Mister Smith va a Madrid

Oriana Fallaci. A esser sinceri, signor Capra, mi sembra quasi impossibile che lei sia Frank Capra. E non già perché la immaginassi diverso. Malgrado ella sia un monumento di gloria cinematografica e uno dei registi più popolari del mondo, la immaginavo proprio così: piccolo e bonario, in maniche di camicia e con la pipa fra i denti, una gran bocca sardonica e due occhietti che paiono due fiammiferi accesi. La immaginavo anche nonno, e infatti lo è già: scusi, sa, se lo dico. Mi sembra impossibile, ecco, che lei sia Frank Capra perché dopo il suo concittadino Orson Welles lei è l’uomo più inafferrabile degli Stati Uniti d’America. La prima volta che la cercai, mi pare a Hollywood, lei era in India. La seconda volta che la cercai, probabilmente in India, lei era in Giappone. La terza volta che la cercai, probabilmente in Giappone, lei era in Cecoslovacchia. La quarta volta che la cercai, probabilmente in Cecoslovacchia, lei era in Italia. Parlarle finalmente in una stanza d’albergo a Madrid ha del miraggio. Ma che ci fa ora a Madrid? Me lo dica senza scherzare: lei ha talmente l’aria di ridere sempre su tutto e su tutti.

Frank Capra. Ci preparo un film per Samuel Bronston: il mio quarantacinquesimo o qualcosa del genere. Un film sul circo, infatti si chiamerà Circus, con John Wayne, lo schermo gigante e i colori. Una cosetta umoristica e spettacolare. In quegli altri posti, a parte la Cecoslovacchia dov’ero per un festival, ci stavo invece per il Dipartimento di stato. Insomma per il governo. In India, ad esempio, dovevo parlare con Nehru: d’un tratto mi sono scoperto doti diplomatiche. E me le sono scoperte perché amo viaggiare. Soprattutto viaggiare gratis. Io vado dovunque mi paghino il viaggio. Presi il vizio durante la Seconda guerra mondiale, quand’ero colonnello dell’esercito americano incaricato di dirigere il servizio fotografico militare. In cambio di farmi rischiare la vita su quei bombardieri, il governo di Washington mi pagò il viaggio in un mucchio di posti: Europa, Africa, Pacifico.

Oriana Fallaci. È a lei dunque che si devono quei meravigliosi documentari bellici dell’ultima guerra?

Frank Capra.Sì, comandavo un gruppetto di colleghi abbastanza bravini: John Huston, George Stevens, Anatole Litvak, Billy Wilder. No, Billy Wilder era in Aviazione. Con John si fece lo sbarco in Sicilia. Però non creda che riesca a viaggiare sempre gratis. In Russia, per esempio, ci andai a mie spese nel 1937. Io e Bob Riskin, uno scrittore mio amico, ci eravamo messi in testa di vedere la parata del Primo Maggio, così comprammo il biglietto dell’aereo e andammo a Mosca: solo per veder la parata. Mio Dio! Che brutto ricordo!

Oriana Fallaci. Perché? L’arrestarono?

Frank Capra. No, no. Peggio.

Oriana Fallaci. Ebbe una discussione con Stalin?

Frank Capra. No, no. Peggio. Ma se glielo racconto, crederà che scherzi. Non mi ha chiesto d’essere serio?

La vedo serissimo, tragico anzi. è diventato perfino bianco.

Frank Capra. Ogni volta che ricordo quella parata divento bianco. Lei non sa cosa fu. Uscimmo dall’albergo alle quattro del mattino… Oh, mio Dio! Bene. Dunque usciamo dall’albergo che sono le quattro del mattino, un gran buio, e dopo esser passati attraverso migliaia di poliziotti raggiungiamo le tribune dove c’è Stalin che si lecca i baffi, serio serio, e dove scopriamo che non c’è posto a sedere. Il colpo è duro in quanto io e Bob non saremmo venuti da Los Angeles a Mosca a veder la parata se ci avessero detto che non c’era posto a sedere, ma poi ci facciamo coraggio e restiamo in piedi: ad aspettare la parata che incomincia alcune ore dopo, con cannoni e cannoni, tutti i cannoni del nuovo impero romano, per non dir le altre cose come i fucili e i soldati. I cannoni stanno dunque passando che Bob esclama: «Mio Dio, permesso permesso, devo andare in un posto», ma gli rispondono: «Fermo, non si può uscire, stanno passando i cannoni». Passano altri cannoni, intanto è mezzogiorno, e anche io esclamo: «Mio Dio, permesso permesso», ma mi rispondono: «Non si può, stanno passando i cannoni». Bob si arrabbia e dice: «Che paese è mai questo dove non si può nemmeno andare in un posto», ma non gli risponde nessuno e continuano a passare cannoni. Viene l’una, vengono le due, vengono le tre, vengono le quattro, io dico: «Bob, bisogna fare qualcosa, forse i russi non fanno pipì ma gli americani la fanno», quando i cannoni finiscono e incominciano le bandiere. Al che si ode un urlo e vedo Bob che scavalca la tribuna e si butta tra le bandiere che son portate da migliaia di operai, migliaia e migliaia di operai, sicché grido: «Bob!», e mi butto dietro di lui. Le assicuro che non è proprio il caso di ridere.

Non rido, mi scusi, non rido. Vada avanti. Che accadde?

Frank Capra. Accadde che io e Bob si agguantò il lembo di una bandiera e ci si mise a marciare con gli operai, cantando sebbene ci mancasse la voce, cercando con gli occhi un piccolo buco ma il buco non c’era, c’era solo quello schieramento di polizia, più duro del ferro, più alto di un muro. «Bob,» dicevo cantando «vedi niente?» «No, niente di niente» diceva Bob, cantando anche lui. E così, vedendo niente, reggendo il lembo della bandiera, cantando, morendo, continuammo per miglia e miglia, finché fummo in aperta campagna, dove le file si ruppero, e tutti, dico tutti, uomini, donne, bambini, si misero a correre, a correre, verso i muri, verso le case, verso gli alberi, verso niente. Mio Dio! Che cattivo ricordo!

Piacerebbe a Krusciov, questa storia. Perché non gliel’ha raccontata quando è stato a Hollywood?

Frank Capra. Non mi è riuscito. Spyros Skouras non mi dette il tempo. Spyros è il capo della 20th Century Fox. Cominciarono a parlare, lui e Krusciov, grassi e rotondi come prosciutti, sicché sembravano gemelli, e Spyros spiegava quanto era grande l’America e più dell’America la 20th Century Fox, Krusciov spiegava quanto era grande la Russia e più della Russia Krusciov, finché litigarono e non riuscii a dire niente a Krusciov. Se mi paga il viaggio vado a Mosca e gliela racconto, la storia.

Potrebbe andarci con la scusa di un film: così le danno anche la diaria. Vero è che lei non ha mai fatto film fuori d’America. Questa è la prima volta, con Circus.

Frank Capra. Sì, ma anche stavolta con personaggi americani e attori americani. Come uomo mi diverto a viaggiare, come regista no. Io ho bisogno di conoscere la gente che racconto in un film. Voglio dire che non me la sento, ad esempio, di fare un film coi francesi o sui francesi perché non capisco i francesi, allo stesso modo in cui non me la sento di fare un film coi russi o sui russi perché non capisco i russi. Forse potrei fare un film sugli italiani o con gli italiani, ma anche loro non son mica sicuro di capirli.

Eppure dovrebbe capirli. Lei è italiano. Insomma: nato in Italia.

Frank Capra. Siciliano. Nato a Bisacquino, provincia di Palermo. Quando mio padre, Salvatore Capra, un povero contadino che coltivava arance e limoni, emigrò nel 1903, io avevo cinque anni. Che ne so in fondo degli italiani? Non sono neppure mai tornato a Bisacquino, non mi dice nulla. Cosa potrei raccontare?

La storia di quella partenza. La storia di questo povero contadino siciliano che coltiva arance e limoni e un giorno parte con la famiglia per andare a coltivare altre arance e altri limoni nel grande paese che chiamano America ma di cui non sa nulla, nemmeno la lingua. È una bella storia.

Frank Capra. Mio Dio se lo è! Io non so dove abbia trovato il coraggio, quel povero omino. Aveva già quarantotto anni, un po’ tardi per cambiare. Ma Benedetto, il mio fratello maggiore, era emigrato in California, non voleva più tornare in Sicilia, e il povero omino volle raggiungerlo. Vendette tutto quello che aveva, ci caricò su un barroccio fino a Palermo, eravamo sei figli, qui ci buttò sulla nave… Più di due settimane di mare impiegammo per arrivare a New York, otto giorni di treno per arrivare a Los Angeles. Per otto giorni, sul treno, non mangiammo che pane e banane perché non si sapeva domandare che quello, banana in inglese si dice banana e pane, in tutte le lingue, si dice portando le dita alla bocca.

Los Angeles allora era piccola: piena di campi con arance e limoni come quelli che avevate lasciato, solo un poco più grandi. Non offriva una corsa all’oro.

Frank Capra. Infatti ci mettemmo subito a fare i mestieri più duri: mia madre a raccogliere olive in una piantagione, mio padre a lavorare in un ranch, io a vender giornali. Di tutta la famiglia fui l’unico a voler andare a scuola, e fu difficile convincerli, in un certo senso per loro era ridicolo andare a scuola, erano venuti lì per far soldi, non per andare a scuola. Ma io volevo qualcosa di meglio di ciò che essi avevano, volevo essere uguale alla gente tra cui ora vivevo. Così mi iscrissi a una scuola scientifica: il Californian Institute of Technology.

Strano che un poeta come lei, un umorista come lei, venga da studi scientifici. Forse l’influenzò il Grande Paese, la sua tecnica.

No. Semplicemente, la matematica mi era facile, la chimica mi affascinava. E poi non volevo diventare un umorista o un poeta. Volevo diventare un buon ingegnere. E così lavorai come un cane per pagarmi gli studi, studiai come un cane per non perdere tempo, e a diciannove anni ero già laureato: in ingegneria chimica.

Dunque nel 1917. Hollywood come industria del cinema era già incominciata: De Mille e Lasky si erano stabiliti tra le arance e i limoni fin dal 1910. Mi piacerebbe sapere la verità su come lei divenne regista. Quando si parla di Frank Capra si pensa sempre al Frank Capra degli anni Trenta e Quaranta: quello di Mr. Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità), per esempio, non quello che inventò buona parte del cinema americano e mondiale.

Frank Capra. La verità è che fu un caso. Conseguita la laurea ero andato soldato: gli Stati Uniti erano entrati in guerra. E, finita la guerra, mi trovai senza lavoro. Così mi misi a fare i mestieri più assurdi e un giorno mi trovai a San Francisco con un conto d’albergo da pagare e i bagagli chiusi a chiave in camera. In mano, soltanto un giornale. Sul giornale era scritto che a Golden Gate Park giravano un film e, chissà perché, non me lo sono mai spiegato, andai a vedere e mi presentai come «Frank Capra di Hollywood». Immediatamente un brav’uomo dall’aria smarrita mi fece un inchino e mi tese la mano. Domandai con sussiego che film intendeva fare, rispose: «Un vero film, con la gente e le cose. Metterò la gente e le cose dinanzi alla macchina e girerò». Io non ero mai stato in un teatro di posa, ne sapevo meno di lui, e la tecnica mi parve giustissima. Però sapevo che la pellicola non durava più di quattro minuti perché avevo fatto il fotografo e, per fargli vedere che ne sapevo moltissimo, ridacchiai che non potevano fare ciò che volevano fare perché la pellicola durava solo quattro minuti. L’informazione lo sconvolse. Mi chiese cosa facevo a San Francisco. Risposi che ero in vacanza. Mi chiese quanto volevo per aiutarlo mentre ero in vacanza. Io feci il conto dei soldi che dovevo all’albergo, erano settantacinque dollari, e risposi settantacinque dollari. Lui mi dette settantacinque dollari e io me ne andai.

Senza nessuna intenzione di ritornare, scommetto.

Nessuna. Infatti andai in albergo, tutto contento, pagai, ritirai i bagagli sequestrati e uscii per recarmi alla stazione. Davanti al treno, però, la coscienza prese a dolermi. Quel brav’uomo mi aveva dato settantacinque dollari, la sua fiducia, non potevo abbandonarlo così. Lasciai la stazione, entrai in un cinema, e ci rimasi tutto il giorno a guardare quella strana faccenda detta “motion picture”. Poi tornai dal brav’uomo e gli chiesi che storia voleva fare. Rispose una storia di Kipling, ambientata a Calcutta. Dio mio! Non ero mai stato a Calcutta ma avevo ciò che in italiano si chiama…

Faccia tosta. Lei non sa l’italiano? Credevo proprio lo sapesse.

No, no. Pocco pocco. Non is very gentile per those who gave me faccia tosta but pocco pocco. Dunque risposi che avrei usato un metodo completamente nuovo: nessun attore professionista, solo gente così.

In Italia questo metodo ha dato nome a uno stile, a una scuola. Pensi che si sta meditando di metterli in Campidoglio i registi che prendono attori dalla strada: quando saranno morti, s’intende.

Frank Capra. Davvero?! Oh! Ah! Strano. Io lo feci perché temevo che gli attori professionisti capissero che non ero un regista. Con una paura che il brav’uomo scoprisse l’imbroglio!… Invece disse: «Bravo, bravo», e così cercai i tipi che avevano una faccia da indiano, poi una chorus girl molto scema, troppo scema per capire qualcosa. Infine telegrafai a un mio amico operatore: «Vieni subito perché devo fare un film stop. Come si fa a fare un film?». Lui venne e non lo sapeva, era un operatore di attualità. Sicché come due ciechi ci mettemmo a fare il film, che fu finito in tre giorni.

Ma questo è il lavoro dei produttori. Sì, quei signori che cercano i tipi con la faccia da indiano, poi una chorus girl molto scema, e infine telegrafano a un amico per chiedere come si fa. Da noi in Italia c’è tutta una mitologia su di loro.

Frank Capra. Davvero?! Oh! Ah! Strano! Comunque quando il film fu finito io non sapevo come metterlo insieme, così andai da un tipo del laboratorio che si chiamava Mister Ball, signor Palla, e gli dissi: «Senta signor Palla, devo confessarle una cosa, non ho mai fatto un film prima d’oggi». Il signor Palla mi guardò in modo insolito, molto insolito, non disse nulla, poi fece un gran sospiro e mi spiegò. Io capii, cucii insieme tutto, poi guardai il tutto ed era un film. Dopodiché il signor Palla disse: «E ora che ne facciamo?». «Lo vendiamo» risposi. Uscii, lo vendetti per tremilacinquecento dollari, il doppio di quello che era costato, e nello stesso momento ebbi la sensazione di aver trovato il mio lavoro. Sì, sì. Mi chiusi nel laboratorio, imparai a sviluppare la pellicola, a stampare la pellicola. Poi andai a Hollywood. Era il 1926. Divenni subito soggettista e sceneggiatore. Poi anche regista. Dirigevo i film con le stesse storie che scrivevo.

Ma questo è quello che fanno oggi i registi-autori. In Italia, e anche in Francia, c’è tutta una leggenda anche su loro. Li paragoniamo a Galileo Galilei, li guardiamo con venerazione, siamo convinti che siano rivoluzionari.

Davvero?! Oh! Ah! Strano.

Sì, sì. Quando poi lanciano i divi o le dive, non sto a dirle cosa succede: io, per esempio, scrivo fiumi di parole. Sì, sì. A proposito: non che lei sia bravo ed eccezionale come son loro, ma di divi e dive ne ha lanciati parecchi, vero? Gary Cooper, Barbara Stanwyck, Clark Gable, James Stewart, Claudette Colbert…

Frank Capra. Gary Cooper, no: non l’ho proprio lanciato. Dio mio, non che gli abbia fatto del male, ma lanciato no. Neanche Jimmy. Gli altri, sì. Prendiamo il caso di Barbara Stanwyck. C’era da fare quel film, The Miracle Woman (La donna del miracolo), e io avevo in testa un’altra attrice. Il capo della Columbia per cui lavoravo mi suggerì Barbara e io dissi: «Fatemela vedere», ma mica volentieri. Barbara a quel tempo aveva vent’anni, era molto difficile, parlava pochissimo. Entrò nel mio ufficio, mi ascoltò cinque secondi, poi si alzò gridando: «Lei non mi vuole!», e andò via. Allora venne il marito, in quel periodo Frank Fay, a gridare: «Cosa ha fatto a mia moglie? Veda almeno il provino». Era così arrabbiato che subito volli vedere il provino che durava tre minuti. Bene. Dopo il primo minuto piangevo, dopo il secondo ero deciso a scritturarla. Barbara non è solo una attrice straordinaria, è una donna straordinaria. Vuol bene a tutti, tutti le vogliono bene. Quando morirà le faranno il funerale più grande che sia mai stato fatto a Hollywood.

Corna facendo. E Clark Gable?

Frank Capra. Clark lo scelsi per It Happened One Night (Accadde una notte). Mio Dio, nessuno voleva interpretare quel film: la gente non sa mai leggere le commedie allegre. Per esempio: volevo Robert Montgomery e lui rifiutò. Clark mi fu mandato dalla MGM perché era stato cattivo e bisognava punirlo. Così venne dai grandi studios della MGM ai piccoli studios della Columbia ed era arrabbiatissimo, ubriaco da morire. «Vuoi che ti racconti la storia? Vuoi leggerla?» gli chiesi. «Me ne frego della sua dannata storia e me ne frego del suo dannato film» disse. Poi si alzò e andò via anche lui. Per la parte della ragazza, idem. Tutte rifiutavano: Mirna Loy, Margaret Sullavan, finché seppi che Claudette Colbert era in vacanza per un mese. Andai da Claudette e per prima cosa fui aggredito dal suo cane lupo che mi morse il didietro e un orecchio, poi da lei in persona che mi disse: «Se ne vada, sono in vacanza». Ma io sapevo che era francese, che la filosofia francese, e soprattutto Claudette, non prescindono dal denaro, strizzai l’occhio e dissi: «E se le raddoppio il compenso?». Rispose: «Ok», e feci il film. Mio Dio! Nessun film ha mai guadagnato tutti e cinque gli Academy Awards come Accadde una notte. Vinse l’Academy Claudette, e lo vinse Clark, e lo vinse Bob Riskin per il miglior soggetto e la migliore sceneggiatura, e lo vinse la Columbia per il miglior film dell’anno, e lo vinsi io per la miglior regia. Così vanno le cose in America e nel mondo.

Per quello, di Academy Awards lei ne ha vinti parecchi. È coperto di medaglie e di statuine come un ex voto. E ha fatto vincere anche parecchi attori. A proposito, mi dica, lei che è così intelligente: ma le piacciono gli attori?

Molto. Li amo. E buona parte del mio successo è dovuta a questo: che li amo. Per l’attore cinematografico il solo pubblico è il regista, e solo se lui sente che il regista lo ama riesce a lavorar bene. Sì, lo so cosa pensa, ma gli attori non devono essere intelligenti o brillanti, you see. Devono solo sentire. Non bisogna aspettarci troppo dagli attori, soprattutto non bisogna aspettarci che siano geni.

Io non mi aspetto che siano geni. Mi aspetto solo che non credano di esser geni. È diverso.

Frank Capra. Mio Dio, essere attori è un tale handicap. Certo, oggi gli attori si fanno vedere troppo in giro, pretendono di far troppe cose, danno troppe interviste. Solo Greta Garbo aveva le idee giuste sul fatto d’essere attrice. Si mostrava solo sullo schermo, non parlava mai, e così riuscì a fare di sé qualcosa di sacro: che non poteva essere criticato e che non deludeva. Fu così fin dall’inizio, non diventò così dopo: per boria. Io lo so perché la conosco bene. Eppure anche con me ha sempre parlato poco.

Oriana Fallaci. E… corna facendo, prevede anche per lei le feste che faranno alla Stanwyck?

La Garbo non è mortale. Sicché, come dicevo, gli attori d’oggi parlano troppo. Anch’io oggi parlo troppo.

Oriana Fallaci. Perché lei, pur essendo così ferocemente americano, è ancora talmente italiano. Questo si capisce anche a vedere i suoi film, mi pare. Alla Tv italiana hanno ridato recentemente alcuni suoi film: It’s A Wonderful Life (La vita è meravigliosa) e Mr. Smith Goes to Washington (Mr. Smith va a Washington)… I soliti padreterni li han definiti pieni di conformismo, e innocui. Secondo me invece erano dettati dall’anticonformismo più individualista. Ciò mi pare assai italiano.

Frank Capra. Lo credo anch’io. Anche questa abitudine a narrare le storie della piccola gente che combatte la gente grossa, le avversità più ciclopiche, è abbastanza italiano: direi. Però il mio modo di trarre le conclusioni è molto americano. La mia piccola gente vince sempre, non cede mai alle avversità. Voi col vostro Neorealismo pessimistico…

Oriana Fallaci. Il Neorealismo è esploso dopo una guerra che avevamo perduta. È nato dalla miseria, dalla paura, dalla fame. Il suo ottimismo nasce da un paese prospero, che si illude d’essere il Paradiso terrestre, che non conosce miseria, paura, fame. Diciamo che è un ottimismo nazionale a carattere storico.

Frank Capra. Non è vero. L’America non è sempre stata prospera, io non sono sempre stato prospero. I miei film di maggiore successo li ho girati dopo il crack del 1929, nel periodo della Depressione. E la Depressione fu una cosa molto seria in America. Provocò povertà, suicidi, banche chiuse. Però gli americani si sollevarono, e lo fecero da soli, nessuno li aiutò, non ci fu un piano Marshall per gli americani. You see: gli americani sono ottimisti perché sono forti e sono forti perché non sono superficiali. E siccome sono forti combattono sempre e non perdono mai: come gli omini dei miei film. Quando qualcosa di brutto gli succede, stringono i denti e dicono non importa, go ahead, vai avanti ragazzo. Questo dico e questo dicevo coi miei film. Né inventavo nulla: essi erano lo specchio della mentalità americana che è la mia mentalità: il mondo è buono, e la gente è buona, e il Bene trionfa.

Oriana Fallaci. Anche lei… Comunque, secondo me, c’era molto di più nei suoi film. C’era questo anelito di libertà e di giustizia. C’era questa critica secca del sistema, questo umorismo senza pietà…

Frank Capra. Gli americani criticano sempre sé stessi, ridono sempre di sé stessi. Io credo che il grande marchio della civiltà sia la capacità di ridere di sé stessi: quando un popolo sa ridere su sé stesso vuol dire che è un popolo libero. I dittatori, per esempio, non sanno ridere di sé stessi. Poverini, oltretutto non possono: i dittatori sono buffi e non lo sanno. Noi sappiamo d’essere buffi perché non conosciamo la dittatura. Questo siamo noi americani e gli altri non lo capiscono: ci dipingono sempre come dei ricconi idioti.

Oriana Fallaci. L’americano è il popolo più incompreso del mondo, il più equivocato. Non che siano sempre Lincoln, Maciste, Leonardo da Vinci o lord Brummel ma…

Frank Capra. E loro lo sanno, e quando non lo sanno lo sentono, e ne sono feriti, e non capiscono perché, e non sanno cosa farci, e non fanno nulla: fuorché continuare a essere americani perché sono americani. Ma lo sa fino a che punto questi cosiddetti ricconi idioti sono liberi? A questo: l’unica difficoltà che riportai col mio film Mr. Smith va a Washington fu la protesta di un senatore che telefonò al proprietario di un cinematografo: «Se non togliete quel dannato film, io non verrò più nel vostro dannato cinema». E il proprietario del cinema: «Oh, sì, senatore. Vorrei toglierlo subito senatore, ma non posso entrare».

Oriana Fallaci. Senta, signor Capra: lei ha mai avuto noie durante il maccartismo?

Frank Capra. Durante che cosa?

Il maccartismo.

Frank Capra. Cosa?!

Oriana Fallaci. Maccartismo, McCarthy, senatore McCarthy. Quel signore che ad esempio mise nei guai i Dieci di Hollywood.

Frank Capra. Il maccartismo: mio Dio! È così poco importante che non lo ricordavo nemmeno, non capivo nemmeno di che cosa parlasse. Sì, McCarthy fu peggiore del peggiore dei comunisti: ma tutto è stato più mitologizzato fuori dell’America che in America. Quei dieci erano comunisti ed ebbero qualche difficoltà.

Oriana Fallaci. Un momento, un momento. Altro che qualche difficoltà. Ai tipi come Arthur Miller fecero un bel processino e i tipi come Dalton Trumbo hanno ripreso solo tre o quattro anni fa a firmare sceneggiature e soggetti.

Frank Capra. Io non sono mai stato coinvolto in quella faccenda. Non solo perché non ho simpatia per i comunisti, non solo perché la politica la faccio nel senso che, se mi piace un uomo, lo voto, non solo perché le campagne elettorali non le faccio a nessuno e voglio esser libero di ridere su tutti, ma perché la mia critica si è sempre espressa in modo umoristico. Il segreto dell’umorismo è che ti permette di dire ciò che non puoi dire con la faccia seria. Io vedo tutto in chiave umoristica, la tragedia non la capisco.

Oriana Fallaci. Allora avrà il suo daffare in Spagna. Questo popolo tragico, che parla sempre della morte, che si diverte solo con la morte, che perfino agli angeli mette la maschera della morte… Quando penso all’angelo di seconda categoria che c’è nella Vita è meravigliosa: quello che deve guadagnarsi le ali…

Frank Capra. Gli angeli di seconda categoria si trovano solo in America: benedetti. Capisce ora perché ho sempre fatto i film in America e basta. E poi io sono un igienista. Vado a letto alle undici, mi alzo alle sei e mezzo per passeggiare, vivo in campagna dove coltivo avocado, sono sposato dal 1932 con una adorabile californiana che è californiana da quattro generazioni, gallese di origine, ho tre figli, uno di ventisette, una di ventiquattro, uno di ventun anni, tra un mese sarò ancora nonno perché mia figlia aspetta due gemelli; non ho mai divorziato. Un semplicione.

Oriana Fallaci. No, no: lasciamo l’imbroglio. Altro che semplicione. Non mi sembra davvero un semplicione uno che fa public relations per il Dipartimento di stato, e scrive storielle come le sue, e si interessa di scienza…

Frank Capra. Ah, quella sì! Lì sono bravo davvero: più bravo che a coltivare avocado. Sono uno dei boarding director del Californian Institute of Technology, se non continuassi a fare il regista potrei benissimo fare l’insegnante di scienze, mi intendo seriamente di cosmonautica… Ero matto di gioia quando quei ragazzi andarono su, se fossi più giovane non so che darei per andar su con la mia cosmonave. Lei no?

Oriana Fallaci. Come no? Se non fossimo afflitti da secolari, anacronistici tabù, direi che viviamo in un’epoca meravigliosa…

Frank Capra. Meravigliosa e interessante. La più interessante perché la più scientifica. Lo spirito dell’uomo sta avanzando così velocemente. L’uomo è un fenomeno straordinario: capace degli scherzi più tremendi. Guardi il cinema, ad esempio. Ai tempi del cinema muto l’uomo era riuscito a farne un’arte. Poi venne il Verbo, come nella Genesi, e lo riportò alle caverne. Si dovette ricominciare daccapo. Mio Dio, il nastro sta per finire. Arrivederci e buon lavoro. Se ha qualche dubbio sulla traduzione mi chiami pure. Scherzavo, sa: l’italiano lo so. Che gliene pare della pronuncia? (Nota della intervistatrice: in perfetto italiano nel testo).

Oriana Fallaci. Signor Capra, lo sa come si dice in italiano? Lei…

Madrid, gennaio 1963

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