Il primo ambiente dove mi sono trovato e mosso, fuori dai confini della casa dove abitavo con la mia famiglia, è la città. Sono nato e ho vissuto i miei primi dieci anni di vita a Milano, in seguito mi sono trasferito, insieme alla mia famiglia a Roma. Sono quindi prima di tutto, mi piaccia o no, un cittadino. E se oggi mi capita di tornare a Milano per qualche motivo, dopo oltre sessant’anni che non ci vivo più, non riesco a superare una penosa, crescente sensazione di malessere. Non riesco a ritrovare una traccia che in qualche modo mi ricolleghi agli anni dell’infanzia, a parte le case vissute con la mia famiglia e con gli amici loro e i miei, verso le quali sopravvive ancora un legame tutto sentimentale. Penso a come ogni giorno mi capitava di uscire fuori del portone, per strada, e di entrare dentro il corpo vivo della città. Allora, per quanto fossi piccolo, con la statura mia di bambino, levando il capo lungo le facciate dei palazzi, mi riusciva di arrivare con lo sguardo fino all’ultimo piano, mi muovevo dentro una dimensione cui avevo appreso poco a poco ad adeguarmi.
Oggi, a cominciare dal dopoguerra e poi sempre più, sia in quelle strade del centro dove è avvenuta la ricostruzione, che tanto più in vicinanza della Stazione Centrale, nella città nuova, per quanto levi in alto lo sguardo, non faccio che incontrare altri piani: piani su piani su piani; non mi giunge nessuna traccia di vita, una presenza, un suono percepibile.
Il segno, la traccia che nella Milano di oggi mi ricollega ancora al tempo e all’ambiente della mia infanzia non sono tanto gli edifici rimasti indenni, le case famigliari dei quartieri dove vivevano gli amici dei miei genitori o miei, e che frequentavo d’abitudine – via Filodrammatici, piazza della Scala, piazza San Babila, piazza del Duomo, la Galleria, via Brera, via Durini, via Manzoni – e tutto il Liberty rimasto miracolosamente immune attorno a via Vincenzo Monti fino al Parco (come allora per antonomasia veniva chiamato), ma invece lo stridere violento e perdurante delle ruote dei tram nelle rotaie. Oggi come oltre settanta anni fa, sempre il medesimo, lacerante stridore.
E le campane, tra le più tristi che mi è capitato di sentire in vita mia, e ancor peggiori nella loro cupaggine luttuosa a Stresa o Premeno o dovunque, nella provincia. Se cerco di pensare a quale potesse essere il cielo di quei miei anni milanesi, per tutta la mia infanzia ricordo solo pioggia, lo spessore mal sondabile dal basso della nebbia, quel grigiore che non permetteva agli occhi di salire in alto, nell’oltre celeste. Non ricordo di quei tempi un solo cielo stellato, uno spicchio di luna, una luna piena. Certo, c’erano le vacanze al mare, in campagna, in montagna, ma le scoperte di quelle parentesi furono altre: i boschi, gli alberi, i voli dei corvi, il moto e il colore delle onde del mare. Per sapere quale aspetto avesse la volta celeste mi occorreva di andare a vederla al Planetario.
Il trasferimento a Roma coincise per me con la scoperta della luce del cielo, di quel tanto e moltissimo cielo che abita qui a Roma la notte, la luna con le sue fasi crescenti e calanti e l’intera volta stellata. E i balletti degli storni in autunno. E le nuvole. È a Roma che ho scoperto il colore e la consistenza delle nuvole, le loro forme singolari, finalmente, il loro candore. E quando mi è accaduto, in seguito, di sorvolarle su un aereo, di vedere dall’alto la loro immensa coltre, ne sono rimasto così profondamente affascinato da immaginare che su quegli sterminati campi mi sarebbe piaciuto camminare.
Eppure, ad essere onesto, per quanto la Milano di oggi mi dispiaccia, non credo che la mia vita avrebbe seguito il corso che ha seguito se a Milano non fossi nato; se il senso, non so quanto cosciente, di assenza di luce, forme e colori non avesse dominato la mia infanzia. Senza tutto questo la mia vita non sarebbe stata quella che è stata, e io non sarei quel che sono. Senza questo senso e sentimento di assenza del cielo – a paragone al cielo diurno e trasparente di Roma quando soffia la tramontana, limpido fino alle montagne innevate, al di là dei boschi di pini di Villa Savoia, o nelle singole forme, tutte diverse una dall’altra, delle nuvole, e non soltanto. Se non avessi avvertito fin da bambino la mancanza dei prati nei Giardini Pubblici, dove quei poveri fazzoletti verdi pettinati all’inglese erano sorvegliati dai vigili in divisa, affinché neppure noi bambini ne varcassimo i confini, se non a rischio di una multa – ho appreso poi, finalmente, il gran piacere di calpestare i prati, avendone di fronte a casa mia a Roma, in via Panama, uno grandissimo, confinante con Villa Savoia, dove noi ragazzi con i nostri fucili ad aria compressa andavamo a caccia di lucertole, di ambitissimi ramarri e perfino di qualche raro serpente. E infine gli alberi, che avevo conosciuto soltanto ai giardini pubblici, le grandi splendenti Magnolie e gli Ippocastani, generosi dei loro frutti lucidi chiusi nel riccio che mio padre (e in seguito anch’io presi questa abitudine con le castagne) usava portare in tasca e accarezzare come portafortuna, furono gli unici che conobbi a Milano e furono i primi alberi di una serie, non finita neppure oggi, che appresi a conoscere e di cui mi sono occupato per il resto della vita.
La luce, il cielo, i prati, quei pochi alberi furono il seme, l’origine di tutto il mio agire successivo; come più tardi fu Venezia ad insegnarmi il gioco e il senso degli spazi, dei pieni e dei vuoti, il loro necessario contrasto; come, ancora più tardi, furono gli Ulivi dell’area costiera attorno a Monopoli, gli Ulivi antichissimi di Puglia sulla terra rossa, ad insegnarmi il piacere della forma di ogni albero singolo, non confinato nella gabbia di un “modulo vegetale” (per me un nonsenso, un controsenso in termini), come usa da noi trattarli la maggior parte degli architetti (non certo Barragan o Sørensen9).
Potrei quasi dire che Milano mi ha insegnato il senso della fuga. Cito a questo proposito una frase di una lettera di Monet, che ho trovato casualmente in un articolo di giornale, dove questi parla della sua visita in Italia come di “una campagna di pittura”. Io disgraziatamente pittore non sono, ma se devo dare un senso al mio viaggiare, alla ricerca continua che mi ha mosso fin dal principio e tuttora mi muove è stata, è e sarà fin che vivo “una campagna di paesaggio”. Oggi come mai prima mi rendo conto, nelle visite alla città attuale, con le sue chiusure da incubo, che mi fanno sentire prigioniero del cemento, che è stata Milano, con i suoi Navigli perduti e il suo cielo negato a segnare in quel che può avere di buono l’intero corso della mia vita, e le sono grato di esservi nato e cresciuto e di avermi, grazie alle sue assenze, educato.
Tratto da: Ippolito Pizzetti, Naturale inclinazione, Divagazioni coerenti di un paesaggista ribelle
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