondare una città, presupponeva un dialogo con il dio, una negoziazione. Occorreva comprendere ciò che egli desiderava, scendere eventualmente a compromessi con lui, trovare un terreno d’incontro tra le sue esigenze e quelle degli uomini. Solo a questa condizione il progetto d’insediamento poteva andare in porto. Saper interpretare il volo degli uccelli al di sopra del posto prescelto era altrettanto indispensabile che padroneggiare i principi dell’ingegneria. E, prima di ogni cosa, occorreva saper ascoltare.
La presenza immanente del divino, dell’invisibile nel visibile, garantiva la stabilità stessa del cosmo. I Romani lo sapevano: la Terra che condividevano con gli dèi era abitabile perché sacra. Bisognava allora preservare ad ogni costo il legame che univa gli uomini al divino, sempre sul punto di spezzarsi, costruendo ninfei, templi e altari dedicati ai misteriosi numi del luogo, recintando boschi sacri. Anche nel cuore stesso dell’Urbe.
Per loro – come per tutti i popoli dell’antichità e per le popolazioni animiste che ancora oggi sopravvivono in Amazzonia, in Africa o nei deserti australiani – il pericolo maggiore, la disgrazia che minaccia da sempre gli uomini, è abitare una Terra abbandonata dagli dèi, e perciò priva di centro, sprovvista di senso.
Ed è proprio questo che è accaduto in Occidente, secondo quel processo che il sociologo Max Weber ha definito «disincantamento del mondo». La terra prima, poi il cielo, si sono svuotati del divino. Il dialogo con le cose in mezzo alle quali abitiamo è ormai solo un gioco da bambini o, al limite, da poeti. Come spiega Carl Gustav Jung:
Nessuna voce giunge più all’uomo da pietre, piante o animali, né l’uomo si rivolge a essi sicuro di venir ascoltato. Il suo contatto con la natura è perduto e con esso è venuta meno quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico sprigionava.
Ora che sono partiti gli dèi, le ninfe e i geni dei luoghi eccoci soli, abitanti di un mondo che ha perso ogni traccia di sacralità e di mistero, in cui per orientarci abbiamo solo gli strumenti sempre più perfezionati della tecnologia, non il nostro cuore né tanto meno la nostra mente.
Tratto da: Marco Martella, Tornare al giardino, Ponte delle Grazie editore
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